Di Sonia Caporossi
- E allora, ecco il suggerimento che bisogna cogliere: torniamo al punto, torniamo al dunque. Torniamo prima a ciò di cui vogliamo parlare. Torniamo, in una parola, alla cosa. -
Andiamo subito al dunque, che è poi il senso stesso di questi miei brevi appunti, gettati giù, alla rinfusa, in seguito ad infinite discussioni sul web e di persona, con amici, colleghi e conoscenti, circa lo statuto della filosofia del Novecento ed oltre.
C’è oggi, da ogni parte, una sorta di astio riposto e malcelato nei confronti della volontà di andare al punto, che non si giustifica se questa volontà viene concepita giustamente come tentativo, ricerca, argomentazione con un fine che non deve essere precostituito in via ipotetica preliminare, giacché l’individuazione di un riscontro qualsiasi dell’ipotesi preliminare, in quel caso, sarebbe impostura, e non certo, come occorre che invece sia, critica, sonda, scandaglio, tentoni.
“Ma come si fa in filosofia ad andare al punto, oggi: non esiste neanche un fine”, si risponde da più parti: certo, un fine non esiste almeno quanto non esiste più la medievale, confortante verità, e su questo, anche se bisogna accordarsi su che cosa significhi, non ci piove. Tuttavia, se pure l’essere non è pacificamente dato, il nulla non è il primum, giacché se lo fosse, insieme alla morte di Dio morirebbe anche l’uomo; e l’hanno dato per spacciato in molti, infatti, senza comprendere che per dar morto qualcuno occorre uno che dal di fuori gli scriva il necrologio, uno che sia vivo vegeto e pulsante: io sono morto. Dunque, se lo dico, sono morto o son vivo?
Qualora non esista fondamento se non struttura, quanto può risultare stridente la frase attraverso il cui enunciato un nichilista relativista affermerebbe di essere assolutamente convinto che tutto è relativo? L’inghippo è logico, è un pasticcio del linguaggio. Ed è questo proprio il bello del linguaggio, il fatto di render logici i paradossi logici, tant’è vero che si colgono, ma non per questo si possono sciogliere con migliore ventura. Ma allora, su quali basi si fonda una qualsivoglia argomentazione che pretenda di rendere ragione?
L’argomentazione come modus operandi è vivida in ogni indagine filosofica di tipo socratico, quella che affonda le radici nella millenaria domanda del Tì Estìn. Il punto è che da quando qualcuno ha detto che questa domanda non ha più senso, nessuno se la pone più. Certo che la domanda non ha senso se cerca la verità assoluta, perché, se io sono convinta che la verità assoluta non esista (e ne sono convinta assolutamente, in una contradictio in terminis subliminale), però dove sta scritto che una delle domande cardine della filosofia non ce la possiamo più fare? Se eliminiamo questa domanda dal novero dei domandabili, ammazziamo diversi organi della filosofia, e soprattutto, la colpiamo dritta al cuore.
E dunque, torniamo al punto, non chiamiamo filosofia quel modo di pensare che questa domanda non solo non se la pone, ma afferma anche che non possa essere posta: perché filosofia, quel modo di pensare, carissimi amici, non è. Così come non lo sono questi appunti, ad essa e ad un suo recupero, si spera, semplicemente preliminari. Ma andiamo per ordine e passiamo alla sordida ed annosa questione del relativo.
Il fatto che oggi i più siano assolutamente convinti del relativo, com’è ovvio, consiste in una tautologia bella e buona; questo lo si sa da Wittgenstein, in quanto la forma logico proposizionale soggetto-copula-predicato nominale “x è y” è la tautologia per eccellenza. Ma così, non mi stancherò mai di ripeterlo, proprio così funziona il linguaggio! Così funziona il nostro sistema di riferimento mentale! E allora, che dobbiamo fare, che strategia o forma di comportamento dobbiamo tenere, forse dovremmo aspirare a raggiungere l’eterna afasia?
Certo, la pretesa di originalità, nel pensiero filosofico, è un miraggio. Non c’è un solo filosofo del passato, a parte forse Talete, se non lo si consideri troppo influenzato dal mythos, che abbia pensato in modo autonomo.
Per Hegel la filosofia è la sua storia, Spinoza stesso può essere considerato un “anti-tropo” perché ad altri si è contrapposto; e ciò, mi si perdoni il gioco di parole, presuppone un presupposto, un precedente. In questo momento, lettore, tu sei hegeliano, anche per te la filosofia è la sua storia: ora, prova a invertire la rotta in una specie di rivoluzione copernicana ormai quasi incomprensibile ai più. Ci riesci?
