367. Femminismo materialista

Traduzione dell’intervista a Christine Delphy a cura di Cristiana Pugliese e Silvia Molé (Associazione Parte in Causa)  registrata su Radio Radicale il 24 aprile 2018.

 

 

Molé - Buongiorno Christine, è un grande onore per noi averla qui oggi. Siamo felici che abbia accettato questa intervista.  Prima di iniziare con le domande, vorrei dare al pubblico alcune informazioni sulla sua biografia, in italiano:

 

Comincerò con una doverosa sintesi della biografia di Christine Delphy e ringrazio  Deborah Ardilli, studiosa del femminismo materialista per l’aiuto che mi ha dato nell’approfondire il pensiero e la vita di questa grande autrice.

Christine Delphy è una sociologa francese e una tra le più note femministe al mondo in particolare nel contesto del cosiddetto femminismo materialista a cui lei diede avvio intorno al 1975. Nasce a Parigi nel 1941 e dopo la laurea in sociologia conseguita alla Sorbona si reca per un periodo negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio. All’Università di Berkley scrive una dissertazione su Freud al quale contesta di aver enunciato  una inferiorita psicologica della donna dalla quale sarebbe derivata una inferiorita sociale e gli contesta pure il fatto di difendere come sola sessualità “normale” quella eterosessuale. E questo le fece comprendere a pieno la stigmatizzazione delle persone omosessuali. Durante il soggiorno statunitense nel 1965 stringe contatti e lavora per  associazioni impegnate sul fronte dei diritti civili degli afroamericani. Verso la fine degli anni 60 comincia a militare in gruppi femministi legati al movimento di liberazione delle donne di cui lei è una delle fondatrici e nel 1970 comincia la collaborazione anche con Monique Wittig. Insieme a Simone de Beauvoir fonda nel 1977 la rivista questions feministes oggi nouvelles questions feministes, una rivista che tra l’altro introduce il concetto di genere,  ed è dal 1970 ricercatrice al CNRS occupandosi di  studi femministi e di genere. In Italia purtroppo mancano in gran parte traduzioni delle sue opere, eccezioni ad esempio per l’articolo del 1970 Il nemico principale e per l’articolo del 1991 Pensare il genere. Degno di nota è il fatto che non occorre attendere gli anni novanta  per veder decostruita la cornice essenzialista che pregiudica una comprensione integralmente politica dei rapporti di genere. Ella infatti si pone in contrapposizione alla corrente femminista differenzialista o essenzialista/naturalista e in una certa misura anche a un certo riduzionismo del marxismo ortodosso, il patriarcato non è riducibile al capitalismo, lei teorizza la co-esistenza di modi di produzione e rompe diciamo il dogma del modo di produzione unico, attraverso l’individuazione del modo di produzione domestico. In anni piu recenti si è anche distinta nella lotta contro l’islamofobia e nella strumentalizzazione del femminismo in chiave anti islamica. E ha condotto forti critiche contro le politiche imperialiste occidentali e relative guerre sui vari fronti. Lo scorso anno firma un documento contro un mattatoio francese che lascia presagire un crescente interesse verso la questione animale e su cui porrò una domanda finale.

 

 

 

Molè - Christine, le faccio la mia prima domanda: cos’è il materialismo femminista e quali sono oggi i suoi principali obiettivi? 

