Qui a seguito un mio articolo pubblicato dal giornale Vercelli Oggi (***)
Sabato 7 novembre si è tenuto a Vercelli un nuovo straordinario convegno dedicato alle neuroscienze, organizzato dall’Ordine dei Medici di Vercelli, e presieduto dal dott. Piergiorgio Fossale insieme al prof. Michele di Francesco (ordinario di Logica e Filosofia della Scienza e rettore dello Iuss) : 11 eventi dal 2004 (anno in cui intervenne anche il noto neuroscienziato Antonio Damasio) fino a oggi che hanno fatto di Vercelli una meta obbligata per gli appassionati in tutt’Italia di scienza e filosofia, sia per l’ approccio interdisciplinare ai vari temi di volta in volta presi in considerazione sia per il coinvolgimento dei maggiori filosofi e scienziati contemporanei. Emozioni, intelligenza, libero arbitrio alcuni dei temi cardine delle passate edizioni fino ad arrivare al filo conduttore dell’appuntamento di quest’anno : “il linguaggio dei viventi”. Forse per la prima volta seduti intorno allo stesso tavolo esperti di fisiologia vegetale e di cognizione animale, neurologi e filosofi a indagare le forme di comunicazione di tutti i viventi, inseriti nella catena evolutiva e analizzati nelle loro specificità. Il dott. Fossale introduce i lavori con un’affermazione che sarebbe di per sé degna di trattazione a parte: “una comunità priva di cultura non è solidale, la cultura rende le persone migliori”: l’intera portata di questo concetto sarà ancora più evidente attraverso l’ultimo intervento della giornata vertente su violenza e linguaggio. Nella fase introduttiva si rinvia anche alla necessità, in un’era dove la rete può offrire tutto e il contrario di tutto, di possedere conoscenze adeguate al fine di esprimere opinioni fondate, ovvero alla necessità di acquisire capacità di discernimento e riuscire quindi a comprendere correttamente i fenomeni e la realtà che ci circondano. Il prof. Di Francesco evidenzia come anche grazie alle neuroscienze si sia oggi superata la rigida contrapposizione tra indagine umanistica e indagine scientifica (si pensi ad esempio alla neuroestetica).
Il primo interessantissimo intervento è quello del prof. Pierdomenico Perata, esperto di fisiologia vegetale, il quale spiega come le piante, nonostante non abbiano un cervello, siano dotate di forme di intelligenza e arrivino persino ad ingannare gli animali al fine di perseguire esigenze di prosecuzione della propria specie. Le piante, per il fatto di non possedere come gli animali una faccia, ci coinvolgono meno da un punto di vista emotivo e cognitivo: in mezzo a un enorme campo pieno di erba la nostra attenzione verrà catturata ad esempio solamente dalla presenza, per quanto visivamente e proporzionalmente “irrilevante”, di un leone. Vale a dire, il mondo vegetale viene percepito come insignificante, per il fatto di essere troppo distante dal modo propriamente umano di esprimersi e comportarsi. Eppure anche le piante “sentono” e il professor Perata opera dei paralleli in base ai nostri cinque sensi. La vista: le piante discriminano i colori e possiedono fotoricettori responsabili della sensibilità alla luce (fototropismo). Le piante comprendono la differenza tra un tipo di ombra artificiale oppure “naturale” (ombra causata da un’altra pianta) attraverso il tipo di luce filtrata e in questo ultimo caso viene innescata una sorta di competizione che stimola alla crescita verso l’alto. Il tatto: Le piante percepiscono “presenze” tanto da arrivare in taluni casi a imprigionare insetti, riconoscono le superfici (tigmotropismo, vale a dire il movimento delle piante in risposta a uno stimolo tattile, come nei rampicanti) e reagiscono anche a stimoli come l’essere toccate da una mano e questi stimoli possono influire sul prosperare o meno della pianta stessa. L’olfatto: quando ad esempio una larva mangia