di Francesco Dilauro
La Sinistra italiana era da tempo una liturgia. In fondo, i nostri migliori intellettuali hanno svolto un lavoro da bibliotecari, ma prodotto poche idee nuove. Ma non vorrei riprendere un vecchio paradigma tra struttura e sovrastruttura. Lo scollamento ideologica della Sinistra italiana fu innanzitutto politico. Mentre la società si imborghesiva irrimediabilmente sul modello di vita consumistico, nel PCI degli anni '70 convivevano diverse anime. Era ancora un partito comunista di ispirazione leninista, in cui la classe operaia svolgeva un ruolo egemone. Coesisteva con la piccola e media borghesia più progressista, ma pur sempre piccola e borghese. Berlinguer fu l'ultimo leader capace di tenere unita la contraddizione.
Con le famigerate mozioni la borghesia si impadroni del Partito per liquidarlo. Tutta la storia recente della sinistra italiana discende da tale matrice. Una borghesia il cui revisionismo è ancora storico, poichè si confezionò la forma di una socialdemocrazia degli anni '60, adatta ad un periodo di crescita e sviluppo capitalistico. Una borghesia incapace di analisi adeguate, che conseguentemente -dopo aver vagheggiato la crescita del benessere- si vide piombare la crisi addosso senza trovare alcuna ipotesi per risolverla. Una sinistra profondamente subalterna ai poteri forti, ai quali in ultima analisi demanda la risoluzione della crisi. Una sinistra profondamente convinta di essere nell'unico mondo possibile, mentre invece sappiamo i dogmi e le finzioni perpetrate dal capitalismo e rappresentate nei media come visione del mondo.
Ma ricordo che le sezioni erano già vuote da tempo e la gente non partecipava. La classe operaia era in forte difficoltà già prima che la globalizzazione la cancellasse col precariato. Era soprattutto una crisi di identità: ricordo una lunghissima schizofrenia tra concertazione nella prassi e liturgia rivoluzionaria nella professione di pensiero; una afasia critica che non seppe neppure prendere di petto i fatti terribili degli Anni di Piombo. Secondo me, il cuore della peste fu l'aver giudicato la società in cui viviamo come avviata ad una evoluzione di benefici e diritti, a prescindere dall'analisi dei rapporti di classe.