di YURI CONTI
Martha C. Nussbaum
L’intelligenza delle emozioni
Capitolo 1
Le emozioni come giudizi di valore
Nella prefazione del suo lavoro la Nussbaum afferma: «L’intelligenza delle emozioni è un libro di filosofia, ma anche un libro profondamente interdisciplinare»[1]. Lo studio delle emozioni, infatti, è un ambito di ricerca che accoglie al suo interno numerosissime discipline e grazie a questo dialogo interdisciplinare la filosofia ha finalmente potuto avvalersi di contributi ad essa esterni, anche di carattere scientifico. Tali contribuiti posso sicuramente aiutare la Nussbaum in quello che è il suo scopo all’interno di del libro: «Elaborare una teoria dell’emozione propriamente filosofica, ovvero rigorosamente argomentata, sviluppata attraverso il confronto con altri approcci filosofici, vecchi e nuovi, e basata sull’analisi di concetti chiave»[2].
Nello sviluppare la sua personale teoria delle emozioni, che non sarà definitiva e rigorosa come quelle di Cartesio o Spinoza, la Nussbaum sin da subito fa riferimento all’aspetto esperienziale dell’emozione all’interno della sensibilità contemporanea. La tesi che ella cercherà di difendere e dimostrare è che le emozioni sono giudizi di valore, ossia non impulsi o istinti, e neppure semplici processi psicofisici. Le emozioni hanno la capacità di riconoscere l’importanza e il grado di valore che il soggetto attribuisce all’oggetto per il quale prova l’emozione. Il grado di valore di cui la Nussbaum parla è un giudizio con cui il soggetto attribuisce importanza all’oggetto, importanza che deriva dal rapporto che l’oggetto ha nella concezione di vita buona del soggetto. Per chiarire meglio questi aspetti, ci conviene soffermarci brevemente su cosa la Nussbaum intenda con le espressioni valore e vita buona.
Il valore, in filosofia, è ciò che noi tendiamo a considerare come buono, secondo determinate concezioni di buono e cattivo che derivano dal contesto sociale e dal tipo di educazione che abbiamo ricevuto. Il valore, quindi, ha a che fare con un giudizio su qualcosa. Nell’epoca moderna assistiamo ad un pluralismo dei valori in quanto ogni individuo può pensare di scegliere una concezione di valori che non sia basata sull’universalità. Ad esempio, il filosofo canadese Charles Taylor ricorda come all’inizio dell’epoca moderna la dichiarazione di ateismo fosse una scelta pericolosa, in quanto le società occidentali di quel tempo fondavano la propria concezione dei valori su un universalismo di tipo religioso. Nella contemporaneità, invece, la fede religiosa è diventata una scelta fra le tante, perché questa universalità ha lasciato spazio a un pluralismo dei valori che permette ad ogni individuo di scegliere su quale concezioni valoriali fondare i propri giudizi di bene e male.
Il concetto di vita buona riprende invece un termine che la Nussbaum eredita dalla filosofia greco antica, ossia l’eudaimonia. Tradotta spesso erroneamente con felicità, concetto che in Aristotele è più uno stato di contemplazione passiva, l’eudaimonia racchiude al suo interno tutto ciò che il soggetto considera una vita buona per sé stesso, nell’insieme dei rapporti che egli instaura con le cose e le persone a cui attribuisce valore ed importanza e per le quali vale la pena impegnarsi.
Si potrebbe osservare che la concezione eudaimonistica sia un po’ troppo autoreferenziale e che tale relativismo non si possa conciliare con la volontà di costituire una teoria ma anche un’etica delle emozioni. In realtà il relativismo eudaimonistico è un relativismo buono perché contiene la consapevolezza che il soggetto elabora un giudizio dal suo punto di vista, dal suo orizzonte di senso, e che questo giudizio è di tipo storico, ossia condizionato dalla cultura e dall’educazione, ma che possiede anche la grande capacità di porsi in forma dialogica con altri orizzonti di senso perché il soggetto è in grado di confrontare ciò che è buono per sé con ciò che è buono per gli altri, mutando il suo modo di vedere e interpretare il mondo.
