"...dice Seneca << unusquisque mavult credere quam judicare>> ovvero ognuno preferisce credere che giudicare. Si ha dunque buon gioco quando si ha dalla propria parte un'autorità che l'avversario rispetta. Ma per lui ci saranno tante più autorità valide, quanto più sono limitate le sue conoscenze e le sue capacità. Se queste sono di prim'ordine, per lui ce ne saranno pochissime, prossochè nessuna. Egli accetterà, tutt'al più, l'autorità di persone competenti in una scienza, arte o professione a lui poco nota o del tutto ignota, e anche questa con diffidenza. Al contrario la gente comune ha profondo rispetto per gli esperti di ogni genere.
Essi non sanno che chi fa professione di qualcosa non ama questa ma il suo guadagno: nè sanno che chi insegna una certa cosa raramente la conosce a fondo, perchè a chi studia a fondo di solito non rimane neppure il tempo per insegnare. Solo per il vulgus ci sono molte autorità che trovano rispetto....anche pregiudizi generali possono essere usati come autorità...sì, non c'è alcuna opinione, per quanto assurda, che gli uomini non abbiano esitato a far propria, non appena si è arrivati a convincerli che tale opinione è universalmente accettata...l'universalità di un'opinione, parlando seriamente, non costituisce nè una prova nè un motivo che la rende probabile.
Coloro che lo affermano devono ammettere: 1) che la distanza nel tempo priva quella universalità della sua forza probante: altrimenti dovrebbero riportare in vigore tutti gli antichi errori che un tempo erano universalmente considerati verità: per esempio dovrebbero ripristinare il sistema tolemaico oppure nei paesi protestanti il cattolicesimo 2) che la distanza nello spazio produce lo stesso effetto: altrimenti l'universalità di opinione fra chi professa il buddhismo, il cristianesimo e l'islamismo li metterà in imbarazzo. Ciò che così si chiama opinione generale è a ben guardare l'opinione di due o tre persone; e ce ne convinceremmo se potessimo osservare come si forma una tale opinione universalmente valida.
Troveremmo allora che furono in un primo momento due o tre persone ad avere supposto o presentato e affermato tali opinioni, e che si fu così benevoli verso di loro da credere che le avessero davvero esaminate a fondo: il pregiudizio che costoro fossero sufficientemente capaci indusse dapprima alcuni ad accettare anch'essi l'opinione: a questi credettero a loro volta molti altri, ai quali la pigrizia suggerì di credere subito piuttosto che fare faticosi controlli. Così crebbe di giorno in giorno il novero di tali accoliti pigri e creduloni: infatti, una volta che l'opinione ebbe dalla sua un buon numero di voci, quelli che vennero dopo l'attribuirono al fatto che essa aveva potuto guadagnare a sè quelle voci solo per la fondatezza delle sue ragioni. I rimanenti, per non passare per teste irrequiete che si ribellano contro opinioni universalmente accettate e per saputelli che vogliono essere più intelligenti del mondo intero, furono costretti ad ammettere ciò che era già da tutti considerato giusto. A questo punto il consenso divenne un obbligo. D'ora in poi i pochi che sono capaci di giudizio sono costretti a tacere e a poter parlare è solo chi è del tutto incapace di avere opinioni e giudizi propri, ed è la semplice eco di opinioni altrui: tuttavia, proprio costoro sono difensori tanto più zelanti e intolleranti di quelle opinioni. Infatti, in colui che la pensa diversamente, essi odiano non tanto l'opinione diversa che egli professa, quanto l'audacia di voler giudicare da sè, cosa che essi stessi non provano mai a fare, e in cuor loro ne sono consapevoli.
Insomma: a esser capaci di pensare sono pochissimi, ma opinioni vogliono averne tutti: che cos'altro rimane se non accoglierle belle e fatte da altri? Poichè questo è ciò che accade, quanto può valere ancora la voce di cento milioni di persone? ....in genere si troverà che quando due teste ordinarie disputano fra loro, l'arma comune che essi scelgono sono le autorità: con queste si battono l'un l'altro...."
"io lo dico, tu lo dici, ma alla fine lo dice anche quello:/dopo che lo si è detto tante volte, altro non vedi se non ciò che è stato detto" (Goethe, dalla Farbenlehre)
(Schopenhauer, L'arte di ottenere ragione, Adelphi, pag. 47 in poi)
(si veda anche il Nr. 336: fraintendimenti della fallacia ad verecundiam)