154. L'amore di Cacciari

Pubblico questa acutissima analisi del prof. M. Trainito a piena delucidazione di quanto intenda C. S. Peirce (si veda la citazione iniziale della presentazione di questo sito) sul rischio della filosofia di divenire hobby per oziosi:

“Cacciari è uno degli ultimi giapponesi imboscati convinti che col gioco di prestigio pseudoheideggeriano delle etimologie si possa capire l'essenziale di un concetto o di un fenomeno. Quest'intervista, a tal proposito, è esemplare. Un delizioso, coltissimo conversare sull'amore che alla fine, malgrado le raffinate citazioni letterarie, filosofiche e linguistiche, riesce a non dire - come direbbe il grande filosofo Cetto - una beata minchia. Ora, pretendere da Cacciari almeno un rapido riferimento agli studi più recenti sull'amore dal punto di vista biologico ed evolutivo sarebbe troppo, però non sarebbe scortese esigere da lui di non prendere per i fondelli il prossimo (oltre che se stesso), per esempio con quella insensata insalata filologico-concettuale finale in cui il ben noto mito platonico del "Simposio" è messo a braccetto con il formulario francescano, che sarebbe come spalmare ketchup su un cornetto caldo”


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Da "Repubblica" dell'1 agosto 2012

CULTURA
PARLAMI D’AMORE/5.
FILOSOFIA
CACCIARI: “LA NOSTRA RICERCA
IMPOSSIBILE DELL’ARMONIA PERFETTA”
NA­DIA FU­SI­NI

Il fi­lo­so­fo e l’a­mo­re. La fi­lo­so­fia e l’a­mo­re. Dal­la sto­ria del­le pas­sio­ni al rap­por­to tra eros e co­no­scen­za, Mas­si­mo Cac­cia­ri (tra i suoi li­bri an­che Ama il pros­si­mo tuo, usci­to per il Mu­li­no e scrit­to con En­zo Bian­chi) rac­con­ta le tan­te vo­ci del di­scor­so amo­ro­so. Un dia­lo­go, più che un’in­ter­vi­sta.

“Non mi piac­cio­no gli uo­mi­ni” di­ce Am­le­to ai fal­si ami­ci Ro­sen­cran­tz e Guil­den­stern. E quel­li ri­do­no co­me so­spet­tan­do… “Nean­che le don­ne” ag­giun­ge. Ep­pu­re Am­le­to, se non ama, vuo­le pe­rò co­no­sce­re e non fa che chie­der­si “che co­s’è l’uo­mo?” Il fi­lo­so­fo è un uo­mo “ero­ti­co”? «È un uo­mo aman­te, sen­z’al­tro. Ma l’og­get­to del­la sua pas­sio­ne non è il me­de­si­mo: se la fi­lo­so­fia pro­met­te sa­pe­re, amo­re che co­sa pro­met­te? C’è chi di­ce: pa­ce, fu­sio­ne, un ap­pro­do fe­li­ce. In san­scri­to Ra­ma è il dio del­l’a­mo­re e ra­ma­ti si­gni­fi­ca un luo­go tran­quil­lo, do­ve sia lie­to il so­sta­re. Eros e ere­mia­po­treb­be­roa­ve­re un eti­mo co­mu­ne… ».