La concezione generale sin qui analizzata ci pone di fronte ad alcune problematiche che la Nussbaum analizzerà approfonditamente nei capitoli successivi. La prima problematica riguarda la valutazione della condizione di bisogno e di scarsa autosufficienza del soggetto, perché le emozioni rivelano la sua vulnerabilità di fronte ad eventi che non può controllare. Per tale motivo gli stoici associavano ad un’analisi delle emozioni di estrema perspicacia la tesi radicale secondo la quale è preferibile estirpare le emozioni dalla vita umana.
Il secondo aspetto problematico riguarda l’ambivalenza delle emozioni nei confronti degli oggetti ai quali si riferiscono. L’ambivalenza della vita emotiva è il risultato dell’intreccio fra emozioni positive e negative che il soggetto prova per l’oggetto al quale dirige i propri sentimenti: la consapevolezza che determinate cose o persone sono importanti per una concezione eudaimonistica di vita buona, e che da questi oggetti che il soggetto con controlla dipenda la sua prosperità, determina nella sua emotività dei sommovimenti emotivi che sfociano in amore e risentimento, affetto e gelosia.
Terminata l’introduzione, l’analisi della Nussbaum incomincia con il ricordo di quello che fu per lei un evento molto traumatico che le causò una forte reazione emotiva, ossia la morte della madre. La Nussbaum ricorda come il pensiero della morte imminente del suo genitore abbia influenzato notevolmente la sua personalità, facendole concludere che le emozioni hanno un ruolo determinante sul carattere dell’individuo. Il non controllo delle emozioni è quindi un aspetto evidente, di cui noi tutti facciamo quotidianamente esperienza, che l’influenza notevolmente la vita delle persona. Le emozioni sono forme di giudizio che attribuiscono a certe cose o persone, non controllabili dal soggetto, una grande importanza, oltre che riconoscimenti di bisogno e di assenza di autosufficienza. Sotto questo punto di vista, la teoria della Nussbaum riprende lo stoicismo. Essa infatti viene presentata dalla stessa autrice come una rivisitazione della teoria stoica delle emozioni, e più precisamente come una teoria neostoica di tipo cognitivo-valutativo. Gli stoici, come la Nussbaum, concordavano sul ruolo importante che le emozioni ricoprivano nella vita degli individui e vedevano nella loro manifestazione il riconoscimento di un bisogno che il soggetto ha nei confronti dell’oggetto per il quale prova emozioni. Ma la dottrina stoica si proponeva come una cura, una medicina in grado di aiutare l’uomo a non soccombere all’urgenza delle emozioni, liberandolo dalla condizione di eterno bisognoso. Su questo aspetto la teoria della Nussbaum differisce completamente, perché rinunciare alle emozioni e al ruolo che esse giocano nelle nostre vite significherebbe rinunciare ad una componente della nostra esistenza estremamente caratterizzante.
Ma come venivano interpretate le emozioni secondo la teoria stoica? Sicuramente la considerazione che lo stoicismo dava alle emozioni non era affatto positiva, a cominciare dalla loro natura ontologica. Le emozioni erano viste come moti non razionali, energie non pensanti che semplicemente dominano la persona e il rapporto con cui questa persona interagisce con il mondo. Benchè la Nussbaum concorda sull’attribuire alle emozioni una natura corporea, così come tutti i processi cognitivi, ritiene che questo non giustifichi la riduzione delle loro componenti cognitivo-valutative a moti non intenzionali. Tornando all’esempio dell’esperienza della morte della madre, la Nussbaum fa notare come le emozioni possiedano tutti gli elementi necessari per confutare la concezione stoica. In primo luogo le emozioni sono evidentemente in relazione, ossia hanno un oggetto al quale fanno riferimento e per il quale si manifestano. In secondo luogo le emozioni hanno un oggetto che è intenzionale, ovvero, esso appare nell’emozione nel modo in cui il soggetto che prova l’emozione lo interpreta. Infine, le emozioni risultano essere non dei semplici modi di vedere l’oggetto, ma dei sommovimenti emotivi legati alle credenza del soggetto nei confronti dell’oggetto.
Nel suo percorso di revisione, la Nussbaum evidenzia altri limiti dell’antica teoria stoica delle emozioni.
