343. Sul tatto

di Occhi di Barbalbero

(Luca Scarano)


Su Mente e Cervello di Novembre ho tanto apprezzato gli approfondimenti sul senso del tatto. Da recuperare, come recita uno degli articoli, in un mondo dominato dalla vista.

Curioso tuttavia che non si sia parlato della meditazione buddhista, più in generale dello yoga. Inteso non solo come stile di vita, ma proprio come pratica specifica e non necessariamente religiosa.


Perché in effetti la stragrande, per non dire quasi totalità delle pratiche yoga, è un'esperienza di tipo termo-tattile (per definirla alla maniera dei neurologi). Come si evince anche dall'articolo "Il senso ritrovato" di Retzbach, il senso del tatto è composto da vari recettori, tra cui quelli adibiti a sentire la pressione o la distensione e quelli termici. Non solo, ma l'organismo umano è capace di provare sensazioni termo-tattili "interne" al suo stesso corpo.


Ora, epurate per così dire, di tutti gli aspetti mistici esoterici e in generale spirituali, le pratiche yoga puntano dritte sulla coltivazione di queste sensazioni, a volte dette anche della interocezione oppure della propriocezione. Non è un caso che allo yogin è richiesto di "allenarsi" in un luogo silenzioso, spoglio, volendo anche lontano da odori forti e provocanti, pulito, ma soprattutto di chiudere gli occhi. Tutta la tradizione yogica si basa sul fondamento che le nostre percezioni (i sensi) sono illusorie sulla realtà, a partire dalla vista. L'articolo sopra citato ce ne da una conferma scientifica, il tatto, lasciato "solo a se stesso" è il senso meno facilmente ingannabile.


Se avete dei dubbi sulle potenzialità, come dire, pacificanti, rasserenanti, causate dalla "riscoperta" (intesa come piena attenzione) del tatto, basta fare un semplice e veloce esperimento. Anche senza fare alcun asana (le note posizioni hatha yoga) ne praticare alcun prana yama (respiro indotto nel corpo), si può usare la semplice immaginazione. Provate a immaginare per qualche minuto di essere un feto nell'utero (che non vede, non sente, non assapora, non odora) e vi renderete conto del senso immediato di pace che proverete. Singolare che il feto sviluppa prima di tutto il senso del tatto e vive per lungo tempo esclusivamente con esso. Singolare, inoltre, come alcune delle esperienze di "assorbimento" più intense inducano a volte le persone a dire di avere in qualche modo "ricordato di essere prima di nascere".

Ci si potrebbe chiedere perché invece si "promuove" lo yoga come esperienza del respiro. In effetti è solo una questione di traduzioni, che ha dato luogo a questa confusione della causa con l'effetto. Il testo fondamentale delle pratiche yoga, per tradizione ritenuto uno dei pochissimi che riporta fedelmente le parole del Buddha, è l'anapana sati sutta. Tradotto come canzone della consapevolezza del respiro. In realtà il respiro è la causa, il mezzo che si usa. Anapana è invece l'effetto: si tratta di una parola composta che vuol dire "esce" (ana) ed "entra" (pana). Si riferisce all'aria che esce espirando ed entra inspirando, all'interno del corpo. Nelle traduzioni classiche si usano i termini più eleganti inspiro, espiro, invece che entra ed esce. Tuttavia questo distoglie il focus, che invece è il concentrarsi (sati, essere attento a) non sull'atto di inspirare ed espirare ma sulle sensazioni corporee al passaggio dell'aria nel nostro corpo. Si tratta perciò di una esperienza sensoriale prettamente termo-tattile, eventualmente stimolata da "posizioni" oppure dal respiro "indotto" invece che spontaneo (nelle pratiche più antiche il respiro è spontaneo e si sta seduti camminando, semplicemente).


Recita la "canzone": esce è io sono attento quando esce, entra e io sono attento quando entra.

E ancora: con il corpo dentro il corpo, con le sensazioni dentro le sensazioni.

Questo spiega, tra l'altro, perché un'intuizione vecchia di oltre 2600 anni costituisca ancora oggi una delle pratiche corporee più praticate del mondo