Intervento di Silvia Molè in occasione della presentazione del libro “Diurna” di Monica Romano (editore Costa & Nolan), presso il circolo tbigl+Rizzo Lari ex Harvey Milk di Milano, il 23 marzo 2019. Ha moderato Nathan Bonnì, oltre all'autrice sono intervenute anche Laura Caruso e Rosaria Guacci.
Ho letto Diurna d’un fiato, in una notte, prendendo appunti, senza riuscire a smettere. Dentro ho ritrovato infatti, espressi in modo potente, dettagliato e documentato, tutti i caposaldi, le chiavi interpretative che guidano i miei attivismi, i campi in cui ormai ogni giorno mi muovo. Alla fine della lettura quindi la consapevolezza che i meccanismi di oppressione sono identificabili in modo quasi identico da ogni movimento di liberazione. Ma ho provato anche sconforto, grande sconforto, in quanto proprio il fatto che questo testo renda così chiari i termini del dibattito, rende facile comprendere quanto sia a mio avviso voluta l’ignoranza in particolar modo sul tema transgender, ignoranza a oggi ancora più estesa che per altre categorie di oppresse e oppressi. Ritengo che il problema sia innanzitutto a livello istituzionale, in quanto la scuola dovrebbe essere uno degli strumenti fondamentali per veicolare conoscenza sugli aspetti cardine del nostro vivere comune e non esiste alcun programma di informazione in tal senso, ma anche a livello mediatico, dato che ancora oggi delle persone transgender si continua a parlare quasi solo in contesti di gossip, cronaca nera e con sfumature dal macchiettistico al morboso.
Il libro è potente, molto potente. Perché? Perché riesce ad andare anche oltre quello che spesso pare essere il massimo che un potere vigente voglia o possa offrire, paternalismo e carità. Infatti già nella prefazione (di Diana Nardacchione) si trova espresso il concetto per cui quando un potere non riesce più a difendersi, con la violenza o con la censura, cerca di ridurre il dispendio delle energie concedendo la “tolleranza”, definita come quell’atteggiamento per cui viene concesso alle nuove idee di essere espresse a patto che non mettano troppo in discussione l’ideologia vigente tacitamente o implicitamente considerata come sovraordinata o normale o naturale. Tuttavia accadono poi i sovvertimenti, le rivoluzioni, e il mondo può cambiare radicalmente, non soltanto nelle parole, e i cosiddetti diversi non devono più preoccuparsi di proclamarsi innocui nel senso di non minanti l’ordine tradizionale, in quanto i concetti di normalità e diversità non avranno più alcun senso logico, saranno una illusione del passato.
Il libro è potente anche per la ricostruzione storica. Non sono certo lontani gli anni 60, quando cominciarono i primi coming out trans , in un periodo in cui manifestare tendenze o atteggiamenti non consoni al proprio genere poteva ancora essere punito con il carcere, con il manicomio, con la multa per mascheramento, con la privazione della patente di guida, del diritto di voto, in quanto socialmente pericoloso. Prima della legge 164/82 del 1982 era vietato ogni tipo di intervento di mutamento di genere, salvo casi di ermafroditismo. Molto interessante seguire, in ottica di ideologia dominante, tutto l’iter di questa legge sino ad oggi, che in realtà nonostante i passi avanti ha cercato e cerca ancora di essere normativa nel senso di obbligare le persone che intendono acquisire un’altra identità di genere, anche attraverso la modifica dei documenti di identità, a determinati interventi, come la chirurgia o comunque trattamenti medici di vario genere, anche non desiderati, una sorta di obolo cruento da offrire sull’altare della normalità cis, ovvero non trans. Vale a dire vengono tralasciate le esigenze, non meno legittime, di chi sente di non necessitare di inverventi particolari per vivere la propria identità di genere. Si tratta di inserimenti coatti in un sistema binario che permetta di identificare chiaramente due poli. Gli interventi dovrebbero essere infatti una libertà personale e non una coercizione per vedersi affermate e affermati come soggetti di diritti.