Il primo di questi riprende il concetto dell’eudaimonia precedentemente citato come fulcro centrale della vita emotiva umana. Le emozioni vedono il mondo dal punto di vista del soggetto secondo il suo personale complesso di scopi e progetti, ossia tutto ciò a cui il soggetto attribuisce valore entro la sua concezione di vita buona. Nel riflettere su come una persona debba vivere, ciascun individuo può raccomandare alcuni scopi molto generali come buoni per tutti gli esseri umani, prospettando quindi un carattere universale dell’eudaimonia. Procedendo nel ragionamento, tuttavia, ci si accorge che alcune cose non sono raccomandabili per tutti gli esseri umani, sebbene il concetto generalissimo di vita buona resti universalmente riconosciuto. Ci si rende quindi conto che ogni concezione eudaimonistica è riferita solamente all’individuo, e che un complesso di scopi e fini condiviso con tutti non realizza assolutamente la concezione di vita buona della totalità. Per esempio, la Nussbaum nota come lo scopo generalmente raccomandato a tutti della cultura estetica sia raggiungibile in modalità differenti, chi suonando uno strumento musicale e chi danzando. L’eudaimonia, quindi, è un concetto assolutamente autoreferenziale. Questo è un limite della teoria eudaimonistica antica, la quale intendeva invece costruire un sistema di fini e scopi comuni a tutti.
A questo punto la Nussbaum introduce il secondo e più serio limite al modello eudaimonistico antico: l’amore incondizionato. Ella ritiene che le persone amino e apprezzino cose che non reputano realmente buone, o perlomeno non universalmente. Cose che non sarebbero pronte a raccomandare agli altri come tali. Qualsiasi sia l’oggetto del nostro amore, quindi, sembra mancare sempre qualcosa, come se l’insieme delle cose buone dell’oggetto non bastino a spiegare i sentimenti e le emozioni che proviamo. In sostanza, amiamo ciò che amiamo. Per la Nussbaum questo è l’amore incondizionato, concetto che non trova spazio nell’eudaimonismo antico.
Sembra che l’autrice consideri l’amore per qualcosa di cui sappiamo fare un elenco delle cose buone e l’amore cosiddetto incondizionato, irrazionale, quello che viene dato senza spiegazioni o a priori come l’amore di un genitore per un figlio, come due tipi di amore differente.
Ma se la Nussbaum sta fondando la sua teoria delle emozioni sull’eudaimonia, ossia ciò che il soggetto considera buono per sé stesso e per i suoi fini, che includono sicuramente il fine generalissimo della felicità, sembrerebbe che l’amore incondizionato altro non sia che l’amore nei confronti di qualcosa che ci dona felicità e ci fa sentire bene. L’amore di un genitore per il figlio, ad esempio, non sembra essere realmente incondizionato, ma più che altro il manifestarsi dell’istinto naturale che, tramite la cura della prole, consente la prosecuzione della specie. Allo stesso modo, ogni tipologia di amore che non sa fare riferimento a delle peculiarità dell’oggetto amato non ammette automaticamente che l’oggetto in questione non ne possegga, ma che semplicemente non sono manifeste al soggetto. E la particolarità di questi oggetti è che la loro prosperità e la loro esistenza ci rendono felici, per il semplice motivo che assieme a loro soddisfiamo un bisogno di felicità insito nella natura umana. Ma perché alcune cose ci rendono felici e altre no? Non è forse questa la prova che, effettivamente, l’amore incondizionato esiste? Come la Nussbaum stessa sostiene, le emozioni sono guidate dalle consuetudini sociali, dalla lingua e dal contesto storico. Per questo motivo alcuni oggetti suscitano in noi un sentimento d’affetto che forse non riusciamo a spiegare linguisticamente, ma che è determinato dalla personalità dell’individuo. Se un uomo viene abituato sin da bambino a prendersi cura degli animali, è facile che svilupperà una forma di attenzione e affetto nei confronti delle altre specie, sentimento che porta alla felicità qualora egli si trovi in compagnia di un animale. Eppure quell’uomo, molto probabilmente, non saprà fornire alcuna spiegazione circa il suo affetto nei confronti degli animali, se non che stare con loro lo rende felice. Non si tratterà quindi di amore incondizionato, ma di un sentimento che è presente in quanto il suo manifestarsi induce nel soggetto uno stato di felicità. Ovviamente un sentimento affettivo di questo tipo rimane confinato nel complesso di scopi e fini dell’individuo, il quale può non sentirsi di raccomandare il suo atteggiamento a tutti, ma allo stesso tempo questo dimostra che è improbabile che l’oggetto del nostro amore sia mancante di qualcosa perché, come la stessa Nussbaum ha affermato precedentemente, l’oggetto è intenzionale e in relazione con il soggetto, per cui possiede sempre tutti gli elementi necessari affinché possa scaturire un sentimento di amore e di affetto. Sentimento che è sempre spiegabile.