Delphy - Innanzitutto io parlo di femminismo materialista e non di materialismo femminista. Sono stati invertiti i termini. Come hai ben detto nella presentazione in italiano qui si tratta di femminismo materialista. Che cos’è?
È una visione dell’oppressione delle donne, intesa come oppressione economica. Per oppressione economica intendo l’economia in senso lato e quindi anche le condizioni in cui vivono le donne . Mi sono interessata alle condizioni di produzione della vita materiale femminile. Quindi, l’oppressione di cui parlo è quella vissuta in primo luogo nella famiglia, all’interno del nucleo familiare. È questo il mio principale interesse, che mi ha convinto a occuparmi di questa parte importante del lavoro tipico del mondo occidentale, e probabilmente di tutto il mondo, cioè il lavoro che le donne eseguono in quanto mogli senza riceverne una remunerazione, in altre parole le donne non possiedono la loro forza lavoro perché all’interno del matrimonio o di un rapporto di concubinato la loro forza lavoro è accaparrata dal marito, diventa la sua proprietà. Le donne lavorano gratuitamente come, si è detto, in una situazione di schiavitù. La visione però è molto più ampia e include anche l’appropriazione sessuale. Ancora oggi, perlomeno in Francia, e penso nella maggior parte dei paesi occidentali, la soddisfazione di quelli che sono considerati i bisogni sessuali del marito costituisce un dovere della donna.  In Francia d’altronde si parla di dovere coniugale, cioè di servizi sessuali che la donna deve offrire al marito, almeno in un primo tempo, oltre allo sfruttamento del suo lavoro a titolo gratuito. È questo che intendo per femminismo materialista: si riferisce alle condizioni di vita delle donne e al modo in cui ottengono un mezzo di sostentamento. In questo sistema, poiché il lavoro femminile appartiene in pratica al marito, in molti ambiti economici, ad esempio in agricoltura, nell’imprenditoria, o anche nelle professioni cosiddette autonome, quando il marito possiede un’autofficina o è medico o avvocato o commerciante, quello che osserviamo è che le donne lavorano, aiutano come si dice il marito nel suo lavoro, ma è il marito che gestisce il denaro ricavato dalla loro produzione, come nel caso delle agricoltrici ovvero delle mogli di agricoltori. Questo tema è stato il mio primo interesse, e fin dall’inizio mi sono trovata a combattere l’idea imperante a quei tempi nell’ambiente in cui vivevamo, non solo io, ma direi un po’ tutti, anche le altre femministe, che la causa del male fosse il capitalismo. Quindi ho voluto distinguere nettamente la modalità capitalista dalla modalità patriarcale, il lavoro di dipendente dal lavoro domestico perché il lavoro domestico non comprende solo quella parte di lavoro che Marx definiva superlavoro e che genera un plus-valore di cui usufruisce il capitalismo, ma è tutto il lavoro, e non solo una piccola parte di esso, di cui una donna è spossessata.  A questo proposito, ho affermato che ci sono almeno due modalità di produzione, basti pensare alle modalità di produzione dei paesi non occidentali, dove lo sfruttamento femminile è ancora radicato in sistemi simili alla schiavitù o alla servitù.  Questo è il tema principale della discussione che ho avuto con e contro le femministe che pensavano, come le loro organizzazioni, che la causa di ogni male fosse il sistema capitalista. Mi sono ribellata non solo a questa visione di tipo economico, basata sulla dipendenza economica delle donne, ma anche a tutte le spiegazioni, a mio avviso, non di ordine materialista e che mi sembravano idealiste in termini di cultura, di psicologia, di quel che volete. So che in Italia, purtroppo per voi, le femministe sono in gran parte essenzialiste, credo.

Molé- La mia seconda domanda: quali sono le forme di lotta più efficaci per combattere il patriarcato oggi ?