Mi in­te­res­sa la pa­ro­la che hai ap­pe­na det­to: ere­mia, so­li­tu­di­ne. Nel sen­so co­mu­ne l’a­mo­re è il con­tra­rio, è l’u­no più uno che fa due, è l’a­ni­ma che tro­va la pro­pria ge­mel­la… Ma pren­di Prou­st, pren­di l’a­mo­re di Mar­cel per Al­ber­ti­ne: se l’a­mo­re è fu­sio­ne con l’al­tro, esta­si del pos­ses­so, al­lo­ra Mar­cel non ha “ama­to” Al­ber­ti­ne. O quel non-amo­re è pro­prio l’es­sen­za del­l’a­mo­re? «Di­rei di sì. Ma bi­so­gna sta­re at­ten­ti: lo scac­co del­la co­mu­ni­ca­zio­ne, e dun­que del­l’a­mo­re, è uno scac­co del­la co­no­scen­za. Per tor­na­re a eros e ere­mia, al­me­no in Oc­ci­den­te fi­lo­so­fia e eros so­no sem­pre a-oi­kos, sen­za di­mo­ra. E pro­prio quan­do sem­bra­no agi­re da di­fen­so­ri del­la ca­sa, ne di­ven­ta­no i di­strut­to­ri per ec­cel­len­za — poi­ché dal­la ca­sa pre­ten­do­no l’im­pos­si­bi­le: ar­mo­nia per­fet­ta, de­di­zio­ne, gra­tui­tà, eter­ni­tà. Non si dà eros che ac­quie­ti, co­me non si dà fi­lo­so­fia che per­ven­ga al sa­pe­re as­so­lu­to. Ma co­me la fi­lo­so­fia è sa­pe­re che ama il pro­prio cer­ca­re, co­sì eros ama so­prat­tut­to ciò di cui man­ca, e che te­me di po­ter mai pos­se­de­re. I mae­stri fran­ce­sca­ni af­fer­ma­va­no – in po­le­mi­ca an­che con Tom­ma­so – che l’a­mor Dei quag­giù è più per­fet­to di quel­lo del­le ani­me­bea­te e de­gli an­ge­li…». Pro­via­mo a di­stin­gue­re tra le vo­ci e i vol­ti del­l’a­mo­re: eros, ami­ci­zia, ca­ri­tà… Si­gni­fi­ca­no for­se lo stes­so? «As­so­lu­ta­men­te no – an­zi, tra lo­ro è guer­ra. Per que­sto amo­re fa ma­le. Men­te e cor­po vor­reb­be­ro fon­der­li in uno – vor­reb­be­ro che eros non con­trad­di­ces­se ami­ci­zia – che ca­ri­tà con­te­nes­se in sé fi­no in fon­do ogni for­ma del toc­ca­re e go­de­re – che ogni sen­so e sen­sa­zio­ne fos­se­ro di­vi­ni… Que­st’i­dea amia­mo in ogni at­to d’a­mo­re. Ma è un’i­dea – e ne pa­tia­mo l’ir­real­tà. An­che se per que­sto l’a­mia­mo an­co­ra di­più».
Vuoi di­re che l’a­mo­re è an­che una ca­pa­ci­tà di sen­ti­re? «Sì, una ca­pa­ci­tà…». E an­che una for­ma del pen­sa­re? «Nes­su­na sen­sa­zio­ne è al­tret­tan­to im­me­dia­ta­men­te con­nes­sa al­l’es­ser- pen­sa­ta quan­to il sem­pli­ce cre­de­re di “pro­va­re amo­re”. Na­tu­ral­men­te, per gli ani­ma­li do­ta­ti di lo­gos an­che pro­va­re se­te o fa­me è da su­bi­to pen­sa­re la se­te e la fa­me. Ma “sen­ti­re amo­re” lo è an­co­ra di più e in mo­do di­ver­so: non si ac­com­pa­gna al­la do­man­da “co­me fa­re a sod­di­sfar­lo”, ben­sì a quel­la, me­ta­fi­si­ca­men­te con­tra­ria, ri­guar­do al no­me pro­prio di chi ab­bia­mo in­con­tra­to, e per­ché quel no­me, che an­co­ra igno­ria­mo, ar­ri­vi a mu­ta­reil no­stro…». L’a­mo­re sa­reb­be un mo­do di sta­re in pre­sen­za di un al­tro di per sé in­co­no­sci­bi­le, e ta­le espe­rien­za in sé ci tra­sfor­ma? «In amo­re il mu­ta­men­to è tra­sfor­ma­zio­ne del­la men­te, me­ta­no­ia in­di­stri­ca­bil­men­te con­nes­sa al­la no­stra di­men­sio­ne di cor­po vi­ven­te, al no­stro pa­thein, al­le no­stre vi­sce­re…». E dun­que se la ca­pa­ci­tà di sen­ti­re è una for­ma del pen­sa­re, al­lo­ra il pen­sa­re e l’a­ma­re e l’es­se­re vi­vi so­no tut­t’u­no. È que­sto che vuoi di­re? «È que­sto che dob­bia­mo­pen­sa­re. Quan­do il pen­sa­re è in­ter­ro­gar­si su tut­to ciò, pen­sie­ro e es­se­re-vi­vo si strin­go­no in un ab­brac­cio non scio­gli­bi­le, che è an­che un di­lem­ma in­scrit­to del re­sto nel­la no­stra lin­gua, do­ve se tor­nia­mo agli eti­mi es­se­re na­ti, di­ve­ni­re, cre­sce­re si­gni­fi­ca­no sen­ti­re, ac­cor­ger­si, sa­pe­re ». Al­lo­ra que­sto ac­ca­de in amo­re: pa­thos e lo­gos di­smet­to­no ogni astrat­ta se­pa­ra­tez­za… «Ma non cer­to per pro­dur­re il bal­sa­mo del­la con­ci­lia­zio­ne, an­zi al con­tra­rio in que­sto ca­so ne sor­ti­sce una for­ma di spae­sa­men­to, e in­sor­ge po­le­mos. In al­tri ter­mi­ni, il lo­gos in­quie­to non ces­sa di chie­de­re il no­me pro­prio del­l’a­ma­to, men­tre il pa­thos si tor­men­ta nel­l’im­pos­si­bi­li­tà del suo stes­so do­man­da­re ».
