L’UTILIZZO RETORICO E “POLITICO” DEL CONCETTO “ANTROPOMORFISMO” E IL DOPPIO TAGLIO
Ne “La vita morale degli animali” l’etologo Marc Bekoff ha spiegato che “il motto per la continuità evolutiva tra gli uomini e gli animali è: se noi l’abbiamo, allora anche loro ce l’hanno”, aggiungendo che “a definire noi e gli altri animali è una scala di grigi, mai il bianco e il nero. E’ buffo che siamo pronti ad accettare questa continuità in fisiologia e in anatomia, ma che non riusciamo ad accettarla in campo emotivo e morale”. Già Darwin ne “L’origine dell’uomo” e con un notevole senso di ironia nei confronti degli scettici ne aveva ampiamente parlato “ (…) Il fatto che gli animali a noi sottostanti risentano le medesime emozioni che risentiamo noi stessi è tanto evidentemente fermato, che non è necessario tediare il lettore riferendo molti particolari (…). L’etologo Franz de Waal, tra i molti, ha dato parimenti contributi decisivi in questo campo di ricerca.
Eppure ancora oggi coloro che hanno fatto scelte etiche di un determinato tipo si vedono spesso confrontati con l’accusa di “antropomorfismo”. La tecnica è spesso la medesima (vale anche per altri temi): si cercano sul web le posizioni piu assurde e irrealistiche (ad esempio il racconto di un verme che cerca di salvare una formica che a sua volta ringrazia) per contestare su tale base il fondamento di tali scelte (una variante della fallacia logica dello straw man, nota anche come ricerca ossessiva della “pepita di letame” elevata a campione rappresentativo).
Il motivo risiede nel fatto che nella nostra società tendiamo ad attribuire valore agli altri esseri viventi solamente nella misura in cui essi ci somigliano (nonostante, almeno in questo caso, non dovremmo essere la misura di tutte le cose) e attribuire ad altri animali simili caratteristiche in termini di emozioni, dolore, empatia, intelligenza, socialità, linguaggio, significherebbe quindi metterne in discussione l’abuso e lo sfruttamento nei più svariati campi.
Ho trovato di grande interesse un articolo comparso sul numero di aprile di Mente & Cervello, di Simone Gozzano, che peraltro con molta stima sempre seguo. Ho trovato questo articolo per alcuni aspetti criticabile e per altri illuminante. In tale articolo Gozzano si chiede se non sia esagerato e fuori luogo parlare di empatia nel caso dei ratti (1) (in un articolo precedente si era parlato dell’esperimento del ratto altruista che preferisce liberare il compagno imprigionato che ricevere una tavoletta di cioccolata) e degli animali in generale. Si chiede perché ad esempio non si sia parlato di altruismo anche per quelle formiche che sono state osservate salvare dei conspecifici , laddove forse il tutto sarebbe semplicemente da ricondurre a meccanismi funzionali (una sorta di meccanismo naturale per favorire la prosecuzione della specie). A mio parere un errore frequente consiste nel considerare esclusivamente due categorie animali: uomo da una parte e tutti gli altri dall’altra.
Nello stesso numero della rivista Patrica S. Churcheland afferma infatti quanto segue: “la morale ha avuto origine filogeneticamente con i mammiferi. Questa classe biologica produce una prole così inetta da avere bisogno di cure parentali per molto tempo dopo la nascita. La capacità di preoccuparsi di altri – del tutto estranea al cervello rettili ano – si è dunque neuralmente attuata in un tempo relativamente breve. Dalla preoccupazione per il benessere dei figli si sono sviluppate la compassione e l’altruismo, come pure la capacità di leggere stati mentali di altri, nonché di imparare dagli altri. “ E lo stesso Bekoff si esprime in questi termini: “Definisco la moralità come un’insieme di comportamenti correlati e indirizzati verso gli altri, volti ad ampliare e regolare le complesse relazioni all’interno dei gruppi sociali”, sottolineando che sia d’accordo nel fatto che “non basti rilevare i comportamenti cooperativi o altruistici, altrimenti potremmo attribuire la moralità anche ad api e formiche .Dunque la moralità è virtù di quegli animali che “mostrano forme complesse di cooperazione. I requisiti minimi devono essere un certo grado di complessità sociale, la presenza di norme comportamentali stabilite, capacità cognitive avanzate, oltre che l’abilità di prendere decisioni basate sulla percezione del passato e del futuro”.
