Si fa presto a dire Intelligenza
http://www.scienzainrete.it/files/i_forconi_della_genetica.pdf
(liberamente e parzialmente tratto da “Sono razzista ma sto cercando di smettere”, Editori Laterza, di Guido Barbujani, docente di genetica all’Università di Ferrara. Ne consiglio vivamente l'acquisto)
Ci capita ogni giorno di pensare che il tale è intelligente e il talaltro no, e magari spesso ci azzecchiamo, ma se ci riflettiamo un poco su, i confini di un concetto apparentemente così semplice sfumano. Si può essere intelligenti in tanti modi diversi. Se fosse proprio così e solo così, l’intelligenza potrebbe essere avvicinata alla bellezza o alla felicità: caratteristiche che sappiamo riconoscere nel prossimo abbastanza bene, ma che sfuggono ad una valutazione scientifica, cioè quantitativa, perché possiamo valutarle solo soggettivamente. D’altro canto non vi è dubbio che l’intelligenza, qualunque cosa sia, è un prodotto della nostra mente, la quale risiede nel nostro cervello, il quale a sua volta è un organo prodotto nel corso dello sviluppo embrionale dall’azione dei nostri geni, in una complessa interazione con l’ambiente. Insomma, se l’intelligenza dipiende almeno in parte da qualcosa che sta nelle nostre cellule, cioè dai nostri geni, studiarla scientificamente non è impossibile. Certo, è estremamente difficile, ma non ci sono, in linea di principio, ostacoli insormontabili.
Attenzione però: una misurazione è scientifica se è ripetibile. Due diversi ricercatori che studino la stessa quantità, devono arrivare a misure uguali o molto simili, se non vuol dire che nei loro calcoli ci sono elementi di soggettività che bisogna eliminare, pena sconfinare dalla scienza nella pseudoscienza. Ciò che è bello per uno non è detto che sia bello per gli altri, se x sia più felice di y è arduo dirlo. Quanto all’intelligenza, non c’è da stupirsi se, anche in assenza di una buona definizione, ci abbiano provato in tanti a misurarla: è un tema troppo interessante e troppo importante. Inoltre non tutti i problemi complessi possono essere ridotti in una serie di problemi semplici (metodo alla base di tutta la scienza occidentale) per poi essere affrontati con i metodi disponibili, come la storia dimostra. Assistiamo quindi alla nascita della craniometria sino ad arrivare alla psicometria (***), cioè il tentativo di quantificare conoscenze, abilità e in generale aspetti della personalità (positivismo, un’epoca in cui in effetti si prova a misurare un po’ di tutto). In realtà l’intelligenza, anche a prescindere dalla molteplicità delle definizioni, non può essere quantificata senza conoscenze precise su come funzioni il cervello, conoscenze che ancora oggi non possediamo in misura tale da consentire quantificazioni. Eppure i test del QI continuano ad incontrare grande successo. La migliore definizione di intelligenza si trova forse nella Encyclopedia Britannica del 2006:
L’intelligenza non è un singolo processo mentale, quanto una combinazione di molti processi mentali diretti ad ottenere un effettivo adattamento all’ambiente”. Una definizione onesta, necessariamente vaga, che quindi lascia poco spazio alla possibilità di arrivare per qualche scorciatoia a misure semplici, univoche e sensate. Ed infatti nella seconda metà del XX secolo cominciano a farsi strada le teorie multicomponenziali dell’intelligenza. Nel 1993 lo psicologo statunitense Hower Gardner pubblicò il suo libro sulle intelligenze multiple, logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, cinestetica, interpersonale, intrapersonale, naturalistica ed esistenziale, le cui combinazioni eterogenee, variabili da una persona all’altra, caratterizzerebbero il funzionamento individuale.
Per Gardner i test classici del QI darebbero informazioni solo sulle abilità logico-matematiche e linguistiche, trascurando altri aspetti del funzionamento cognitivo globale. E in seguito agli studi di Daniel Goleman (Intelligenza Emotiva) comprendiamo come ad esempio persone con un classico QI inferiore alla media possano avere una vita soddisfacente mentre soggetti dotati di buone capacità logico-linguistiche ma poco capaci di capire gli stati emotivi propri e altrui possano sperimentare notevoli difficoltà di adattamento.