Capitolo 2
Umani e altri animali: La concezione neostoica rivista
Nel secondo capitolo la Nussbaum si occupa dell’analisi della vita emotiva degli animali non umani. Il suo scopo è evidente: comprendere la vita emotiva degli animali può dirci qualcosa in più su quella umana. La Nussbaum è consapevole che le emozioni animali siano un argomento che non ha usufruito di contributi particolarmente approfonditi nel corso della ricerca filosofica e scientifica, perlomeno fino all’epoca contemporanea. L’animale, nella tradizione filosofica, non ha mai goduto di una grande popolarità e l’esistenza di una sua vita emotiva è stata più volte negata. Già gli stoici, nel formulare la loro teoria delle emozioni, credevano che esse implicassero la formulazione di entità proposizionali corrispondenti alle frasi in lingua, cosicché gli sembrava ovvio che le creature non dotate di facoltà linguistiche umane non potessero provare emozione.
La Nussbaum intende fornire un ulteriore punto di revisione dello stoicismo, confutando tale convinzione e dimostrando come anche gli animali hanno una vita emotiva perché, come gli esseri umani, sono in grado di attribuire importanza e valore alle cose di cui hanno bisogno.
Nel dimostrare l’evidenza dell’emotività animale la Nussbaum fa riferimento ad un controverso esperimento di Martin Seligman, pubblicato in Helplessness: On Depression Devrlopment, and Death. Nell’esperimento in questione un cane viene posto dentro un dispositivo, più precisamente una gabbia divisa in due da una barriera. Poco dopo un segnale dato da una luce, viene prodotto uno shock nella parte della scatola nella quale è posto il cane. Saltando la barriera, il cane può fuggire allo shock. I cani cominciano quindi a saltare la barriera, anche solo alla vista della luce che anticipa lo shock. Successivamente si prende un altro gruppo di cani e li si lega in modo da immobilizzali completamente. Una serie di shock viene prodotta sugli animali e non c’è niente che essi possano fare per evitare l’effetto. Dopo un certo periodo in questa posizione di impotenza, i cani vengo posti nuovamente nella gabbia con la barriera, quella in cui possono fuggire allo shock, ma questi cani si dimostrano incapaci di apprendere a fuggire e siedono indifferenti. Questo perché hanno appreso che la reazione volontaria non ha esiti postivi. È solo quando i ricercatori spostano di peso i cani al di là della barriera che essi cominciano ad imparare di poterlo fare da soli. Il fenomeno osservato convince Seligman che l’impotenza che il soggetto prova porti inevitabilmente all’aspettativa che un esito è indipendente alla reazione, alla riduzione della motivazione a controllare l’esito e alla produzione di paura fino a quando il soggetto è incerto circa l’incontrollabilità dell’esito. Infine, tutto ciò genererà nel soggetto una forma di depressione.
L’aspetto fondamentale dell’esperimento è stato quello di sottolineare l’importanza dell’interpretazione da parte del soggetto del fallimento del controllo: esiste quindi una differenza tra i casi in cui il soggetto crede che l’incapacità di controllare l’esito sia dovuta a un’inevitabile fallimento personale, che può essere corretto con un maggiore sforzo, e quelli in cui il soggetto si sente autenticamente impotente a fare qualcosa rispetto alla situazione. Questa conclusione è stata utilizzata per cercare di risolvere le differenze di apprendimento tra classi sociali diverse, in situazioni di forte stress e depressione, spesso causati dalla condizione di vita difficile e precaria.
