391. Uomini nelle gabbie

“(…) La sfilata è conclusa e il pubblico torna a casa, soddisfatto di aver visto da vicino quella babele di “subumani”, e contento di non essere come loro. Soddisfatto di essere bianco e civile. Un’angosciante sfilata ricostruita resuscitando i 35-40000 sventurati che, tra il 1870 e il 1940, attraversarono le strade di Parigi, Londra, Torino, St. Louis, Genova, Marsiglia, Amburgo, New York, Barcellona, Berlino, Anversa e tante altre città europee e americane, per andare a sistemarsi nei recinti degli zoo e dentro le gabbie con gli animali. Dove accorsero a vederli poco meno di un miliardo e mezzo di benpensanti smaniosi di scoprire com’erano fatti gli Altri, per poi mandare cannoni e baionette a portare civiltà e vera fede nelle terre dei selvaggi. Per colonizzarli, naturalmente, con le buone o con le cattive, ma sempre per il loro bene. Questa fu la reale funzione degli zoo umani: stabilizzare l’idea del primato della “razza” bianca, del suo diritto a dominare le “razze inferiori”, e convincere l’opinione pubblica occidentale della necessità di occupare le terre abitate da quasi-uomini e trasformarle in colonie. (…) Poiché oggi sarebbe difficile esporre nelle nostre città selvaggi e cannibali, le agenzie turistiche provvedono a mantenere attivo il fenomeno degli zoo umani accompagnando i clienti a vederli nel loro habitat, con esotici viaggi che vanno sotto il nome di turismo etnico, durante i quali entrambe le parti – indigeni e turisti – recitano il copione come da contratto, complici consapevoli del reciproco inganno, ma col solito rapporto squilibrato tra chi guarda e chi è esibito. A far rivivere i freak show ci pensa invece la televisione, che da diversi anni, con buon successo di ascolti e qualche rara voce critica, esibisce alle famiglie italiane la stessa umanità ferita esposta dal Circo Barnum e da altri meno famosi. In entrambi i casi, un’inquietante replica di fenomeni che pensavamo condannati dalla storia. Sebbene l’esibizione di gruppi umani extraeuropei sia documentata fin dalla prima Esposizione universale di Londra del 1851, in cui furono esibite due troupe di indiani – indù e thug –, la data di nascita ufficiale degli zoo umani è stata fissata al 1875-76, quando il tedesco Carl Hagenbeck, commerciante di animali selvaggi, fornitore e ideatore dei più importanti zoo europei e proprietario di un serraglio ad Amburgo, ebbe l’idea di mettere in mostra a Berlino e Lipsia indigeni delle isole Samoa e alcuni sami (lapponi), presentandoli come individui «allo stato di natura». A queste prime esibizioni seguì, nel 1877, quella dedicata a un gruppo di nubiani coi loro dromedari, che riscosse un grande successo di pubblico. Nascevano così le mostre antropozoologiche, in cui esseri umani e animali condividevano lo stesso spazio, appositamente realizzato e accessibile ai visitatori a pagamento. Gli zoo umani appunto. Nello stesso anno i nubiani e i loro dromedari furono trasferiti a Parigi ed esposti nel serraglio del Jardin Zoologique d’Acclimatation, dove poco dopo furono esibite famiglie di eschimesi, col loro corredo di cacciatori artici. Questi eventi parigini richiamarono quasi un milione di visitatori, per nulla turbati dal fatto che quegli esseri umani fossero esposti nelle gabbie, fino a pochi anni prima occupate dagli animali che la popolazione affamata si era mangiata durante la guerra franco-prussiana del 1870-71. Una sistemazione che fu ritenuta adatta ai selvaggi da esibire e che operava una brutale disumanizzazione attraverso la collocazione di quegli uomini in un ambiente realizzato appositamente per rinchiudere animali: i parigini dovettero ritenere nubiani ed eschimesi naturali residenti dello zoo. E le centinaia di esibizioni che seguirono dimostrarono che quello era il luogo ideale per l’animalizzazione dell’Altro. Nei recinti e nelle gabbie la natura selvaggia era incasellata e messa sotto controllo, mentre i visitatori erano al sicuro nello spazio della civiltà, da cui potevano osservare la barbarie oltre le sbarre. Lo zoo umano divenne così l’orgoglioso simbolo del dominio dell’uomo occidentale che legittimava l’imperialismo, il colonialismo e il razzismo, trasformando l’esibizione dell’Altro in uno spettacolo esotico e divertente. Il processo di disumanizzazione non fu un fenomeno improvviso, estemporaneo, ma il risultato di una sedimentazione di secoli, nella quale si mescolavano e si sostenevano reciprocamente elementi diversi. Con la disumanizzazione le vittime perdevano la natura e la dignità di uomini ed erano trasformate nella rappresentazione di quello che l’espositore e il visitatore desideravano che fossero; una tale regressione legittimava qualsiasi violenza, anche la più aberrante, che non era percepita come tale né dall’aguzzino né dalla società. Un metodo ben documentato da una quantità di immagini, attuato da migliaia di anni e rimasto immutato fino ai giorni nostri.(…).”

Viviano Domenici

Nota della redazione: come femministe antispeciste non possiamo non condannare non solo la reificazione dell’individuo umano ma anche quella delle altre specie, scorgendo delle matrici di dominio comuni.