Questo è un aggiornamento o integrazione del punto Nr. 32 sulle norme morali, tratto liberamente da “Mente e Cervello” (numero 94), di cui consiglio vivamente l’acquisto o l’abbonamento, a cura di Daniela Ovadia:
Nel suo libro “Primati e filosofi: evoluzione e moralità” il primatologo olandese Frans de Waal (***), uno dei maggiori sostenitori dell’interpretazione biologica della morale, si scaglia contro quella che lui stesso chiama la teoria della vernice “veneer theory”. Huxley sostenne che la morale non è soggetta alla spinta evolutiva ma è un semplice prodotto culturale, una vernice luccicante che ricopre un nucleo di cattiveria profonda . Secondo de Waal “oggi siamo in grado di dire che sbagliava: tutti gli studi che ho condotto sui primati, così come le osservazioni sulla vita sociale di alcune specie come i bonobo, dimostrano che i mattoni che consentono di costruire una morale comune – come l’altruismo, l’empatia, il rifiuto dell’ingiustizia, la capacità di sottomettersi all’autorità per mantenere l’ordine sociale e così via – sono presenti già negli animali e in particolar modo nei primati. Una volta osservati tali comportamenti in altre specie, il principio di parsimonia ci obbliga a dire che anche la morale umana ha un’origine prettamente biologica e, soprattutto, che non si tratta di qualcosa che appartiene solo a noi.”
Gli esperimenti di De Waal e di altri etologi dimostrano che anche comportamenti complessi come la cooperazione per il raggiungimento di uno scopo comune, la protezione dei cuccioli e persino il senso di ingiustizia per una retribuzione non equa sono presenti non solo tra le scimmie ma anche in altre specie, come gli elefanti. “L’idea che l’uomo possa aver deciso di bybassare la genetica e diventare un essere morale mi pare assurda quanto quella di un gruppo di piranha che decida di diventare vegetariano” dice De Waal. Per poter procedere nello studio scientifico della morale, etologi e psicologi hanno cercato di stabilire quali sono gli elementi che la costituiscono, i mattoni cognitivi del processo. Una delle teorie più usate nella pratica è quella proposta da Jonathan Haidt, docente di psicologia sociale all’Università della Virginia, secondo il quale la morale può essere suddivisa in cinque moduli: presa in carico del più debole, equità e reciprocità, lealtà al gruppo sociale e familiare, rispetto per l’autorità e infine il modulo legato ai concetti di purità, nato probabilmente per evitare il contagio e la diffusione di epidemie, inglobato dalle religioni per mantenere saldi alcuni tabù dagli evidenti benefici biologici, come quello dell’incesto, e per differenziare un gruppo dall’altro, come accade con le regole alimentari. In effetti tutte le religioni prevedono regole di purità che sono all’origine della separazione del gruppo di credenti dal resto della popolazione. Questo rafforza la cooperazione tra simili e rende la società più uniforme anche da punto di vista delle norme da seguire.