Lo studio di Seligman aveva lo scopo di studiare i meccanismi della depressione animale per apprendere informazioni utili per curare la depressione umana, secondo un principio tipicamente antropocentrico. L’antropocentrismo è un concetto controverso, sul quale è pericoloso azzardare giudizi definitivi. Quello che possiamo affermare con certezza è che, nell’esame della storia del rapporto uomo-animale così come si è delineata nel contesto del pensiero occidentale, ha sempre prevalso una visione gerarchica del vivente e un rapporto di dominio da parte dell’uomo sugli animali. «Il paradigma darwiniano, tuttavia, ha rappresentato un momento di rottura con questa tradizione, invitando a reinterpretare il rapporto con il mondo del vivente all’insegna della continuità biologica e della selezione naturale»[3]. Sviluppando il suggerimento di Darwin, neuroscienze e biologia hanno potuto evidenziare il forte legame fra la natura animale e quella umana, come stiamo vedendo anche nel testo della Nussbaum, invitandoci a riflettere dunque sul legame morale che abbaiamo instaurato con gli animali. Ma se da tale riflessione sovviene che animali e uomini sono più simili fra loro di quanto si sia pensato fino a pochi decenni fa, e se questa evidenza fosse il presupposto per ripensare un legame uomo-animale che salvaguardi maggiormente il benessere delle specie più simili a noi, non sarebbe forse anch’esso una forma di antropocentrismo? Salvaguardare il simile è infatti un antropocentrismo subdolo e mascherato, ma sempre di antropocentrismo si parla e, per definizione, ogni statuto etico che ponga al centro qualcosa discrimina qualcos’altro. Quale sarebbe allora la soluzione? Quale dovrebbe essere la condizione necessaria e sufficiente affinché una vita sia degna di essere vissuta e salvaguardata?
Il filosofo Peter Singer elabora una forma di utilitarismo delle preferenze basato sul principio di uguaglianza interspecifica: «Quale che sia la natura dell’essere, il principio di uguaglianza richiede che la sua sofferenza sia valutata quanto l’analoga sofferenza di un altro essere»[4]. Il dolore fisico, dunque, è la prima condizione che accomuna tutte le specie la cui vita merita di essere salvaguardata e protetta. La valutazione di una vita deve avvenire, quindi, essenzialmente sul piano quantitativo, confrontando in termini di diminuzione della sofferenza o di aumento della soddisfazione le preferenze e gli interessi che si generano: se un individuo preferisce non soffrire, avrà un interesse a non farlo. L’utilitarismo di Singer sfocia inevitabilmente in una seconda condizione che accomuna tutte le specie con la capacità di provare dolore: il desiderio di vivere, causa e conseguenza del desiderio di non soffrire, e che subentra di fatto qualora si presentasse l’occasione di una morte indolore.
Queste due condizioni, che identificano gli animali come portatori di interessi per i quali la loro vita merita di essere salvaguardata, stanno alla base di quel sistema di pensiero che mira ad una revisione radicale del concetto di antropocentrismo che in Seligman vede uno dei suoi più convinti sostenitori.
Come sottolinea la stessa Nussbaum in una nota, il ricercatore è sensibile alle critiche riguardo la natura di questi esperimenti sugli animali e si difende usando un aperto antropocentrismo: «A mio avviso essi sono per la maggior parte non solo giustificabili, ma, per scienziati il cui impegno fondamentale è alleviare l’infelicità umana, sarebbe ingiustificabile non farli. Secondo me ogni scienziato, prima di fare un esperimento su un animale, deve porsi una domanda: è probabile che il dolore e la privazione che quest’animale sta per soffrire sia di gran lunga controbilanciato dall’alleviamento del dolore e della privazione umana che ne scaturirà? Se la risposta è sì, l’esperimento è giustificato»[5].
Seligman sembra però non considerare due questioni di fondamentale importanza: la necessità e l’alternativa sperimentale.