Nel contesto qui esposto si capisce quindi come il substrato culturale sia quello maschilista o più precisamente di ordine patriarcale, visto come orgine di eterosessismo, genderismo e sessismo. Genderismo inteso come la convinzione per cui se i sessi sono due anche i generi sessuali si devono conformare al sesso di appartenenza. Non meraviglia quindi il clima ancora prevalentemente transfobico della società attuale, che si ripercuote in ogni aspetto della vita delle persone trans. La discriminazione è sia sistemica che personale. Quella sistemica consiste ad esempio anche in requisiti rigidi per ottenere una identificazione legale corrispondente alla propria identità di genere, trattamenti differenziati (ospedali, carceri, bagni pubblici), organizzazioni che accettano solo persone con documenti rettificati, far passare sotto silenzio la violenza sessuale o gli omicidi delle persone trans. Quella personale ad esempio può consistere nel rifiutare un posto di lavoro o un appartamento in affitto.
Particolarmente sentita nel testo mi pare la questione del lavoro, magistralmente esposta in alcune pagine che definirei davvero di portata universale. Lo sfruttamento lavorativo viene definito come il processo di trasferimento degli effetti del lavoro di un dato gruppo sociale in modo da avvantaggiarne un altro. Praticamente sono le regole sociali, gli effettivi rapporti di potere e una subalternità sociale a definire la natura del lavoro, chi lo svolge per chi. Non a caso viene preso come esempio la popolazione di colore e il lavoro di servizio. Ovunque vi è razzismo l’assunto è che il gruppo oppresso dovrebbe servire il gruppo privilegiato e fatto è che molti bianchi hanno servitori domestici di etnie discriminate. Nelle società occidentali i lavori di servizio sono destinati a persone migranti. Dal punto di vista del genere abbiamo il patriarcato pubblico, quello che riserva alle donne ad esempio lavori di accudimento fisico o prestazioni sessuali o anche di sostegno psicologico. Nel testo Monica scrive: “non è stato difficile per le attiviste transgender identificare come sfruttamento la pratica di riservare loro come unica fonte possibile di sostentamento la prostituzione”, da cui l’associazione culturale transessualità/prostituzione radicata ovunque. Aggiungo io, tutto questo proprio per la mancanza di effettive possibilità di scelta, come avviene oggi anche per le donne migranti, anche quando non abbiano una pistola puntata alla testa. Questo certo ora non per aprire un infinito dibattito sulle opzioni legislative a disposizione, non è la sede, ma solo per chiarire la cornice economica e sociale di riferimento.
Ora, proprio all’inizio della mia riflessione accennavo alle chiavi interpretative, qui ritrovate, che guidano i miei attivismi (femminismo, diritti animali o antifascismo, tanto per intenderci). Una di queste è il concetto di imperialismo culturale, ampiamente affrontato nel testo di Monica, per cui la cultura del gruppo dominante viene universalizzata e accreditata, legittimata come norma. Il gruppo dominante detiene il potere politico ed economico e quindi le persone oppresse si ritrovano definite dall’esterno, nel caso specifico da una società maschilista, eterosessuale e cis, ovvero non trans. Esse diventano quindi stereotipi con connotazioni negative, grottesco, ridicolo, contaminato, malato e infatti uno dei target è quello della completa depatologizzazione della realtà transgender. Tutto questo può condurre anche a interiorizzare il disvalore costruito a tavolino dalla cultura dominante, cercando di cancellare anche ogni traccia del proprio passato.
Per concludere, un accenno a una delle tante componenti diciamo intersezionali del libro, che mi ha fatto un immenso piacere riscontrare, mi riferisco al menzionato processo di autocoscienza che si è sviluppato in seno al movimento trans non diversamente da quanto accadde nel movimento femminista di seconda ondata, ovvero la scoperta che il personale è politico e che quelli che in un primo momento possono sembrare temi personali hanno invece anche una dimensione sociale, politica e culturale. Rimanendo al femminismo, mi pare del tutto ovvio sottolineare che la lotta femminista sia un connubio inscindibile tra donne trans e cis, anche se le donne trans dovrebbero sempre costituire il traino della propria specifica lotta, cisplaining infatti sempre in agguato, anche quando le intenzioni sono ottime. Come le donne nere vivono l’oppressione nell’oppressione, una doppia o tripla oppressione quindi, da cui la necessità di ulteriori strumenti, adeguati, per affrontarla. Diurna quindi, una vita rivendicata alla luce del sole, per riprendere le parole di Helena Velena, la cui splendida postfazione meriterebbe una recensione a se stante.