Benchè la psicologia evoluzionista abbia inizialmente considerato la religione come un elemento necessario all’emergere della moralità nella specie umana, gli studi di etologia ci dicono che non è così, poiché non vi sono dimostrazioni dell’esistenza di un pensiero trascendente negli animali, mentre vi sono prove di giudizi morali e persino di punizioni per comportamenti lesivi per la moralità del gruppo: nei branchi di leoni, il maschio adulto che non si sottomette all’autorità del capo viene allontanato dalle femmine. Per minare l’autorità di chi protegge i più deboli bisogna, infatti, che il giovane leone dimostri di essere in grado di assumersi le responsabilità di chi si sta soppiantando. Se invece si chiede se la religione sia una delle cause di cooperazione su larga scala, la risposta è inevitabilmente si. “le religioni hanno un forte ruolo pro sociale” dice Norenzayan, “questo spiega anche la loro incredibile evoluzione darwiniana: ne nascono circa 2 o 3 al giorno, ma solo poche sopravvivono all’inesorabile selezione del mercato”. Le religioni inducono comportamenti morali sia per via della pressione interna al gruppo sia per via dell’esistenza di un ‘osservatore esterno’ rappresentato dalla divinità. Molti esperimenti dimostrano che le persone che si sentono osservate si comportano meglio di quelle che non sanno di esserlo. Le religioni però oltre che di regole morali sono piene anche di leggi il cui valore universale è discutibile. Il filosofo morale Richard Joyce afferma quanto segue: “due psicologi, Stitch e Sripada, in un lavoro del 2006 hanno stabilito che le regole possono essere considerate innate solo se emergono in modo simile in diverse condizioni ambientali, e quindi in diversi contesti sociali all’interno della specie umana. Su questa base non esiterei a rovesciare totalmente quanto afferma la veneer theory, poiché in tutte le società emergono comportamenti cooperativi o altruistici, fermo restando che il concetto di altruismo/egoismo dal punto di vista biologico ed evolutivo – cioè legato alla diffusione e riproduzione del proprio patrimonio genetico – è ben diverso da quello psicologico. In sostanza la specie umana avrebbe un cuore costruito da una innata tendenza a cooperare, rivestito da uno strato di empatia, quindi di altruismo psicologico, il tutto ricoperto da un sottile strato di giudizio morale, che rappresenta la razionalità applicata all’emozione. Non a caso Darwin stesso stabiliì che perché un comportamento utile e altruistico possa trasformarsi in una norma morale è necessario avere il linguaggio e una capacità di memoria, in modo da conservare traccia delle prescrizioni. In realtà credo che Darwin sottostimasse la necessità di altre funzioni cognitive come l’empatia, ma anche le emozioni e la capacità di astrazione”.
Ad integrazione del numero 32, dove ho citato i neuroni specchio, riporto anche l’osservazione di Patricia Churchland, docente di filosofia all’Università della California a San Diego e al Salk Institute: “I neuroni specchio sono importanti, ma non possono essere la chiave dello sviluppo della morale perché quello che consentono di fare è semplicemente di riflettersi, dal punto di vista motorio, nell’azione dell’altro: in sostanza ci permettono di identificare un’azione ma non di capirne le motivazioni, passaggio indispensabile per qualsiasi valutazione morale. Quindi direi che senza il sistema neuroendocrino i neuroni specchio non sono sufficienti a spiegare l’emergere di valori che consentono la convivenza in gruppo. Invece anche nella moralità umana l’ossiticina ha un peso rilevante. Un suo deficit – legato per esempio a un mutante del gene per i recettori della sostanza – comporta una predisposizione a una minore socialità, come è stato riscontrato sia nella psicopatia sia nell’autismo; e in diversi esperimenti l’uso di ossiticina spray aumenta il sentimento di fiducia verso la persona presente nella stanza. Ovviamente l’ossitocina è solo un elemento chiave di circuiti più complessi, che coinvolgono tutte le strutture del cervello emotivo e diversi neurotrasmettitori”
Riporto inoltre alcune considerazioni di Simon Baron Cohen, professore di psicopatologia dello sviluppo (“La scienza del male, l’empatia e le origini della crudeltà”) per tentare di rispondere ad alcune obiezioni riguardanti l’empatia. Le obiezioni sono in genere come segue “per fare del male agli altri però bisogna in qualche modo capirli. Significa che un torturatore è una persona empatica?” Secondo S. B. Cohen quello di empatia è un concetto complesso, come linguaggio o memoria. Per capirlo bisogna frazionarlo: ci sono due grosse componenti, una cognitiva legata alla teoria della mente e una emotiva. La prima è la capacità di capire cosa pensa o prova un’altra persona, di riuscire per così dire a mettersi nei panni degli altri, mentre la componente affettiva è l’esigenza di rispondere in modo appropriato agli stati mentali altrui. Per torturare un’altra persona servono un buon livello di empatia cognitiva, per capire cosa può fare più male, e una scarsa empatia emotiva per riuscire a farlo. Da questo punto di vista possono esserci affinità tra un torturatore e uno psicopatico.
