Perché non è possibile “contestualizzare”
Da “io dirò la verità, il processo a Giordano Bruno”, di Germano Maifreda, Editori Laterza, pag. 66/67 e 87/88
Non è certo casuale che nello stesso passaggio storico in cui si affermava il Corpus iuris canonici si sviluppasse anche il tribunale dell’Inquisizione. Grazie all’Inquisizione, infatti, giunge a compimento un lungo processo di criminalizzazione dei cosiddetti peccati occulti, sancito dal diritto canonico. Si trattava di peccati che nei secoli precedenti erano confinati alla coscienza individuale e dunque non sottoponibili a giudizio da parte di un tribunale. Nell’Impero Romano, come si è visto, il problema degli imperatori e dei vescovi era infatti stato quello di sanzionare comportamenti che minacciavano di disgregrare le comunità cristiane e che dunque si manifestavano in forma pubblica. La stessa eresia era considerata preoccupante perché provocava diatribe dottrinali e poteva così indurre a scismi. L’eliminazione della distinzione tra peccati e crimini pubblici avvenne nel corso del Medioevo, quando sempre più – per ragioni su cui non possiamo qui dilungarci – i giudici di fede iniziarono a scavare nelle coscienze individuali e a cercare l’eresia che si annidava nelle cerchie di relazioni personali e domestiche. Fu, questo, l’ultimo tassello della costruzione che abbiamo ripercorso, sfociato nell’affermazione del principio – centrale in tutta la storia della giustizia religiosa successiva – che ogni peccato, anche sottaciuto, doveva essere sanzionato in quanto disobbedienza all’autorità ecclesiastica. Nascita della giustizia della Chiesa intesa come diritto canonico, dell’Inquisizione in senso moderno e dello Stato ierocratico romano il cui monarca era il pontefice sono, dunque, tre fenomeni che vanno considerati unitariamente, anche per capire cosa accadde nel processo a Giordano Bruno. Comprendere l’interrelazione tra questi tre processi storici è importantissimo, anche perché ci vaccina contro le letture della condanna contro il Nolano, ma anche contro Galilei e altri filosofi e scienziati coevi, come frutto della volontà degli inquisitori di giudicare l’attendibilità delle loro teorie. Una tenace tradizione apologetica continua a sostenere – del tutto astrattamente e senza riscontri documentari – che il Sant’Offizio, nel corso dei processi, giudicava la coerenza tra le idee dichiarate dai filosofi e ciò che all’epoca era considerata (non è ben chiaro da chi) la verità. Niente del genere invece era fatto dagli inquisitori, e non certo per questo era stata creata l’Inquisizione. Il giudice di fede che apriva un processo criminale riceveva dal diritto canonico il mandato nel perseguire il peccato /reato di eresia, anche laddove occulto: ovvero anche laddove era peccato di mera intenzione e non era né detto o né, tantomento, scritto (…)
Sebbene alcuni tentativi a riguardo siano stati compiuti, talvolta con sottaciuti intenti giustificazionisti, non è in alcun modo possibile confrontare l’azione dell’Inquisizione e quella dei tribunali penali del passato e del presente. Questo per un insieme di ragioni che si devono tenere ben presenti, per comprendere cosa in concreto accadesse durante un processo per causa di fede.