È questo il punto: “La filosofia lascia tutto com’è”; e la potenza eversiva di quest’assunto wittgensteiniano è ciò che fa impallidire le filosofie falsamente eversive e che suscita in esse reazioni scomposte. Pensiamo ad un Deleuze che enumera l’alfabeto della filosofia nella famosa (e fumosa) intervista video, e se la prende con Wittgenstein con astio e rancore mascherati da scherno: è il prototipo di un comportamento degno di Cafaia, il Gran Sacerdote che per calcolo politico di autoconservazione vuole denigrare e mettere a morte Gesù come empio; è una forma di reazionarismo conclamato contro la vera rivoluzione. Eppure, con quella frase, Wittgenstein non dice altro che “torniamo al punto, torniamo al dunque”; e questo punto, questo dunque, non son le parole in quanto tali, ma il loro senso e il modo in cui arriviamo a coglierne uno fra molti e poi lo condividiamo in un orizzonte di senso comune. Altrimenti, io piglio una parola presa dal campo semantico e d’uso della botanica, rizoma, ci invento sopra un senso ad hoc come fanno i romanzieri, e ho fatto la mia filosofia; senza peritarmi di palesare se un qualcosa di simile al senso che attribuisco neologisticamente alla parola rizoma si sia dato, nella storia della filosofia, come pure è, già in precedenza; e senza domandarmi, in tutta onestà, se questa operazione di arbitraria attribuzione di senso che invece opero rientri nel campo della poiesis, piuttosto che della filosofia.
E allora, ecco il suggerimento che bisogna cogliere: torniamo al punto, torniamo al dunque. Torniamo prima a ciò di cui vogliamo parlare. Torniamo, in una parola, alla cosa.
Beninteso: io non ho niente contro la parole. Ci sono i romanzieri, ci sono i filosofi, e sempre più spesso dal Novecento in poi, ci sono i romanzieri – filosofi; il punto è che quando spingi avanti la parole, fai letteratura, quando spingi avanti la chose, non come oggetto, ma come concetto, fai filosofia. E questa constatazione, di fatto, offre il destro al possibile ritorno alla concezione di un fondamento di senso comune. Ovvero, in un certo qual modo, alla fuoriuscita dall’impostura intellettuale del Novecento, da un modo di “filosofare” che troppo spesso si è peritato di operare forzature nel senso comune, come fanno invece legittimamente i poeti, scardinando i sensi e camminando sul discrimine funambolico del non senso.
La maggior parte delle scritture filosofiche del Novecento partono da basamenti anapodittici, ed in quanto tali hanno l’incipit di narrazioni (come le chiamava, finalmente in modo esplicito, Lyotard, e come le chiama oggi, d’accatto, lo studentello di filosofia Nichi Vendola). Anzi, di più: sono narrazioni. Ma così facendo, hanno rischiato di perdere il proprio statuto filosofico, la propria condizione di filosofie. Citatemi un pensiero, un solo pensiero che non parta da basi assiomatiche nel Novecento. Il residuo dogmatico è proprio lì. L’inghippo è nel fumo venduto dal linguaggio. E questo vuol dire anche che la filosofia del Novecento è più antica di quanto si pensi.
Il problema è nella forma logica normale “x è y”; “x è y”, la forma della definizione: tutto l’inghippo sta lì. Ogni volta che definiamo qualcosa partendo da basi assiomatiche, stiamo dogmatizzando, perché ipostatizziamo un dogma presupposto, un dato per certo anapodittico, un quid indimostrato. Occorre ripartire, quindi, da una presa di posizione forte contro il nichilismo imperante ed il pensiero debole, che è debole non perché non possa essere forte, ma perché non fa palestra, cercando di analizzare al fondo i modi e gli usi del nostro linguaggio.
Qualcuno potrà obiettarmi che non si possa semplificare così tanto, nel senso che la complessità concettuale di un concetto non è ridotta a funzione. Ma io sto parlando dei presupposti, nel senso che praticamente tutta la filosofia del Novecento è antirazionalistica ed anticritica e tuttavia, guarda caso, assume il procedimento kantiano come fondamento. Persino l’ontologista contemporaneo prende il concetto di essere e per costruirci sopra la propria filosofia, parte da presupposti indimostrati ovvero definisce l’essere in qualche modo: il suo. Il procedimento, come si vede, è assiomatico, ed in esso, precisamente, trova sede quel residuo di dogmaticità che permane nel kantismo.