La questione della necessità ci invita a considerare tutti quegli aspetti che connotano un esperimento o una ricerca come indispensabili per un aspetto fondamentale della vita umana, ossia della specie per il quale l’esperimento viene compiuto. Lo studio di Seligman era veramente necessario? Le sue conclusioni hanno davvero aiutato delle persone? Le sofferenze umane che ha alleviato erano davvero così insopportabili da legittimare lo scaturire di una sindrome depressiva nei cani? Il suo esperimento ha davvero fornito dei dati così rivoluzionari? Alcune di queste domande aprono le porte ad un complesso dilemma morale intrinseco di relativismo. All’ultima cerchiamo di rispondere.
Per farlo dobbiamo introdurre la questione dell’alternativa sperimentale, ossia l’utilizzo di metodologie di ricerca alternative a quelle che prevedono l’uso diretto di animali. Nella fattispecie, le conclusioni di Seligman non sembrano avere nulla di rivoluzionario o di eccessivamente illuminante. Sostanzialmente, Seligman ha sostenuto che un’attitudine all’ottimismo circa le proprie possibilità di raggiungere importanti obiettivi è una parte importante nel conservare con successo la propria capacità di agire. Una teoria sicuramente importante per la concezione della continuità fra esseri umani e animali, ma che non fa altro che trasformare un assioma evidente nell’esperienza della natura e della logica in formula scritta. Le esperienze degli etologi o degli psicologi cognitivi, che studiano gli animali in natura o le persone malate, potrebbero fornire esattamente le stesse conclusioni. Seligman ha semplicemente ricreato il laboratorio delle situazioni che, sebbene non con le stesse peculiarità, si manifestano in natura nella vita di molti animali e, nella società umana, in molti individui affetti da depressione. La Nussbaum riferisce, all’inizio del secondo capitolo, un caso estremamente esemplificativo di una sindrome depressiva di un cucciolo di scimpanzé. Quello riportato dall’autrice è solo uno di tantissimi esempi di depressione fra gli animali verificabili semplicemente con l’osservazione e lo studio della loro vita allo stato selvatico. Mi sentirei addirittura di azzardare che anche una persona comune, ossia non un ricercatore o uno studioso, avrebbe potuto raggiungere le stesse conclusioni di Seligman con il semplice ausilio della logica applicato alle esperienze di vita comune a cui tutti, chi più chi meno, siamo sottoposti.
Era davvero necessario ricreare in laboratorio una sofferenza che esiste già in natura? Non stiamo parlando di ricerca strettamente medica, sebbene la depressione sia una malattia, ma di ricerca psicologica e comportamentale. L’etologia poteva fornire a Seligman i medesimi presupposti del suo esperimento (così come la psicologia), facendogli desumere le stesse conclusioni.
Un ultimo approfondimento lo merita la dichiarazione della Nussbaum che, nella nota in cui riporta le dichiarazioni di Seligman in difesa del suo esperimento, afferma: «Questa giustificazione antropocentrica può essere adeguata per i ratti, ma difficilmente lo è per i cani»[6]. La riflessione della Nussbaum accende la lampadina su quella che è la conseguenza diretta di un atteggiamento antropocentrico: lo specismo. Per Singer: «Lo specismo rappresenta un pregiudizio culturale che, similmente al razzismo o al sessismo, giustifica un trattamento differenziato di determinati gruppi individuali oppressi ed emarginati»[7]. In quanto specie dominante, ci sentiamo in potere di attribuire ad alcuni animali più diritti di altri. La Nussbaum avrebbe dovuto argomentare cosa differenzia ratti e cani al punto da legittimare il sacrificio dei primi a favore dei secondi, ma è difficile che ci riesca: lo specismo, così come il razzismo, non ha argomentazioni per dimostrare la superiorità di una specie nei confronti dell’altra se non quella di ricorrere all’antropocentrismo, ossia ad una dichiarazione di superiorità individuabile in caratteristiche peculiarmente umane, e alla conformazione culturale che, come facilmente intuibile, non può essere condizione sufficiente per legittimare un comportamento, così come una società in cui l’omicidio è diffuso come consuetudine sociale non può essere tollerata.