(sull’altruismo nei ratti)
(***)
“(…) Va inoltre osservato che le pressioni evolutive responsabili delle nostre tendenze morali magari non sono state tutte gentili e positive. Dopo tutto la moralità è in gran parte un fenomeno interno al gruppo. Sempre e ovunque gli esseri umani si comportano con gli esterni al loro gruppo in maniera molto peggiore di quanto facciano con i membri della loro stessa comunità: le regole morali, in effetti, difficilmente sembrano valere all'esterno del proprio gruppo. È vero che nella modernità esiste un orientamento ad allargare il cerchio della moralità e a includervi anche i combattenti nemici – per esempio la convenzione di Ginevra adottata nel 1949 – ma tutti sappiamo quanto fragile sia un progetto come questo. Con tutta probabilità la moralità si è evoluta come un fenomeno interno al gruppo insieme ad altre capacità che di solito si sviluppano all'interno del gruppo, come la risoluzione dei conflitti, la cooperazione e la spartizione (…)La maggioranza degli individui avrebbe molto da perdere se la comunità si sfasciasse, da qui il loro interesse affinché si preservi integra e armoniosa. Boehm (1999), prendendo in esame questioni di questo tipo, ha aggiunto il ruolo esercitato dalla pressione sociale, almeno per quanto riguarda gli esseri umani: l'intera comunità si impegna a gratificare un comportamento che favorisce il gruppo e a punire quello che lo indebolisce. Naturalmente, la forza più potente per sviluppare il senso di comunità è l'ostilità nei confronti degli esterni al gruppo, che costringe all'unità elementi che normalmente non sarebbero in armonia. Questo magari allo zoo non si vede, ma è sicuramente un elemento in atto tra gli scimpanzé allo stato selvatico, in cui si manifesta una violenza letale tra una comunità e l'altra (Wrangham e Peterson 1996). Nella nostra specie non c'è nulla di più ovvio che unirsi contro gli avversari. Nel corso dell'evoluzione umana l'ostilità verso gli esterni ha rafforzato la solidarietà tra gli interni al gruppo fino a fare apparire la moralità (…)
La moralità si è evoluta innanzitutto per avere rapporti con la propria comunità e solo di recente ha cominciato a includere i membri di altri gruppi, l'umanità in generale e gli animali non umani. Nel momento in cui si plau- de all'espansione del cerchio, questa espansione risulta condizionata dalla disponibilità economica, vale a dire che i cerchi si possono allargare in tempi di abbondanza, ma si restringeranno inevitabilmente nel momento in cui le risorse si assottiglieranno (figura 9). Questo accade perché i cerchi demarcano il livello di obbligo. Come ho già avuto modo di dire: «Il cerchio della moralità si amplia sempre più solo quando la buona salute e la sopravvivenza dei cerchi più interni siano assicurate» (de Waal 1996, p. 213). Poiché per il momento viviamo in circostanze di benessere, possiamo (e dobbiamo) preoccuparci per coloro che sono al di fuori della nostra stretta cerchia. Ciononostante, un rapporto ad armi pari, in cui tutti i circoli contano allo stesso modo, va a cozzare con le antiche strategie di sopravvivenza.
E così il culmine del paradosso è che la nostra più alta acquisizione, la moralità, ha dei legami sul piano evolutivo con il nostro comportamento più basso, la guerra: il senso di comunità che esige la prima è stato fornito dalla seconda. Quando abbiamo superato il punto di equilibrio tra interessi individuali in conflitto e interessi condivisi, abbiamo aumentato la pressione sociale per assicurarci che tutti contribuissero al bene comune (…)"
(passi liberamente tratti da De Waal) – si veda anche in Nr. 32 di FL
Telmo Pievani in "Introduzione alla filosofia della biologia" (Editori Laterza) riprende il tema, a partire da pag. 226 (altruismo in natura) nei medesimi termini.