una foglia è possibile che venga lanciato un allarme di tipo olfattivo (che rappresenta quindi una efficace forma di comunicazione) affinchè altre piante attivino sostanze tossiche e repellenti per gli insetti. Il gusto: l’allelopatia è un fenomeno che interviene nella competizione interspecifica e intraspecifica tra piante e in base al quale una pianta rilascia nel terreno sostanze che inibiscono la crescita e lo sviluppo di piante concorrenti, addirittura impedendo al genoma di altre specie di esprimersi. L’udito: vi sono segni di sensibilità ancora da confermare. Il prof. Perata parla anche delle forme di comunicazione tra piante e animali con relativi “inganni”. Vi sono piante che producono semi che per aspetto e odore somigliano agli escrementi di antilope e sono in grado di ingannare gli scarabei stercorari ignari di tutto ciò che si nutrono di escrementi. Il fine è quello di indurre gli scarabei alla dispersione dei semi in ambienti più lontani al fine di “colonizzare” , come specie, nuove aree. Potremmo quindi davvero dire che alcune esortazioni metaforiche a “non vegetare” andrebbero completamente riviste …
Segue l’intervento del prof. Giorgio Vallortigara, neuroscienziato autore di molti testi tra i quali significativa in questo contesto è la menzione di “Cervello di gallina”, volto ad abbattere molti stereotipi ancora diffusi sull’intelligenza di tali animali. E’ ormai un dato acquisito che il cervello degli animali possiede fin dalla nascita diverse nozioni di fisica elementare, da cui ad esempio la capacità di orientarsi nello spazio, una intuitiva comprensione del numero e della casualità, un cervello che rende anche possibile, in taluni casi, la costruzione di strumenti e la soluzione di problemi di natura logica, vale a dire anche gli animali non umani sono dotati di pensiero, apprendono a contatto con l’ambiente circostante, per tentativi ed errori, e non rispondono solo a leggi di mero innatismo. Parlando di alcuni meccanismi di base o della fisica “ingenua” (osservati nei pulcini ma anche nei bambini) Vallortigara afferma che gli animali sono dotati a suo avviso di pre-requisiti alla comprensione della natura, quello che Kant considerava “a priori”, una sorta di conoscenza necessaria che si è impressa nel corso dell’evoluzione biologica nel genoma rendendo possibili i processi di apprendimento e la comprensione del mondo naturale. Per quanto riguarda la soluzione di problemi logici, cui accennavo sopra, Vallortigara porta alcuni significativi esempi osservati nei primati ma anche corvi (costruzione di strumenti o particolari espedienti per raggiungere ad esempio fonti di cibo), cosa che lo porta a parlare di evoluzione convergente, ovvero cervelli strutturalmente diversi che giungono ciò nonostante a prestazioni simili. Entrando nel merito delle funzioni linguistiche Vallortigara sottolinea come la specificità umana consista nella capacità di costruire attraverso il linguaggio verbale complesse narrazioni, che, aggiungerei io, hanno permesso di tramandare attraverso le generazioni una immensa mole di dati e quindi la cultura specificamente umana. Una forma di comunicazione quindi estremamente potente e creativa. Interagendo con il pubblico Vallortigara accenna a un dibattito oggi molto acceso riguardante lo sviluppo negli umani del linguaggio: secondo alcuni studiosi la funzione linguistica emergerebbe in modo per cosi dire spontaneo una volta raggiunta una certa complessità cerebrale e quindi mentale. Secondo altri (e per questa ipotesi propende Vallortigara) sarebbe il risultato di specifici adattamenti e quindi relativamente indifferente alle qualità mentali complessive di una specie. In questa ottica evolutiva secondo Vallortigara risulta poco sensato parlare in termini di “mancanze” di una specie rispetto ad un'altra.