Per quanto riguarda il primo aspetto, qualsiasi tentativo di organizzazione gerarchica delle specie utilizza come metro di giudizio della superiorità o inferiorità di una specie o di una razza elementi che appartengono alla specie o alla razza dominante: l’uomo si considera superiore all’animale per la capacità di utilizzare il pensiero critico, ma difficilmente riuscirà ad argomentare perché questa caratteristica determini una reale superiorità senza ricorrere all’argomento religioso, dimenticando, spesso, che per lo stesso principio un uomo adulto e sano di mente dovrebbe essere superiore ad un bambino o ad un handicappato mentale. Se gli uccelli potessero partecipare alla discussione è facile che porrebbero loro stessi sul vertice della piramide, in quanto nella capacità di volare e catturare insetti sono sicuramente superiori a tutti gli altri animali, uomo compreso. Sarebbe interessante, ancor prima di procedere nel ragionamento, interrogarsi socraticamente su cosa sia in effetti la superiorità e come essa vada determinata, ma non è la sede adatta per discutere di queste tematiche.
Per quanto concerne la convenzione sociale, possiamo affermare con una certa sicurezza che essa possiede una base antropocentrica che riconosce in alcuni animali determinate caratteristiche simili a quelle umane che li rendono, in questo modo, culturalmente superiori agli altri. Da questa premessa vengono diffuse nella cultura di appartenenza un insieme di consuetudini sociali che, senza alcuna giustificazione se non quella dell’abitudine e della tradizione, distinguono gli animali destinati all’allevamento da quelli destinati al lavoro o alla compagnia. La Nussbaum dimostra, con la sua affermazione, di essere sensibile alla sorte dei cani impiegati da Seligman, ma di non esserlo affatto per un ratto. Il ratto, nel mondo, si è infatti costruito una brutta fama facendo da conduttore a terribili malattie e saccheggiando le scorte alimentari nei granai. Inoltre non si è lasciato addomesticare, e tutto ciò che non si piega alla volontà umana è sempre stato considerato portatore di scarsa intelligenza. Il cane, al contrario, condivide con l’uomo una storia millenaria, è stato modificato sia nell’aspetto che nel carattere dal rapporto con gli esseri umani e si presta particolarmente ad atteggiamenti facilmente antropomorfizzanti. Eppure, in certe parti della Cina e del sud est asiatico, il cane gode dello stesso trattamento che nel mondo occidentale riserviamo a maiali e vitelli. In India, invece, la vacca è considerata sacra e viene trattata come una divinità. Nei paesi anglosassoni e in America latina il cavallo è un tabù alimentare, per il grande rapporto che ha saputo stringere con quelle popolazioni nel corso della loro storia. D’altronde la Nussbaum non pecca di incoerenza, sin dall’inizio evidenzia come le emozioni vengano plasmate dalla società ed, essendo dei giudizi di valore, è naturale che le nostre conclusioni sul mondo siano influenzate dalla cultura. Il buon filosofo, però, deve cercare di far valere l’esercizio del pensiero critico in ogni contesto, distaccandosi il più possibile da ogni forma di condizionamento sociale.
Tornando all’analisi del testo, nel quinto paragrafo la Nussbaum riporta l’esperienza del filosofo George Pitcher che in The Dogs Who Came to Stay racconta la storia dei cani Lupa e Remus. Questo episodio sembra confermare quanto sostenuto fino ad ora, e cioè che la semplice esperienza e osservazione del comportamento degli animali sottoposti ad una vita che è di per sé fonte di stress e di sofferenza può aiutarci a comprendere come questi ultimi vivano le loro emozioni e reagiscano agli impulsi esterni, depressione compresa, senza doverli ricreare in laboratorio. La Nussbaum considera i due studi su piani nettamente diversi, classificando quello di Seligman come ‘teoria scientifica’ e quello di Pitcher come ‘teoria interpretativa del comportamento’. Sembrerebbe quindi che la scienza non sia in grado di operare al di fuori del laboratorio, ambiente nel quale la condizione reale viene simulata, ovvero ricreata, andando incontro al rischio di errori e approssimazioni. L’incapacità della scienza di uscire dal laboratorio e di studiare la realtà, senza ricrearla artificialmente, è un limite che mi sento apertamente di denunciare.
