093. Esperienza e Logica


La seguente riflessione non può che dirsi provvisoria, e verrà continuamente aggiornata sia sulla base dei feedback  ricevuti sia sulla base delle nuove esperienze e letture al proposito. Ogni contributo sarà benvenuto.

Il tema è quello della progressiva trasformazione della mente umana in relazione al potenziamento e allo sviluppo delle nostre capacità logiche, laddove il fine dichiarato è sempre quello del raggiungimento della verità e quindi di una più razionale gestione dell’ambiente che ci circonda.

Ritengo che un’ottima chiave di lettura sia stata offerta da C. S. Peirce attraverso il concetto, come da lui esposto, di esperienza. E ad esemplificazione di esso ritengo di poter condurre un parallelo con i vari stadi della vita umana. Infatti, quelli che noi chiamiamo ragionamenti fallaci costituiscono in determinati stadi della nostra esistenza un vero kit di sopravvivenza. Consideriamo un bambino, il quale nel relazionarsi prenda a riferimento le istruzioni materne. Possiamo parlare di ipse dixit? Certamente no. Oppure un bimbo morso da un cane, il quale tenderà ad evitare nel futuro ogni cane. Generalizzazione indebita? Certamente no: il bimbo sta imparando a muoversi nel mondo attraverso gli strumenti cognitivi a sua disposizione qui ed ora.

Di particolare rilevanza sia nel contesto dello sviluppo dell’individuo che dell’organizzazione sociale sono le conoscenze “derivate da altri”. Io  parlo qui di stereotipo, che non ha necessariamente una connotazione negativa, perlomeno in questo ambito: sia nell'esperienza personale, sia nelle conoscenze relative ai più disparati campi, la varietà e l'ampiezza dell'esistenza rendono impossibile un contatto diretto con i fatti. A questo proposito la cultura (intesa prevalentemente come bagaglio tramandato di generazione in generazione) offre agli individui dei modelli o schemi interpretativi: gli stereotipi. Scrive W. Lippmann che tale atteggiamento  ci permette di risparmiare energie, in quanto il tentativo di vedere ogni realtà in dettaglio impedirebbe ogni forma di azione. In questo senso gli stereotipi sono uno strumento indispensabile al vivere. Il loro utilizzo permette un'immediata lettura dell'ambiente all'interno del quale gravitano i soggetti, e serve loro come guida nell'impostazione dei loro rapporti attraverso la creazione di precise categorizzazioni. Gli individui infatti inseriscono in queste griglie cognitive temi e soggetti, riuscendo così sia ad orientarsi nelle varie situazioni sia a facilitare l'indirizzo delle proprie relazioni.

Da questa analisi si abduce che la conoscenza dei fatti così come si presentano nella realtà risulta fortemente problematica. L'autore perviene ad una descrizione della conoscenza individuale assai interessante. Egli scrive che non vediamo quello che i nostri occhi non sono abiutati a considerare. Siamo colpiti, talvolta consapevolmente, più spesso senza saperlo, da quei fatti che si attagliano alla nostra filosofia, cioè ad una serie più o meno organizzata di immagini per descrivere il mondo che non si vede. Se gli individui giudicano prevalentemente in base a stereotipi, egli si chiede come sia possibile una conoscenza non superficiale dei fatti. Lippmann giunge ad affermare che la maggior parte delle conoscenze comuni sono soprattutto un'interpretazione codificata di fatti.

Stereotipo e pregiudizio, pur non costituendo lo stesso concetto sono quindi intimamente legati tra loro: si può dire forse che il primo costituisca il presupposto cognitivo del secondo. Personalmente, per uscire da questa impasse,  definisco pregiudizio lo stereotipo “immune” (immunizzazione cognitiva) al dubbio e/o all’esperienza. Il bimbo di cui sopra, crescendo ed “esperendo” integrerà o modificherà alcune delle istruzioni materne, che non costituiranno più l’unico punto di riferimento, e si immergerà nella problematica quali e quanti cani siano o possano diventare aggressivi. Ne conoscerà altri, imparerà a distinguere, non sarà più necessario evitarli tutti. La sua razionalità si diversifica per così dire, gli offre un più complesso sistema di “filtri” interpretativi del reale. E il reale gli offrirà di conseguenza un maggior numero di possibilità.