Nella diatriba parallela sull’origine e sull’ereditarietà dell’intelligenza torna poi utile, ancora una volta, la teoria dell’evoluzione. Da quando si è scoperto che il DNA non è l’unico determinante di un certo fenotipo ma che l’ambiente stesso, agendo sui sistemi di regolazione dell’espressione dei geni, può influenzare il substrato biologico e lasciarvi un’impronta perenne, i termini della questione sono cambiati. Barbujani spiega come diversi studi abbiamo dimostrato che l’esposizione a situazioni estreme, per esempio una grave carestia, possa riflettersi in caratteristiche fisiche presenti anche nelle generazioni successive. Questo perché l’ambiente modifica, attraverso cambiamenti epigenetici, il modo con cui certi geni si esprimono: questi cambiamenti sono trasmissibili secondo leggi simili a quelle della genetica classica. Se applichiamo lo stesso modello allo studio dell’intelliegenza otteniamo un paradigma di analisi nuovo, in cui biologia e ambiente tornato ad essere di fatto un’unica cosa. Ereditiamo quindi dei caratteri dai nostri genitori, ma possiamo modificarli tramite l’ambiente esterno e possiamo, a nostra volta, trasmettere le migliorie (ma anche i peggioramenti) alle generazioni future. (*)
Il premio Nobel Renato Dulbecco affermò che a suo parere è l'ambiente a prendere il sopravvento, tant'è che se Bach avesse adottato un trovatello questi avrebbe potuto sviluppare "un istinto musicale superiore alla media. Dal punto di vista scientifico è infatti risaputo che l'ereditarietà riguarda i tratti somatici (forma del naso, colore degli occhi, ecc.). È vero che esistono dei caratteri ereditari che influenzano le capacità intellettive, ma la predisposizione ad attività musicali, pratiche, verbali, è pur sempre un'ereditarietà di carattere fisico, nel senso che le strutture cerebrali possono essere più favorevoli e predisposte allo sviluppo di determinate capacità. È poi l'ambiente, nel quale il bambino cresce, a giocare un ruolo determinante nello sviluppo o meno di quelle capacità. In alcuni casi infatti vi può essere un'ereditarietà positiva non sviluppata a causa di relazioni familiari e ambientali negative e in altri invece si può verificare la situazione di patrimoni ereditari medi o inferiori alla media che possono essere sviluppati mediante l'apporto di positive relazioni familiari..
(***) In “Intelligenza e pregiudizio” il biologo evoluzionista Gould analizzava il quoziente di intelligenza (QI) e il concetto di ingelligenza generale (fattore g), due dei più comuni indici psicometrici. Secondo Gould perché il QI sia davvero un riflesso dell’intelligenza generale bisogna che i risultati dei diversi test cognitivi vadano tutti nella stessa direzione. Inoltre per poter affermare che si tratta di un fattore esclusivamente ereditario bisognerebbe che i risultati ottenuti nei test di intelligenza da persone geneticamente legate tra loro fossero più congruenti di quelli tra persone non imparentate, e questo non accade mai quando si prende in considerazione un campione sufficientemente ampio. Inoltre, e forse soprattutto, una correlazione positiva non è una prova di causalità. Per dirlo direttamente con le parole di Gould, la mia età, la popolazione del Messico, il prezzo del formaggio svizzero, il peso dalla mia tartaruga da compagnia e la distanza media tra le galassie hanno una correlazione positiva elevata. Ciò non significa però che l’età di Gould aumenti per via della crescita della popolazione del Messico o del costo del formaggio svizzero. Dal momento che una correlazione positiva tra il QI di un genitore e quello di un figlio può dipendere sia da fattori ereditari che sociali e ambientali, possiamo affermare che i test psicometrici non hanno alcun valore nel determinare la natura ereditaria dell’intelligenza e di conseguenza la possibilità che questo tratto segreghi geneticamente in base a ipotetiche razze, scrive Gould.
(*) Barbujani in particolare, quando si tratta di capire se e in che misura una caratteristica sia determinate dai geni, e non da tutti gli altri fattori che possiamo genericamente chiamare ambiente, il metodo migliore consiste nello studio di coppie di gemelli univolari cresciuti in ambienti diversi, che sono molto pochi: per esempio, coppie di gemelli separati alla nascita e adottati precocemente da famiglie diverse. Se, fatti i debiti calcoli e correzioni, la statura di queste coppie risulterà la stessa, vorrà dire che la statura è geneticamente determinata; se sarà diversa vorrà dire che c’è una forte componente ambientale. La statura, non sorprenderà, è determinata in buona parte geneticamente, ma in parte anche dall’ambiente. E l’intelligenza? Anche il QI è stato stuidato in coppie di gemelli separati alla nascita. L’autore di questi studi è Cyril Burt, uno psicologo inglese insignito del titolo di Sir, i suoi risultati, riportati in molti libri di testo, indicano una correlazione fortissima tra gemelli separati alla nascita, da cui la conclusione che il QI è sostanzialmente ereditario. Conclusione: si nasce stupidi o intelligenti, la scuola non può farci niente. Oggi però sappiamo che quei risultati Cyril se li era inventati, come si era inventato i collaboratori che firmavano gli articoli. Secondo Barbujani i geni definiscono quello che possiamo essere, sia in termini fisici che psichici, quello che siamo in effetti dipende però dalla loro interazione con moltissimi altri fattori. , come condizioni economiche e culturali in cui cresciamo, gli stimoli che riceviamo, la maggiore o minore quantità di affetto che scambiamo con chi ci sta intorno. Fattori che hanno una importanza determinante. I rapporti dei geni non solo con l’intelligenza ma con l’insieme di manifestazioni e comportamenti che chiamiamo cultura sono piuttosto labili. Barbujani cita nel testo anche un test di intelligenza condotto durante la prima guerra mondiale, secondo il quale i bianchi nati negli stati uniti avevano una medi appena sopra il livello di ritardo mentale (età mentale 13 anni), gli immigrati europei fra i 10 e 11 anni e peggio ancora i neri, meno di 10 anni e mezzo. Viene da immaginarsi questi severi professori universitari, nota Barbujani, intenti a escogitare un test in base a cui potranno proclamare quello che pensano già comunqe. I bassi QI stimati nei gruppi di immigranti porteranno a leggi (Immigration Restriction Act del 1924) che limiteranno la possibilità di ingresso negli Stati Uniti alle persone provenienti da paesi con bassi livelli di intelligenza