Tornando all’esperienza di Pitcher, l’autore nel libro racconta come Lupa fosse un cane randagio, abituato alle privazioni e probabilmente a ripetuti maltrattamenti. Pitcher trovò Lupa quando questa ebbe una cucciolata sotto il suo capanno degli attrezzi. Egli decise di nutrirla per il periodo in cui sarebbe rimasta lì, ma lei si rifiutava di avvicinarsi al cibo quando gli uomini erano in vista. Era chiaro che era attratta dal cibo, ma non riusciva ad avvicinarsi all’essere umano per il quale evidentemente nutriva un certo timore. Pitcher era deciso più che mai di conquistare la fiducia del cane. Ad un certo punto, un giorno, Lupa e il suo cucciolo Remus apparvero meno timorosi e si lasciarono avvicinare, manifestando la propria fiducia con un lieve movimento della coda.
Questa esperienza ha permesso all’autore di scoprire emozioni che non aveva mai realmente compreso in precedenza, a causa di una vita che era stata caratterizzata dall’incapacità di esprimere amore e dolore per la perdita e da una costante corrente di lutto, che egli fa risalire all’insistenza di una madre di negare tutti gli avvenimenti negativi. Pitcher attribuisce a Lupa emozioni con un ben determinato contenuto proposizionale, connesse con scopi importanti. La sua paura degli esseri umani contiene un pensiero che essi sono probabili fonti di dolore e maltrattamenti. Il suo desiderio del cibo, però, è un’altra forma di orientamento su uno scopo, visto come molto positivo. Pitcher teorizzò di essere, all’inizio, un ostacolo fra lei e il cibo, e quindi qualcosa di non apprezzato dal cane, attribuendo all’animale una sorta di pensiero causale. Quando il cane alla fine comincia a scodinzolare, in Pitcher avviene una forte reazione emotiva, perché la fiducia del cane sblocca la sua capacità di amare compressa nella sua incapacità di lutto per la morte della madre, la quale lo aveva abituato a ignorare gli avvenimenti negativi per evitare di cadere in debolezze. Durante il racconto il lettore nota che anche Lupa e Remus sono coinvolti emotivamente: i cani erano capaci di quella forma d’amore senza difese e senza riserve che gli esseri umani non riescono sempre a provare.
La narrazione di Pitcher potrebbe sembrare forse troppo antropocentrica, come se le emozioni proiettate sui cani siano troppo simili a quell’amore che l’autore ha avuto nei confronti della madre e viceversa. Ma il fatto che l’amore dei cani soddisfi un consapevole bisogno umano non significa che questo amore sia minore di un altro. A questo proposito la primatologa Barbara Smuts in La vita degli animali descrive le reazioni molto affettuose del suo cane quando capisce che la padrona si sente depressa. Qualche scettico potrà far notare che l’animale si comporta in quel modo solo perché ha imparato che con questo comportamento la sua padrona diventa torna ad essere felice. A questa obiezione la Smuts risponde: «Se avessimo dei compagni umani che si comportano più o meno allo stesso modo, per motivi identici, dubiteremo della loro sincerità o ci considereremo davvero molto fortunati? »[8].
A questo punto, la Nussbaum può finalmente argomentare la sua proposta di revisione della teoria stoica in relazione al linguaggio. Le valutazioni cognitive che abbiamo fin qui analizzato risultano infatti essere linguisticamente formulabili, sebbene questa formulazione subisca un inevitabile grado di distorsione. Quello che la Nussbaum vuole dire è che il soggetto che prova l’emozione non è in grado di dare una precisa traduzione verbale del contenuto dell’emozione. Le emozioni quindi non necessitano di una traduzione linguistica accurata per manifestarsi, ma ad esse basta la centralità della valutazione eudaimonistica, e questa combinazione, come abbiamo visto, abbiamo ragione di attribuirla anche a creature del tutto prive di linguaggio verbale.
[1] Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, p. 11
[2] Ibidem
[3] De Mori, Che cos’è la bioetica animale, p. 34
[4] Singer, I diritti degli animali, p.135
[5] Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni (nota), p. 131
[6] Ibidem
[7] Singer, In difesa degli animali, p.9
[8] Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, p.159