(del prof. Marco Trainito)
La vita non ha un senso. Per fortuna.
Uno degli argomenti apparentemente forti di chi lega l’origine e il destino della vita al gancio appeso al cielo di un intervento divino è il seguente. La vita, si dice, soprattutto quella umana, ha un valore assoluto, sacro, e non è a nostra disposizione, perché essa non dipende da noi, ma ci viene da un creatore intelligente e buono; se non fosse così, essa non avrebbe alcun valore e saremmo votati a un vuoto di senso senza rimedio.
Questo schema di ragionamento, che per esempio è al centro della teologia di Ratzinger, lega indissolubilmente tra loro le nozioni di “senso” (attribuito da qualcun altro) e “valore” o “sacralità”, come se l’una non potesse sussistere senza l’altra. Com’è noto, poi, da esso derivano tutta una serie di precetti esistenziali e sociali, non di rado convertiti in legge soprattutto nei paesi culturalmente un po’ arretrati come il nostro.
Ma è veramente così? A ben pensarci, non è difficile mostrare che è possibile separare le due nozioni, facendo vedere addirittura che una conseguenza dell’attribuzione di senso dall’esterno, da un certo punto di vista, è la perdita di valore intrinseco di ciò che riceve tale senso, mentre il possesso di un notevole valore intrinseco può accompagnarsi a una totale mancanza di senso. A tal fine escogiterò un semplice esperimento mentale che è la versione un po’ fantascientifica e asimoviana di modelli artificiali già da decenni studiati da matematici, esperti di intelligenza artificiale e biologi, il più “semplice” e famoso dei quali è quello noto come “Gioco della Vita”, ideato una quarantina d’anni fa dal matematico inglese John Horton Conway e ormai da tempo disponibile anche in rete come gioco elettronico (e oggi chi ha un iPhone o un iPad può scaricare la bellissima applicazione iLifeGame e divertirsi a fare il “Dio-hacker”, come lo chiama il filosofo Daniel Dennett, grande appassionato del gioco di Conway*).
Immaginiamo che un gruppo di ricercatori di cibernetica popoli una nicchia ecologica con umanoidi artificiali dalla vita non troppo lunga in grado di difendersi, riprodursi, comunicare, sognare e formulare ipotesi su se stessi e sul mondo. L’esperimento ha uno scopo e termina quando qualcuno, dopo aver scoperto (non importa come) la verità unica sulla natura degli umanoidi e sul senso della loro vita, riesce a convincere tutti gli altri, i quali naturalmente avranno sviluppato, singolarmente o a gruppi, molte altre mitologie (tutte false) sul tema in questione. A quel punto, il gruppo di ricercatori appare agli umanoidi, rivela loro il gioco e li accoglie nella comunità umana per adorare e servire beatamente l’ingegnere-capo, il quale li aveva fatti a sua immagine e somiglianza (come ipotizzato dalla dottrina vincente). Naturalmente non è possibile sapere quanto durerà l’esperimento. Possiamo solo dire che i ricercatori intervengono ogni tanto per evitare catastrofi, come l’estinzione, che possano pregiudicare la riuscita dell’esperimento stesso. È facile capire che gli stessi interventi occasionali e misteriosi dei ricercatori verranno assorbiti e reinterpretati come miracoli, apparizioni ecc. all’interno delle congetture in competizione elaborate di generazione in generazione dagli umanoidi, i quali non mancheranno nemmeno di ammazzarsi ogni tanto a vicenda in nome delle loro fantasie, anche se nei loro circuiti neurali è implementato il software del razionalismo critico popperiano.
Ebbene, chi potrebbe negare che la vita dei nostri umanoidi abbia un “senso”? Tale senso è quello conferito ad essa dall’esperimento ed è uno dei cardini della dottrina vincente, mentre esiste in versione più o meno approssimata anche in quelle perdenti. Tuttavia è difficile sostenere che la vita degli umanoidi abbia un qualche valore significativo, al di là di quello contenuto nella conoscenza e nella tecnologia che stanno alla base della sua creazione, che in ogni caso è apprezzabile solo dai ricercatori, i quali sono in grado di riprodurre serialmente tutti gli umanoidi che vogliono. Da questo punto di vista, sfido chiunque a sostenere che la vita dei nostri umanoidi sia una roba desiderabile: quella che abbiamo descritto qui e che assomiglia a quella prospettata da qualche setta religiosa molto popolare e influente, infatti, è una forma di vita da incubo, benché dotata di un preciso e luminoso senso trascendente.
Torniamo ora alla nostra vita così come essa ci appare alla luce delle conoscenze biologiche più avanzate e corroborate. Noi sappiamo ormai che non siamo il risultato di un esperimento “intelligente” del tipo di quello sopra descritto, ovvero che la nostra vita non ha un senso che la trascenda. Sappiamo che siamo il prodotto cieco e “ignorante” dell’evoluzione, che veniamo dal basso e non dall’alto, che la stragrande maggioranza degli esseri viventi nati sulla Terra è già morta, che abbiamo la straordinaria fortuna di essere vivi in questo momento, che la probabilità di essere morti è molto più grande di quella di essere vivi (perché per ogni essere umano che raggiunge l’età adulta un numero considerevole di spermatozoi, di ovuli, di embrioni, di feti e di bambini “deve” morire), che nella scatola cranica di ciascun essere umano attualmente in vita si trova un pezzetto del più complicato, mirabolante e prezioso agglomerato di materia di tutto l’universo conosciuto, che ciascuno di noi è un esemplare unico e irripetibile per complessità e improbabilità, ecc. ecc. Ebbene, da un siffatto punto di vista, peraltro facilmente condivisibile da chiunque sia dotato di un livello anche infimo di razionalità e autocoscienza, è difficile negare un valore incommensurabile, e se vogliamo anche “sacro”, alla vita umana, che però (e per fortuna) si accompagna a una fondamentale mancanza di un senso trascendente.
* Cfr. ad es. Daniel C. Dennett, L'evoluzione della libertà (2003), tr. it. Raffaello Cortina, 2004, cap. 2, pp. 47-62.
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