Sul numero attuale di Mente & Cervello troverete un bellissimo articolo (“il bene relativo”) vertente sul quesito che si pongono anche i ricercatori nel campo della neuroetica: l’osservazione del cervello può aiutare a definire una morale innata? Esistono norme saldamente radicate nel cervello umano? Il dibattito è ancora aperto e si è lungi dall’avere risposte definitive, ma ci ha fatto molto piacere avere alcune conferme su riflessioni precedenti ( N. 43 del sito FL nella parte finale “fondamento dell’etica”). Riportiamo qui a seguito i passaggi dell’articolo che troviamo piu interessanti:
(…) Senza dubbio ci sono pilastri su cui si fonda ogni società, per esempio il divieto di uccidere truffare o rubare: si tratta di proibizioni essenziali per una comunità funzionante, ma sono anche naturali? (…) Chiaramente è tutt’altro che banale cercare di fissare i confini fra una morale acquisita attraverso la socialità e una morale innata. Filosofi e teologi hanno ritenuto per secoli che le regole dell’etica ci fossero state date da Dio (…) Il principio della reciprocità è considerato ancora oggi universale da molti pensatori etici, eppure ciò dipende probabilmente solo dalla sua grande astrattezza. Rimane imprecisato quali concrete richieste sotto forma di prescrizione quotidiane ne derivino. In problemi così concreti come quelli che hanno a che fare con la possibilità di mangiare animali, ed eventualmente quali, o di quali forme della sessualità si possono praticare, oggi domina un relativismo etico probabilmente unico nella storia (…) Ci sono innanzitutto due indizi relativamente forti del fatto che potremmo avere già alla nascita una determinata proprietà o comportamento: un indizio è se qualcosa di paragonabile possa essere riscontrato anche in altri animali, e l’altro è se questo qualcosa compaia in modo uniforme anche in altre culture. In verità anche altri mammiferi mostrano manifestazioni di sdegno morale simili a quelle dell’uomo. Tuttavia qui ci si riferisce solo a situazioni nelle quali l’uomo stesso può trovarsi carente, e non si trova alcuna traccia di connessioni universalmente valide. Nel confronto interculturale sorprende che principi che appaiono universali come quello di partecipazione o di reciprocità vengano espressi e vissuti in modi cosi diversi (…).
In conclusione facciamo un piccolo test e cerchiamo di stabilire, senza lasciarci condizionare dai nostri istinti viscerali, quanto ci sembrino (im)morali le azioni descritte di seguito. Pronti? Essere infedeli. Fare donazioni alle vittime di terremoti. Uccidere un bambino. Risparmiare corrente. Esportare armi. Viaggiare senza biglietto. Essere vegetariani. Tradire un segreto. Mentire a un amico.
Va bene, è stato facile. Ma che ne dite di del fatto di mangiare carne? Di rivelare le azioni illegali compiute dai servizi segreti? Di scegliere un’interruzione di gravidanza di fronte alla possibilità di avere un bambino disabile? Di fornire armi all’Iraq? Di mentire a un amico per proteggerlo da se stesso?
E’ chiaro che il giudizio su un’azione dipende fortemente dal contesto, si tratti della situazione personale (nel caso di una menzogna), del fine perseguito (nel caso di un tradimento) o del contesto politico (nel caso delle armi). Questi pochi esempi dimostrano che spesso non c’è alcuna soluzione moralmente corretta: dobbiamo sempre decidere come se fosse la prima volta, prendendo la decisione che giudichiamo più favorevole e ponderando i costi etici della nostra scelta (…)
Questa disciplina ci insegna però almeno una cosa: nemmeno il bene e il male hanno avuto origine nel nostro cervello, ma solo la nostra capacità di percepirlo. L’uomo è nato per avere una morale, non per avere una morale ben precisa.