In maniera risolutiva possiamo ora far intervenire C. S. Peirce, secondo il quale usciamo dagli stereotipi, nell’accezione di cui sopra,  attraverso “urti” e sorprese”:

“(…) Senza dubbio l’esperienza è la nostra grande e unica maestra. Quando faccio questa affermazione, non intendo enunciare alcuna dottrina del tipo tabula rasa. Al contrario, vorrei introdurre e subito sostenere l’idea che non c’è mai stato nessun principio nella scienza, dal più grande fino al più piccolo, che non sia scaturito dal potere della mente umana di dare origine a idee vere. Questo parere, nonostante tutto quello che ha saputo realizzare, è così indebolito che, non appena le idee fluiscono dalla mente umana, le idee vere sono quasi sommerse dall’ondata di false nozioni; il compito dell’esperienza è fare precipitare e filtrare le idee false in modo graduale e attraverso una sorta di frazionamento, in modo da eliminarle e permettere che la verità scorra liberamente. Ma come si realizza precisamente quest’azione dell’esperienza? Si realizza attraverso una serie di sorprese. Stiamo aspettando un certo risultato, abbiamo già una certa idea in mente. Anticipiamo il risultato in modo più o meno certo. Il risultato arriva. A volte corrisponde alla nostra aspettativa e allora non abbiamo imparato niente di nuovo (…) Molto spesso però (…) il risultato arriva proprio quando lo aspettavamo, ma non è come lo immaginavamo: è una sorpresa (…) Ad ogni modo la gran parte delle scoperte è il risultato di una sperimentazione (...) Gli esperimenti veramente istruttivi sono quelli in cui questo carattere previsto non si presenta affatto  e nella maggioranza di questi casi non solo non c’è traccia del carattere che ci  saremmo aspettati, ma se ne presenta un altro che non avremmo nemmeno sognato di poter trovare (…) La sorpresa quindi è il carattere dominante dell’esperienza (…) L’Esperienza è quello stato della cognizione che il corso della vita in qualche sua parte ha imposto al riconoscimento dell’esperiente, cioè di colui che è sottoposto all’esperienza, e generalmente le condizioni di questa imposizione sono dovute almeno in parte all’azione del soggetto stesso che esperische (…)” – dalla raccolta “Esperienza e Percezione”, a cura di Maria Luisi, Edizioni ETS –

Significativa anche la definizione di  W. James:

“Experience is a process that continually gives us new material to digest. We handle this intellectually by the apperceiving mass of beliefs of which we find ourselves already possessed, assimilating, rejecting, or rearranging in different degrees” (Humanism and Truth, in “Mind”, 1904, 13, pp 457-475, p. 460)

James parla di “funzione coniugale” (marriage-function) della verità: la sua funzione è mediare il vecchio e il nuovo nell’esperienza:

Purely obiective truth, truth in whose establishment the function of giving human satisfaction in marrying previous parts of experience with newer parts played no role whatever, is nowwher to be found. The reasons why we call things true is the reason why they are true, for ‘to be true’ means only to perform this marriage-function” (W. James, Pragmatism, cit., p. 37).