Facciamo un esempio. Euclide, definizione del punto, prima proposizione degli Elementi: “punto è ciò che non ha parti”. E’ un dato per certo, un presupposto, un postulato. Ancora oggi, il punto è ciò che non ha parti. Ma siamo proprio sicuri che sia così, non certo in senso oggettuale, quanto concettuale, o siamo semplicemente partiti da un presupposto, da un incipit di narrazione?
Questo è il metodo assiomatico – scolastico, noto a tutte le matricole delle facoltà di filosofia e di matematica, che serve per le dimostrazioni perché per svolgerle bisogna partire pur da qualche cosa. La circolarità ermeneutica, però, ne è esclusa, perché si tratta di un processo lineare ed antico come Euclide; apparirà chiaro, dunque, come la forma logica normale “x è y” si trova ancora alla base di gran parte della filosofia di ogni tempo e, siccome proprio così funziona il linguaggio, anche della filosofia del Novecento, nonostante le dichiarate morti e parricidi (della metafisica, del razionalismo, di Hegel, di Dio, dell’uomo e via discorrendo) che lungo il suo corso si sono avvicendati; proprio perché parte da presupposti, da incipit di narrazioni, anzi di più: da prologhi taciuti, già detti in precedenza da altri; ed in questo esser taciuti, risiede l’impostura; ché se fossero detti, non lo sarebbe più.
Appare così palese che quest’impostura filosofica del Novecento dice le stesse cose di prima in modo diverso, è rivoluzionaria per finta, e dunque, non scopre nulla, ma “lascia tutto com’è” (Wittgenstein). Proprio per questo si differenzia dalla scienza, e ciò non sarebbe un male, se non l’avesse in larga parte fagocitata, ingabbiando la scienza nelle vetuste sbarre dell’indecidibilità, facendo in modo, insomma, che si passasse da “la filosofia lascia tutto com’è” a “la scienza lascia tutto com’è”: senza la minima possibilità di scoperta, con la sola funzione replicante della differenza e della ripetizione.
Ecco perché occorre urgentemente una rivoluzione che riapra il campo (scientifico) ad una logica della scoperta e, di conseguenza, ad una circolarità ermeneutica vera, non dissimulata dietro a rivoluzioni di pensiero con i piedi di argilla. Si potrebbe quindi tentare di attuare una proposta: si può cominciare cambiando impostazione e metodo, ovvero passando dal metodo assiomatico di derivazione aristotelica al metodo euristico di ascendenza platonica, come nell’ambito degli studi di logica matematica dello Studium Urbis già si tenta di fare da una decina d’anni [1]. Da un metodo antico ad uno addirittura precedente, ma caduto nel dimenticatoio, il quale però sembra un buon punto di partenza per attuare scoperte scientifiche che non siano semplicemente forme di impostura velate di neologismi.
Infatti, occorre ribadirlo, i filosofi di oggi non scrivono romanzi, ma narrazioni, cioè aleatorietà indimostrate, il ché, per un filosofo, è la morte, a meno che non abbia già ucciso la scienza, la conoscenza, ed allora non sia più un filosofo, come infatti a me da un bel pezzo pare e come ho cercato di dimostrare in precedenza applicando quest’analisi, ad esempio, alle nuove metodologie storiografiche del Novecento (si veda qui, qui e qui) [2].
Se il trilemma di Munchahusen, nella sua doppia formulazione, afferma che non c’è modo logico per affermare verità assoluta, trovandomi d’accordo, il problema è quanto il costruttivismo abbia utilizzato quest’affermazione, nella terza modalità, quella assiomatica anapodittica, per dare il via al creazionismo neologistico e alla notte in cui tutte le vacche sono nere. Ovvero: va bene, conversando con Apel, con Popper, con Heisenberg, con Goedel eccetera che la verità assoluta non si dia in quanto tale. Ma non va bene quando, sulla base di questa certezza (“Assoluta?”) si dà il via libera alla sparatoria nel mucchio, autorizzandosi alla libera inventio concettuale, che è quanto io penso abbia fatto, ad esempio, il povero Deleuze, spesso oggetto esemplare delle mie critiche, in quanto le sue neoformazioni concettuali sono troppo marcate in questo senso, derivando da opere di inventio e poietica adattate surrettiziamente a dimostrare tesi di partenza date per buone. Laddove, beninteso, è la dimostrazione che si piega all’ipotesi, non il contrario. Catherine Clément, in un colloquio del 1980 con Gilles Deleuze intitolato Dall’Edipo a Millepiani, riporta, e ciò si prenda come un dato estremamente significativo quale è: “Oggi, ogni violenza, verbale o scritta, si è come sopita da sé per eccesso d’uso: tutto è già stato attaccato. Del resto, già nel 1972, quando obiettavo appunto a Gilles Deleuze, che tutte le critiche mosse contro Freud non erano delle “novità”, mi ricordo di averlo sentito rispondere: “Sì – mi diceva – ma noi, noi siamo degli stilisti” [3]. Deleuze e Guattari sapevano perfettamente di scrivere narrazioni; Foucault, molto onestamente, non si peritava di definirsi filosofo; ed il loro bello stile è indubitabile. Allora perché li consideriamo tali noi?