Delphy - A lungo, come tutti, ho creduto che la situazione femminile rivestisse una molteplicità di aspetti perché le donne sono oppresse in tutti i campi (sono oppresse anche dal sistema capitalista – gli stipendi delle donne in Francia sono inferiori del 26% rispetto a quelli degli uomini e questo vuol dire che gli uomini guadagnano il 33% in più delle donne per lo stesso lavoro). Quindi esiste una doppia oppressione. Penso che l’oppressione patriarcale o domestica sia la prima, ma il problema è che su tutte queste situazioni gioca l’oppressione sessuale, una prevaricazione nella quotidianità che è culturale e che è anche data dal silenzio che è fatto sulla creatività, le opere artistiche, intellettuali, ecc. delle donne.  
Per questo, ho pensato a lungo che il primo sistema da sconfiggere dovesse essere il sistema materiale che relega le donne in una situazione di dipendenza e di lavoro non retribuito quale quello che svolgono per la famiglia e per il marito. Ora però ho una visione più empirica, da quando mi sono resa conto quarant’anni fa, quando è nato il movimento di liberazione femminile in Francia, che in realtà non c’è un’unica chiave.  In altri termini, si deve lottare in tutti i campi. In Francia, e penso anche in Italia, c’è il movimento “Me too”. Sono convinta che sia un’ottima cosa, molto importante, negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia, non so bene in Italia e in Spagna. È visto come una rivoluzione, nel vero senso della parola, nella denuncia delle aggressioni sessuali e delle violenze, delle molestie, della libertà che si concedono gli uomini di interrompere una donna che sta pensando ai fatti suoi e cammina da sola lungo la strada, dicendole che è bella o che non è bella, o invitandola a bere qualcosa, ecc. Sono modi per occupare, per appropriarsi del tempo e dei pensieri delle donne, anche se non sono aggressioni sessuali. E il diritto degli uomini di aggredire sessualmente non è punito. Pensiamo anche all’atteggiamento delle donne che hanno subito per anni e anni senza mai ribellarsi, come se tutto fosse naturale perché gli uomini sono fatti così e non c’è niente da fare.  Il movimento Me too dice: “ Sì, certo che si può fare qualcosa! Non è obbligatorio, non c’è una ragione biologica o naturale perché l’uomo abbia questo diritto, quindi togliamoglielo.”. Io penso, e non solo da tempi recenti, che tutte le forme di oppressione vanno combattute insieme e che non c’è un qualcosa che scatta o un tasto da schiacciare per liberare le donne da una parte di oppressione e per liberarle contemporaneamente da tutte le altre forme di prevaricazione. In realtà, dobbiamo agire su tutti i fronti. Ad esempio, all’inizio del movimento, nel 1970, abbiamo lottato molto per la liberalizzazione dell’interruzione di gravidanza. Allora andava benissimo e dovevamo farlo. La lotta non è ancora finita e ci vorrà ancora del tempo perché alcuni paesi, fra cui alcuni paesi  europei, vietano ancora l’aborto, come la Polonia o l’Irlanda, e altri limitano il diritto delle donne a praticarlo.  Questa lotta ha seminato qualche piccolo seme come l’idea che il nostro corpo ci appartiene. Ma non basta, perché ci sono altri campi in cui le donne sono considerate inferiori e dove non sono padrone del loro tempo e del loro lavoro. Non basta, perché uno dei problemi è che le donne interiorizzano l’idea che sono inferiori, da tutti i punti di vista, inferiori dal punto di vista fisico, dal punto di vista intellettuale, ecc. Quindi pensano di essere debitrici nei confronti degli uomini che si interessano a loro. La situazione è molto difficile. Per questo motivo, i movimenti di liberazione sono assolutamente indispensabili, perché combattono questo stato di cose, ma il processo è per forza lento e graduale. Le donne lo interiorizzano già alla nascita in un certo senso. La nascita di una bambina è considerata meno importante per mille motivi dalla famiglia. Mangia meno, è obbligata a fare cose che i maschi non sono tenuti a fare, ecc. E dopo 10 o 15 anni di questo addestramento, perché si tratta di un vero e proprio dressage, le ragazze capiscono di essere donne, anche al di fuori della famiglia, a scuola, dove non possono giocare liberamente, non possono giocare con i maschi, ma neanche senza tener conto dei maschi. Anche i ragazzi interiorizzano l’idea di avere molti diritti, molto più delle ragazze e le ragazze interiorizzano il fatto di averne meno. Le persone assimilano queste idee fin dalla nascita ed è un qualcosa che si affievolisce nella società quando i movimenti femministi ottengono nuove vittorie. Ma è molto difficile nella vita individuale. Il grado di rivolta contro queste credenze culturali non è lo stesso in tutti. Ancora una volta penso che questa cultura sminuisca il valore delle donne e abbia proprio questo scopo, anche se non è lo strumento principale della loro oppressione.  Ma evidentemente vi contribuisce insieme a tutto il resto. Le donne non accetterebbero di lavorare gratis per il loro marito se non pensassero di essere creature inferiori.

Molé- Trovo molto interessante ascoltare l’opinione di eminenti intellettuali sul tema del nostro rapporto con gli altri animali. L’anno scorso lei ha firmato una riflessione dell’associazione L214 contro un macello. Pensa che il processo di liberazione possa riguardare anche gli animali?

Delphy - È una domanda difficile. Mi sono interessata all’argomento perché avevo studenti e colleghi che militano in questa battaglia e la questione dei macelli evidentemente è estremamente importante: è l’aspetto più evidente, ed è il primo passo nella richiesta di liberazione degli animali. Penso che ci sia una grossa battaglia da combattere perché gli umani si definiscono in antitesi rispetto agli animali. Si dice che una cosa è umana, per intendere che non è inerente agli animali e quando si dice di qualcosa che è animale si intende dire che non è umana.  Dunque c’è una grande, grandissima battaglia da combattere. Credo che siamo costretti a iniziare gradatamente, con le torture che sono inflitte agli animali. La battaglia contro l’allevamento degli animali di cui ci nutriamo, come le vacche o le capre o i maiali, richiederà un tempo molto lungo, come tutte le battaglie d’altronde. Anche la lotta operaia non solo non è terminata, ma tende a perdere terreno. La battaglia delle donne è lungi dall’essere vinta, è ben lontana da un termine. E anche la battaglia per gli animali, secondo me, prenderà molto tempo.

Molé - Christine, grazie molte per le sue risposte. Continueremo a seguire il suo blog christinedelphy.wordpress.com e speriamo di rimanere in contatto e leggere altre sue nuove opere. 

Delpy - Molte grazie, Silvia.

 

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