Consiglio la lettura di questo splendido articolo tratto da:
http://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2012/12/28/la-colpevolizzazione-della-vittima-2/
Con colpevolizzazione della vittima si intende quell’atteggiamento assunto da chi ritiene la vittima di un crimine o di altre sventure parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto: questa interpretazione della vicenda si accompagna al tentativo di indurre la vittima stessa ad autocolpevolizzarsi.
Il concetto di colpevolizzazione della vittima è stato coniato dallo psicologo William Ryan che nel 1971 scrisse “Blaming the victim“, in risposta al saggio di Daniel Patrick Moynihan “The Negro Family: The Case for National Action” del 1965.
La teoria di Moynihan sosteneva che tre secoli di orrori perpetrati dai bianchi – con particolare riferimento alla schiavitù – avessero distrutto la struttura della famiglia di colore lasciando il caos: nascite al fuori del matrimonio, padri assenti, madri single, queste erano secondo Moynihan le cause del basso tasso di occupazione, del basso livello di scolarizzazione, della povertà; come soluzione proponeva che il Governo si impegnasse a rendere più solido il nucleo familiare, affinché tornasse ad essere la base su cui fondare una solida comunità nera. In parole povere: erano i neri che dovevano cambiare, loro gli unici a doversi impegnare per produrre un miglioramento nella loro vita.
Ryan obiettò che non era nel comportamento dei singoli cittadini di colore che andava ricercata la causa della loro povertà, del basso livello di scolarizzazione o delle difficoltà a trovare un impiego, ma che questi problemi affondavano le radici nella struttura della società analizzata nel suo complesso: una società che relegava le persone di colore ai margini, deprivandole degli strumenti necessari a vivere in maniera differente.
Il libro di Ryan fu definito “a devastating critique of the mindset that causes us to blame the poor for their poverty and the powerless for their powerlessness“, una critica devastante di quella mentalità che ci porta ad accusare il povero della sua povertà, l’impotente della sua impotenza, mentre la realtà è che queste persone hanno ben poche possibilità di ribaltare autonomamente la loro situazione: sono vittime di situazioni che non potrebbero in alcun modo controllare, come la mancanza di una adeguata assistenza sanitaria o l’impossibilità di sostegno economico nei momenti di difficoltà.
Non tutto ciò che accade ad una persona può essere controllato dalla persona stessa: ci sono cose che è in nostro potere controllare e cose che sfuggono al nostro controllo. Fra due condizioni patologiche, l’essere convinti di poter determinare ogni aspetto della propria vita e il sentirsi completamente in balia degli eventi, c’è una sana via di mezzo, quella che razionalmente ci permette di distinguere quando l’individuo domina ciò che avviene e quando ne è vittima impotente.
E’ molto comodo, per chi osserva dall’esterno, spostare la responsabilità sulla vittima; è un atteggiamento che permette, fra le altre cose, di ignorare un problema. Nel caso del libro di Ryan, a liberarsi di ogni responsabilità è la società nel suo complesso: sono le persone di colore le uniche reponsabili del loro status, la struttura sociale è perfetta così com’è e non necessita alcun cambiamento.
In psicologia sociale, si parla di errore fondamentale di attribuzione (o “errore di corrispondenza”): rappresenta la tendenza sistematica ad attribuire la causa di un comportamento esclusivamente alla persona che lo mette in atto (attribuzione disposizionale), sottostimando l’influenza che l’ambiente o il contesto può avere nel determinare tale comportamento (attribuzione situazionale). Vi è quindi una tendenza a sopravvalutare la disposizione mentale dell’individuo agente e contemporaneamente a sottovalutare i fattori situazionali. L’errore fondamentale di attribuzione è riscontrabile ed evidente quando qualcuno osserva e interpreta il comportamento altrui.
Perché? Perché così tutto è più semplice e rassicurante.
