Ho trovato molto interessante il seguente articolo riguardante i trapianti. Istintivamente concordo sulla "soluzione attuale", anche se la breve spiegazione offerta da Marino non mi sembra sufficiente. Con la preziosa collaborazione dei miei interlocutori sul gruppo fallacie logiche sono giunta ad alcune riflessioni (a fondo pagina), per quanto provvisorie e aggiornabili al comparire di nuovi dati, o nuovi punti di vista, dal momento che la questione è tutt'altro che semplice.
"Bioetica - Trapianti: Prima i giovani?" (di Ignazio Marino, L'Espresso, 07.04.11)
"E se le regole per la distribuzione degli organi venissero capovolte? Se ne discute negli USA dove l'organismo che coordina le donazioni (UNOS) ha proposto che i reni prelevati dai donatori migliori possano essere trapiantati ai pazienti in condizioni di salute meno gravi e più giovani, in modo da rendere più efficace il trapianto date le maggiori probabilità di sopravvivenza a lungo termine del paziente. Tutto il contrario di quanto accade oggi: gli organi sono attribuiti in base al tempo passato in lista d'attesa per cui i più ammalati hanno migliori possibilità di ricevere un organo. Le reazioni sono ambivalenti: da una parte c'è chi condivide la proposta perchè gli organi sono pochi ed è meglio vadano a chi ha maggiori possibilità di vivere a lungo. Dall'altra invece, c'è chi non ammette che l'età possa essere un fattore di discriminazione. Oggi un sessantenne grazie ad un trapianto di rene può ambire a una vita normale per almeno vent'anni. Perchè togliergli questa opportunità? E' giusto cambiare le regole in nome di un pragmatismo concreto ma forse esasperato? La medicina dovrebbe chiedersi quale sia la cosa più giusta da fare, non solo la più conveniente"
Un pò di brainstorming quindi, partendo più a monte. Dal valore che attribuiamo alla vita umana. Possiamo dire che la vita di un bambino è più importante di quella di un anziano o di un adolescente? E da qui trarne precetti sul diritto di vita o di morte? A mio parere no, se non altro in quanto in ogni stadio della nostra vita proviamo o possiamo provare dolore (è ciò che accumuna tutti gli animali umani e non umani) ed in ogni stadio della nostra vita elaboriamo informazioni orientandoci al futuro, per il quale è nostro diritto batterci.
Se qualcuno desidera sacrificarsi per un altro individuo, giovane o vecchio che sia, indubbiamente encomiabile, ma non è suo dovere, non è tenuto a farlo. Partendo da questi presupposti mi pare giusto che ciascuno abbia pari diritto di accedere ad una "fonte di salvezza", nel caso specifico un trapianto. Per cui il criterio della temporalità della domanda mi pare equo. Quello delle pari opportunità. Escluderei da tale temporalità casi di gravi malattie parallele ( > aumento considerevole della probabilità della morte) che rendano praticamente inutile il trapianto. L'età non può costituire un limite, non trattandosi di malattia ed essendo assai difficile, appunto, come sottolineato nell'articolo, prevedere la morte naturale. Anche si trattasse di una persona sui 100 anni di età non si potrebbe escludere che camperebbe fino a 110, e 10 anni di vita sono un'infinità, un futuro cui abbiamo diritto. Non portatemi per cortesisa l'esempio di un nonno di 110 anni che desidera il trapianto in quanto sarebbe solo un esercizio retorico :)
Come ha fatto inoltre giustamente notare un mio interlocutore, il tema, posto in questi termini, può anche essere considerato una falsa dicotomia, in quanto ad essere valutati di volta in volta dovrebbero essere i singoli casi, laddove le variabili possono essere e sono in genere molteplici, sia da un punto di vista clinico che sociale ed etico.
Per quanto riguarda il valore della vita desidero fare ancora un parallelo tra disabili e anziani. Da diverso tempo vado affermando che in realtà un disabile viene definito tale non tanto a causa di una particolare menomazione bensì per il fatto che questa lo renda incapace di "produrre" o produrre a sufficienza. Leggevo, sempre sul numero attuale dell'Espresso, un articolo riguardante Ma Aimee Mullins, cui sono state amputate le gambe dal ginocchio in giù. Bellissima, dotata di straordinaria volontà, ha fatto la modella (guadagni cospicui) e ha avuto successo nello sport tra le molte cose. A nessuno verrebbe in mente di guardarla con sufficienza, discriminarla e neanche definirla disabile. Perchè? Perchè nonostante la menomazione produce. E' quindi solo il successo e la produttività a determinare il valore della vita umana? La forza di volontà di questa straordinaria donna non è forse anche in parte derivata dalla volontà di riscatto in seno ad una società improntata all'etica del successo? (l'articolo da L'Espresso non parla della disabilità da questo punto di vista)
Queste sono le mie riflessioni sul tema, provvisorie e ben volentieri aggiornabili al comparire di nuove considerazioni da parte vostra.