Il terzo intervento è quello del prof. Stefano Cappa, docente di neuropsicologia, che si sofferma ad indagare in particolar modo le importanti componenti fisiche che oggi sottendono alle funzioni linguistiche e alla percezione del linguaggio, ovvero le basi neurologiche di esso. Un intervento molto ricco e complesso in cui un posto d’onore spetta allo studio delle conseguenze delle malattie o lesioni cerebrali sulle funzioni della mente e sulle funzioni linguistiche. Il metodo principe forse della neuropsicologia a partire dalla famosa osservazione di Broca sulle conseguenze di una lesione cerebrale sul linguaggio articolato. Anche se il prof. Cappa sottolinea come in realtà le diverse modalità del linguaggio non siano localizzate in singole o precise aree cerebrali e rinvia all’enorme variabilità delle manifestazioni cliniche dell’afasia e a complesse reti neurali coinvolte in aspetti specifici della elaborazione fonologica che rendono difficile parlare in meri termini di centri dell’espressione o precise localizzazioni, che non renderebbero conto della complessità del sistema. Si potrebbe quindi dire che lo studio della patologia del linguaggio oggi mantiene un ruolo molto importante nella ricerca sulla neurobiologia del linguaggio, sia come generatore di ipotesi che come base sperimentale di modelli psicolinguistici o neurofisiologici. Molto interessante è stata ad esempio anche l’analisi delle violazioni sintattiche e relativa attivazione di aree neurali, laddove un soggetto veniva esposto ad una sequenza di parole ben formate da un punto di vista fonologico, potenzialmente compatibili morfologicamente ma messe insieme in modo non conforme alla sintassi della lingua italiana.
Per quanto riguarda i nostri parenti più stretti, i primati, Cappa afferma che a suo avviso la differenza principale non riguarda per cosi dire la morfologia del cervello (molto simile) quanto piuttosto il tipo di connettività, che nel nostro caso potrebbe aver permesso lo sviluppo del linguaggio verbale.
L’ultimo straordinario intervento è stato quello della prof. Claudia Bianchi, docente di filosofia del linguaggio, che a mio avviso dovrebbe essere invitata in ogni scuola a relazionare su quello che è stato il fulcro della sua riflessione: linguaggio e discriminazione sociale. E qui torniamo allo spunto offerto inizialmente dal dott. Fossale su cultura e solidarietà. Bianchi comincia con l’esporre il lato oscuro del linguaggio, citando La Tempesta di Shakespeare: “Calibano: Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire”. Il linguaggio secondo Bianchi ha essenzialmente due dimensioni, una dimensione descrittiva e una dimensione performativa, rappresentando anche uno strumento di gestione e trasformazione sociale nonchè un veicolo di ideologie. Il linguaggio come specchio della società riflette le disuguaglianze sociali e fenomeni quali il sessismo, il razzismo e l’omofobia e quindi come costitutivo della società può contribuire a creare o rinforzare le disuguaglianze sociali. I nomi sono mappe di senso e le definizioni e categorizzazioni influenzano ciò che gli altri si aspettano da noi, e come gli altri ci tratteranno: uomo e donna, eterosessuale e omosessuale, bianco e nero, straniero e italiano. Gli epiteti denigratori sono termini che hanno forte valenza emotiva, perloppiu di carattere negativo, “weapons of verbal abuse” (Richard, 2008) e colpiscono individui e gruppi di individui in virtù della sola appartenenza a quella categoria: negro e nero, frocio e omosessuale, vu cumprà e ambulante, puttana e donna … Se da una parte è sancita per legge la libertà di espressione, dall’altra esistono dei limiti che non riguardano solo la calunnia e simili ma anche il cosiddetto hate speech e infatti in base ad una dichiarazione ONU del 1965 (Art. 4) gli Stati si impegnano a dichiarare crimini punibili dalla legge ogni diffusione di idee basate sulla superiorità e sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale (…) cosi come ogni aiuto portato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento. Di particolare importanza in questo contesto la complicità e responsabilità di destinatari e ascoltatori: il silenzio o l’astenersi dall’obiettare agli usi degli epiteti può costituire una legittimazione degli usi denigratori. Il danno quindi è a carico non solo dei target ma anche dei destinatari e ascoltatori casuali.Augurando al team organizzatore del Convegno di Neuroscienze di Vercelli buon lavoro in preparazione del prossimo evento!
Silvia Molè
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http://www.vercellioggi.it/dett_news.asp?id=64958