Per fare un esempio, non è un caso che lo stesso Gianni Vattimo riconosca in Thomas S. Kuhn una certa “estetizzazione della storia della scienza” come “sintomo e manifestazione conclusiva” di ciò che “si può chiamare la centralità dell’estetico […] nella modernità”, “non tanto o solo dell’estetica come disciplina filosofica, ma dell’estetico come sfera dell’esperienza, come dimensione d’esistenza che assume così un valore emblematico, di modello, appunto, per pensare la storicità in generale” [4]. Ma in questo assunto, Vattimo non si accorge di fare proprio al caso nostro e poco al caso suo, perché, per il suo tramite, si potrebbe definire ed avvalorare ciò che sto affermando sia successo, ovvero la malaugurata perdita di scientificità in senso storico da parte delle varie scienze gnoseologiche ed epistemologiche, e si potrebbe tentare una definizione precipua del processo di sviluppo di quella inventio costruttivistica, in filosofia, che sto cercando di delineare come accaduta in senso storico.
È certo, infatti, che sia avvenuta un’estetizzazione dei fenomeni storici, fra cui la scienza, proprio in virtù della quale Vattimo dà per buono il pensiero debole (col ragionamento implicito che se ciò è accaduto in senso storico, il pensiero debole doveva in qualche modo manifestarsi come unica via per forza di cose: ma questo è un peccaminoso ragionamento deterministico: debole sì, ma in un altro senso!). È accaduto, più semplicemente, che ad un certo momento della nostra storia abbiamo evinto la tautologia essere la base, il fondamento del linguaggio stesso. Infatti, senza processo tautologico, neanche penseremmo: ecco la grande presa di coscienza del presunto pensiero debole, in realtà, hegelizzando, “la festa e la forza” del pensiero. Rimandiamo la mente al Tractatus wittgensteiniano come al punto di svolta in questo senso, alla pietra miliare dopo la quale non si può più tornare indietro. Si vede bene che l’aletheia è ormai irrimediabilmente problematizzata; che non vuol dire dileguata, ma discussa in modo tale che qualsiasi punto di osservazione, heisenberghianamente, modifica e deforma l’intero sistema veritativo; compreso, si badi bene, quello dubitativo. Allora, che senso ha parlare di pensiero debole contrapposto ad un pensiero forte, se il linguaggio è tautologico perché così è, se l’aletheia manifestantesi in absentia è ed è stata sempre la sua stessa natura? E questa posizione non necessariamente è nichilistica: nichilismo è affermare assolutamente che la verità non esista, non certo riconoscerne il travaglio, in un parto cesareo in cui il forcipe ferisce il reale nel tentativo di afferrarlo per successive approssimazioni. Nichilismo è dare per morta la scienza, la scoperta, la logica dei sistemi aperti, affermando invece falsamente di starci dentro e di esserne i portavoce proprio in virtù di quella presunta morte, quando invece si rimane immersi nelle pastoie immobilizzanti dell’assiomatica, dell’aristotelismo e dei sistemi chiusi.
[1] Si tratta di un metodo logico – matematico molto antico ma caduto in disuso e dimenticato, che è tornato in auge in seguito alle recenti ricerche di studiosi romani nel campo della logica matematica (Carlo Cellucci nel suo Le ragioni della logica Bari – Roma 2005 e in studi successivi, e il suo giovane allievo Emiliano Ippoliti).
[2] Nel mio saggio sulla scuola delle Annales, pubblicato in due puntate su Critica Impura a marzo del 2011 e successivamente, in forma unitaria riveduta e corretta, su Storia & Storici esattamente un anno dopo, decostruisco l’istanza pseudoscientifica di quella scuola storiografica con queste stesse armi analitiche, individuandone le magagne al fondo.
[3] In Gilles Deleuze, Immanenza, Milano – Udine 2010, p. 33.
[4] G. Vattimo in La fine della modernità, Milano, p. 103, riferendosi a T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1967.