Per­ché amo­re non vuo­le uni­ver­sa­li­tà, astra­zio­ne; im­po­ne al con­tra­rio la ve­ri­tà del­l’es­ser­ci sin­go­lo. La sin­go­la­ri­tà è il gran­de te­ma del­l’a­mo­re: per­ché que­sto-qui? E dal­la lo­gi­ca del­l’u­ni­ver­sa­le en­tria­mo nel­la lo­gi­ca del­l’u­no per uno… «Esat­to. La no­stra que­stio­ne è che non c’è di­scor­so che pos­sa de­cli­na­re que­sta sin­go­la­ri­tà. La poe­sia sol­tan­to, for­se, aiu­ta a tro­var­ne trac­cia nel lin­guag­gio. Per que­sto la fi­lo­so­fia del­l’a­mo­re sem­bra co­sì spes­so non ave­re al­tra ri­sor­sa che ci­ta­re i poe­ti… ». I qua­li in­se­gna­no che l’a­mo­re non ri­guar­da mai sol­tan­to i due aman­ti. L’in­con­tro tra i due si af­fol­la di al­tre pre­sen­ze e fan­ta­smi… «En­tram­bi cer­ca­no nel­l’al­tro l’Al­tro, vo­glio­no co­no­scer­lo, sa­per­lo. En­tram­bi si ri­vol­go­no a “ciò” che ec­ce­de la lo­ro stes­sa ca­pa­ci­tà di sen­ti­re-e-pen­sa­re. Il Ter­zo è l’es­sen­zia­le: è “ciò” che uni­sce, che ag­gio­ga gli aman­ti im­pe­den­do ogni he­no­sis… ». E cioè l’u­nio­ne stes­sa, l’i­dea stes­sa del­l’u­ni­tà. Co­me se que­sta ine­vi­ta­bil­men­te si tra­du­ces­se in mor­ta iden­ti­tà. Pen­so a co­me il te­ma del­l’in­co­mu­ni­ca­bi­li­tà ra­di­ca­le del­la per­so­na si pre­sen­ta al­la let­te­ra­tu­ra mo­der­na, al ci­ne­ma, qua­si fos­se l’o­sta­co­lo fon­da­men­ta­le con­tro il qua­le ur­ta lo slan­cio del­la “fra­ter­ni­tà uni­ver­sa­le”. Il pa­thos del So­cia­li­smo, di­ce da qual­che par­te il fi­lo­so­fo Le­vi­nas, si in­fran­ge con­tro l’e­ter­na Ba­sti­glia del fat­to che ognu­no di noi re­sta pri­gio­nie­ro di se stes­so. La di­spe­ra­zio­ne del­la­co­mu­ni­ca­zio­ne im­pos­si­bi­le se­gna il li­mi­te di ogni pie­tà, di ogni amo­re. E an­che di ogni idea­li­smo col­let­ti­vo, po­li­ti­co. «Va­le in tut­ti i ca­si lo stes­so esi­to: se l’Al­tro non vie­ne sen­ti­to- sa­pu­to, l’a­mo­re si esau­ri­sce nel più vuo­to fra-in­ten­der­si, in una “con­ver­sa­zio­ne” da tea­tro del­l’as­sur­do. La ve­ri­tà è che quan­do si ini­zia a “sa­pe­re” di ama­re, av­vie­ne sem­pre una anam­ne­si – si ri­sve­glia pre­po­ten­te il ri­cor­do di ciò cui non po­tre­mo mai da­re no­me». Il ri­cor­do, di­ci. Dun­que, l’a­mo­re è ri­vol­to al pas­sa­to, è me­mo­ria? For­se io amo que­st’uo­mo qui­per­ché sul suo vol­to, nei suoi mo­di ri­tro­vo un trat­to che mi ri­cor­da il pa­dre? e tu in que­sta don­na un ge­sto in cui ri­na­sce la ma­dre, la so­rel­la? «Che l’a­mo­re ab­bia rap­por­to con un pas­sa­to