Importante a mio avviso anche il contributo di Dewey, secondo il quale e usando le parole di G. Tuzet in un commento ad esso

“ (…)  l’esperienza non è mai esperienza di un oggetto da parte di un soggetto, ma interazione fra soggetto ed oggetto, fra organismo e ambiente, o meglio transazione. L’esperienza secondo Dewey non è mera registrazione di un dato (given), ma si estende alla previsione di esperienze future; non è limitata ad un hic et nunc, ma si svolge in una dimensione diacronica; non è esperienza dell’immediato, ma è sempre inferenziale. Vi è una relazione essenziale fra esperienza ed inferenza in virtù del carattere anticipatorio (anticipatory) dell’esperienza, giacchè la dimensione prospettiva dell’esperienza è più importante della sua dimensione retrospettiva. Dunque, esperienza è anche o soprattutto capacità di previsione, pur non essendo, in senso stretto, esperienza del futuro (…) Fare un’esperienza è imparare qualcosa, imparare qualcosa che può essere impiegato nella vita futura (…) In sintesi, secondo la formula divenuta celebre, per Dewey non è possibile una conoscenza spettatoriale, giacchè il conoscere è una forma dell’agire, e nel fare esperienza il soggetto interviene sul mondo. I nostri processi cognitivi si originano da problemi da risolvere e non da un astratto amore di conoscenza (….) James ricordava che più importante non è copiare il mondo, ma arricchirlo. L’esperienza non si sottrae a questa logica, giacchè si lega alle nostre facoltà immaginative, capaci di ipotizzare e innovare. Così come l’esperienza non deve essere pensata separatamente dalle nostre facoltà di immaginazione e creazione, l’immaginazione non deve essere intesa nei termini romantici della fantasia o dell’evasione: l’immaginazione partecipa del reale orientandone lo sviluppo, cercando di migliorarlo rispetto ai fini scelti. L’immaginazione crea nuove possibilità che l’esperienza mette alla prova” (Giovanni Tuzet, “Sul concetto di esperienza”).

Detto questo appare evidente come attraverso l’esperienza l’essere umano acquisti progressivamente un maggior grado di autonomia e soprattutto ulteriori strumenti volti ad indagare,  verificare e ri-creare l’ambiente circostante.

Riprendo a questo punto la nozione EAUI (si veda la presentazione del sito e il numero 24), il cui scopo principale a mio parere è quello di mettere in evidenza, nel contesto del dibattito pubblico contemporaneo, la tendenza ad avvalersi di ragionamenti fallaci, in quanto spesso in grado di farci raggiungere più rapidamente un “obiettivo” . Distinguo quindi tra “artefici” (consapevoli e veri depositari del concetto EAUI) e “fruitori” (inconsapevoli). Anche in questo caso è richiesta esperienza,  coincidente qui con lo studio delle principali teorie o fallacie argomentative. Come giustamente fa notare la filosofa italiana Franca d’Agostini in “Verità Avvelenata” fu nell’antica Grecia

“(…) che emerse il metodo per salvare le ragioni migliori: la competenza logica e argomentativa, di cui tutti i cittadini devono disporre, e che deve essere spinta fino al punto in cui l’abilità retorica incontra le sue ragioni filosofiche. Non è necessario essere filosofi per argomentare bene e riconoscere le fallacie e le ragioni migliori. Ma certamente per usare l’argomentazione in modo divergente rispetto alla prassi sofistica, oggi ben esercitata dagli spin doctors dei politici (o dai politici che sono spin doctors di se stessi) occorre una chiara consapevolezza orientata alla verità e alla vita associata, o più precisamente: occorre la coscienza antidogmatica della fragilità delle conoscenze, accanto alla precisa consapevolezza di ciò che fa di un argomento un buon argomento. Queste prerogative non sono esclusive né specifiche dei filosofi professionali (che ne mancano come ne manca chiunque di noi), e possono essere acquisite da tutti (…)”

Molto utile in questo contesto sarà l’analisi proposta da moltissimi autori riguardo al formarsi delle credenze. Da parte mia non posso non consigliare in primis  C.S. Peirce, “Il Fissarsi della Credenza” (tenacia, autorità, metafisica, scienza), mirabile per precisione e chiarezza espressiva.

 Un'integrazione al Nr. 102 del Menu, con un ottimo contributo tratto dal sito Filosofi Precari.