393. Il turismo della povertà

Tra favelas e bidonville per vedere gli Altri

“Non è nuovissimo questo tipo di turismo – esiste da quasi vent’anni –, ma lo si può ancora indicare come la penultima frontiera (dell’ultima parleremo più avanti) per i viaggiatori in cerca di emozioni forti ed esperienze fuori dal comune, motivate da impegno sociale e vocazione umanitaria. Che in effetti ci vogliono tutti e due in dose massiccia per andare in vacanza a Rio de Janeiro o a Città del Capo a fotografare i poveri nelle favelas o nelle bidonville, cercando di non pensare a quanto è costato il biglietto aereo per arrivarci. Un genere di turismo che gli anglosassoni hanno battezzato poorism, contraendo e saldando insieme poor, povero, e tourism, turismo, coniando così un termine nuovo di zecca, un neologismo che indica una forma di turismo un tempo inimmaginabile. Noi italiani lo abbiamo chiamato «tour della povertà», etichetta che ha il merito di dire senza ipocrisia di cosa si tratta, anche se il francesismo tour tenta di camuffare il termine turismo che, associato alla povertà, fa venire i brividi. (…) A trarre qualche conclusione sul fenomeno ci ha provato Bianca Freire-Medeiros, sociologa brasiliana che lo studia fin dal suo apparire, nel 1992, quando le favelas iniziarono a diventare mete del turismo cosiddetto impegnato e le autorità cercavano di «bonificarle» e nasconderle agli occhi degli stranieri. «Oggi la favela di Rochina viene “venduta” dalle agenzie turistiche come la più grande dell’America del Sud ed è visitata da 3500 turisti al mese» spiega la sociologa. «Molti di loro credono di aiutare chi ci vive a uscire dalla povertà e dalla violenza e non si rendono conto che la violenza non è dovuta solo allo strapotere dei trafficanti di droga o al disprezzo delle élite brasiliane, ma è anche il prodotto di un modello economico ingiusto di cui gli stessi turisti fanno parte. In quanto alle accuse di “voyeurismo” e di sfruttamento neocoloniale, i turisti della povertà si difendono rispondendo che sono rimasti “affascinati” fin dal primo contatto con quella realtà, che “hanno imparato”, hanno “aperto gli occhi”, sono stati “trasformati” da quell’esperienza che ha dato loro l’opportunità di aiutare gli altri, piuttosto che pensare solo a se stessi.» (…) A chi bolla i tour della povertà come pornografia del turismo, gli appassionati del genere rispondono che l’incontro tra i visitatori benestanti e i più disgraziati della Terra «può essere utile a entrambi». Un’ipotesi che non tiene conto della drammatica asimmetria che c’è tra i presunti beneficiari e non risponde all’accusa di pornografia perché quella è insita nell’accostamento tra la parola turismo e la parola povertà: due cose che non possono essere messe insieme, nemmeno a fin di bene, per non fornire alibi a nessuno e perché lo zoo umano è sempre pronto a riaprire i battenti, cambiando solo scenografia e giustificazioni. (…)”

 

Viviano Domenici, “Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica” Prefazione di Gian Antonio Stella, edizioni Il Saggiatore