im­me­mo­ria­le, lo ri­ve­la­no le sue pa­ro­le, te­se ver­so l’ul­ti­ma ra­di­ce, che ri­ma­ne inat­tin­gi­bi­le. E una vol­ta sce­si agli in­fe­ri, non è fa­ci­le “tor­na­re a ri­ve­der le stel­le”. Ma a te do-man­do: sei cer­ta che esi­sta amo­re pa­ter­no? In tut­ti gli idio­mi in­do-eu­ro­pei, e an­che in quel­li se­mi­ti­ci, do­mi­na la re­la­zio­ne pa­ter-po­tens. E una si­mi­le re­la­zio­ne è in­com­pa­ti­bi­le con l’at­to d’a­mo­re. La gra­tui­tà, l’ar­ri­schio, la ca­pa­ci­tà di do­na­re ri­ti­ran­do­si, di la­sciar-es­se­re sen­za nul­la esi­ge­re, di non giu­di­ca­re, se mai esi­sto­no, esi­sto­no nel­la don­na sol­tan­to». In­te­res­san­te: io ho in me l’im­ma­gi­ne ro­ve­scia­ta di un pa­dre ma­ter­no, nien­te af­fat­to po­ten­te, ma sem­mai gau­den­te, gio­co­so. Men­tre la ma­dre è esi­gen­te, se­ve­ra, lei sì po­ten­te. Vo­glio di­re che cer­te qua­li­tà e ca­ri­smi pos­so­no cir­co­la­re al di là del­la dif­fe­ren­za dei ses­si. « Ma­ter­no è Fran­ce­sco, e per­ciò in­se­pa­ra­bi­le da Chia­ra. Si­gni­fi­ca­to es­sen­zia­le del­l’i­co­na del­la Ma­don­na col Bim­bo quan­do que­sti ab­bia già il vol­to del Cro­ce­fis­so, o ad­di­rit­tu­ra del De­po­sto. Im- po­ten­za trion­fan­te – de­sti­tu­zio­ne fin dal­la fon­da­zio­ne del mon­do di ogni lo­gi­cae lin­guag­gio del po­te­re». Mi vie­ne da di­re: ec­co, il “ve­ro” amo­re. Ma c’è un ul­ti­mo vol­to d’A­mo­re di cui vor­rei ra­gio­na­re con te, quel­lo “crea­ti­vo”. Scrit­to­ri, ar­ti­sti, poe­ti co­no­sco­no la par­ti­co­la­re fe­con­di­tà del­la crea­zio­ne e ne par­la­no co­me di una ve­ra e pro­pria gio­ia. La gio­ia del fa­re, crea­re, pro­dur­re. L’a­mo­re del­la pro­pria ope­ra co­me del­la pro­pria crea­tu­ra. Un amo­re ma­ter­no, co­me quel­lo che hai ap­pe­na no­mi­na­to, di Fran­ce­sco. Si può pro­va­re quel­l’a­mo­re ver­so il mon­do? Ri­cor­di Han­nah Arendt, il suo amor mun­di? Tu uo­mo fi­lo­so­fo e po­li­ti­co lo pro­vi quel­l’a­mo­re lì? È amo­re del mon­do la po­li­ti­ca? «Più che di amor mun­di, par­le­rei di ri­fles­sio­ne sul­la vi­ta. Que­sto è la fi­lo­so­fia. Cer­to, im­ma­nen­te al­la vi­ta stes­sa è la pas­sio­ne po­li­ti­ca, pas­sio­ne che in­ten­do al­la Spi­no­za co­me una pas­sio­ne cal­da, ap­pun­to vi­ta­le. Non li­bi­do di po­te­re sul­l’al­tro, vo­lon­tà di trion­fo, ma co­mu­ne in­te­res­se a pren­de­re par­te l’un l’al­tro al­la me­de­si­ma po­ver­tà. Non di­men­ti­ca­re che è dal grem­bo di Pe­nia, di so­rel­la Po­ver­tà, che na­sce Amo­re».