Se osservo qualcuno cui capita qualcosa di brutto, invece di analizzare tutti i fattori ambientali e sociali che possono aver contribuito a quell’evento, mi limito a puntare il dito contro di lui: veloce ed efficace. Il cervello umano tende sempre a semplificare le situazioni complesse.
Se mi convinco che è lui stesso la causa di ciò che è avvenuto e mi convinco che è stato un comportamento deviante a scatenare l’evento, in un qualche modo sto rassicurando me stesso: io non farò mai i suoi stessi errori, quindi a me non capiterà mai nulla di male.
Riassumendo: colpevolizzare una vittima ci deresponsabilizza e combatte la paura.
Nel 1980 lo psicologo Melvin Lerner espone la sua teoria del “mondo giusto”: le persone, al fine di costruire artificialmente una visione ideale e rassicurante di vita, tendono a considerare che nel mondo gli esseri umani ricevano quello che si meritano, nel bene e nel male. La conseguenza di questo atteggiamento è la convinzione che la vittima in fondo si meriti, almeno in parte, ciò che di triste le sta accadendo: “the sight of an innocent person suffering without possibility of reward or compensation motivated people to devalue the attractiveness of the victim in order to bring about a more appropriate fit between her fate and her character” (la vista di una persona che soffre, senza che vi sia alcuna possibilità di riscatto o compensazione, provoca nelle persone la tendenza a svalutare la vittima, allo scopo di creare una relazione più appropriata fra il suo carattere e il suo destino).
Un ultima considerazione: il destino.
Fato è un termine derivato dal latino fari verbo che significa dire, parlare quindi fatum, participio passato neutro vuol dire “ciò che è detto” o “la parola detta (dalla divinità)” a cui ci si deve adeguare e alla quale è inutile tentare di opporsi.
Destino invece deriva dal greco: [ìstemi] sto, che a sua volta ha origine dalla radice indoeuropea [sta] che indica lo stare fermo, fisso. La sua antichissima radice è comune ad un’enorme quantità di parole, come ad esempio ostinazione, statica, stabilità, stele. Il valore principale di questa parola sembra risiedere nel concetto di fissità.
Furono i Romani ad opporsi per primi al concetto di fato, proponendo un immagine dell’uomo come responsabile protagonista delle sue azioni e della lotta contro il bisogno e la miseria (“faber est suae quisque fortunae“, ciascuno è artefice della propria sorte Caesarem senem: de re pubblica, attribuite a Sallustio), in constrasto col sentimento che pervadeva il mondo classico: l’essere sottoposti a una necessità che non si conosce, che appare casuale e che pure invece guida il susseguirsi degli eventi secondo un ordine non modificabile.
La tragedia greca è il genere letterario che più profondamente si interroga sul concetto di destino e sul rapporto fra destino e libertà. Il filosofo Schelling ci racconta:
La tragedia greca rendeva onore alla libertà umana facendo lottare il suo eroe contro lo strapotere del destino: per non andare al di là di tutti i confini dell’arte doveva farlo soccombere, ma per riparare nuovamente a questa umiliazione della libertà umana, imposta dall’ arte, doveva farlo espiare anche per il delitto commesso dal destino.
E’ un grande pensiero quello di essere disposti ad affrontare anche la punizione per un delitto inevitabile per dimostrare così, attraverso la perdita della propria libertà, questa libertà, e proclamare, nell’atto stesso di perire, il proprio libero volere.
L’eroe alla fine muore, perché la vita, a volte, è terribilmente ingiusta.
Può sembrare banale e ci fa sentire piccoli e terribilmente impotenti.
Siamo piccoli e terribilmente impotenti.
Questa consapevolezza non ha mai impedito all’uomo di ingaggiare una lotta impari contro l’incalzare degli eventi: più l’uomo è consapevole della sua impotenza, più grande ed eroico è il gesto attraverso il quale si oppone al suo destino.
Possiamo essere sconfitti, ma la sconfitta non è necessariamente sintomo di inadeguatezza: possiamo essere vittime e contemporaneamente possiamo essere eroi.