Sintetizzando: altruismo non è uguale altruismo, l'altruismo della formica è diverso dall'altruismo del topo che è diverso dall'altruismo del pipistrello che è diverso dall'altruismo dell'uomo. In alcune specie è dimostrato ad esempio essere associato ad alti livelli di empatia (topo) in altre no (formiche). Con ogni probabilità esso costituisce per tutte le specie un importante fattore in termini evolutivi.
Un paradosso: un nuovo recentissimo studio (2) (peraltro molto discutibile, come rilevano i ricercatori stessi) pare confermare come i ratti addirittura riconoscano le espressioni di dolore sulla faccia dei propri simili. Eppure si ama ancora parlare di antropomorfismo, laddove a mio parere, le ragioni di ciò risiedono in cause eminentemente “politiche”.
Significativo comunque come nell’articolo Simone Gozzano punti il dito su quella che definisce l’arma a doppio taglio del problema dei limiti dell’antropomorfismo. Riporto a seguito parte del passo originale, ma io sintetizzerei in questo modo: nonostante tendiamo a rivestire di valenze ontologicamente superiori il nostro agire siamo anche noi il prodotto di adattamenti in senso evolutivo:
“Da un lato siamo esortati a non usare termini psicologici laddove non ce ne sia assoluta necessità, per esempio quando osserviamo che il comportamento degli animali è insensibile a cambiamenti che sono psicologicamente importanti. Dall’altro dobbiamo chiederci se la parsimonia nell’uso dei richiami psicologici per giustificare un certo comportamento non si debba applicare anche alle spiegazioni dei nostri comportamenti, che di solito vestiamo di molta psicologia. Perché salviamo gli altri, se e quando lo facciamo? Perché potremmo essere noi nei loro panni o perché non vogliamo sentir strillare?”
Concludo con un passo molto significativo di De Waal sul tema:
"Come studioso del comportamento degli scimpanzè anche io ho incontrato resistenze a chiamare riconciliazioni le riunioni amichevoli fra ex avversari. Anzi, non avrei nemmeno dovuto usare la parola amichevole, poiché l’eufemismo comunemente accettato era affiliativo. Il termine riconciliazione era troppo smaccatamente antropomorfico. Mentre i termini correlati all’aggressività, alla violenza o alla competitività non hanno mai suscitato il minimo problema, ci si aspettava che io passassi a un linguaggio disumanizzato appena iniziavo a descrivere i rapporti affettuosi fra due animali a scontro appena concluso. Una riconciliazione sugellata da un bacio avrebbe dovuto essere descritta come un'interazione postconflittuale comportante un contatto bocca a bocca. Barbara Smiths incontroò un'analoga resistenza quando scelse amicizia come ovvia denominazione per gli intimi rapporti tra maschi e femmine di babbuino adulto. Gli animali possono realmente avere degli amici? Fu la domanda posta da colleghi che trovavano naturalissimo che gli animali avessero dei rivali.
Considerato questo doppio standard prevedo che anche il termine bonding (legame) diverrà ben presto tabù, sebbene sia stato coniato dagli etologi come vocabolo neutro per riferirsi all'attaccamento emotivo. Paradossalmente, da allora il termine è entrato a far parte dell'inglese corrente proprio con il significato che si tentava di aggirare, come nella locuzione mother-child-bound e in male bonding, mentre sta rapidamente divenendo troppo pregno di significati per gli studiosi del comportamento animale" (pag. 31, Il bene e il male nell'uomo e negli altri animali, Ed. Garzanti)