095. Creativi non si nasce




CREATIVI  NON SI NASCE, CI SI COSTRUISCE

In data odierna (16 luglio 2011)  ho appreso di un nuovo libro, che non mancherò di acquistare "The innovator's DNA: Mastering the five skills of disruptive Innovators": gli autori intendono qui confutare il luogo comune secondo il quale creativi si nasce, dimostrando che le idee innovative, anche quelle che sembrano nascere dal nulla, in realtà spesso dipendono da una accurata preparazione, da un impegno attivo e da una vasta gamma di esperienze apparentemente non correlati. Gli autori fanno notare che Steve Jobs ha sperimentato nuove cose tutta la vita, "dalla meditazione al  vivere in un ashram in India sino ad   un corso  di calligrafia al Reed College", tutte cose che avrebbero poi contribuito alle idee sulle nuove funzionalità di prodotti Apple (AAPL) .  "La creatività è  collegare le cose", disse una volta Jobs.

Non ho potuto quindi non pensare a quanto lessi tempo addietro sull’intuito, analizzato da Gary Klein, definito come “esperienza tradotta in azione”. In questo contesto è molto significativo notare come le scienze cognitive stiano facendo uscire dal “magico e imponderabile” buona parte delle caratteristiche dell’animale umano. Riporto quindi qui a seguito il seguente articolo di RICCARDO PATERNI, una recensione tramite colloquio con l’autore di “Intelligenza intuitiva. Il vero segreto dei manager e degli imprenditori di successo”, Gary Klein, Guerini e Associati 2006:

 

“Un metodo scientifico applicato in ‘campi estremi’

Quando si parla del concetto di ‘potenziale umano’ spesso si spendono tante belle parole e si articolano frasi ad effetto, senza però giungere ad approfondire aspetti pratici e concreti utili a comprendere, interpretare e utilizzare dette potenzialità nel quotidiano lavorativo e nella vita privata. Gary Klein da più di venti anni lavora come ‘chief scientist’ (capo ricercatore scientifico) della Klein Associates, di Columbus Ohio (USA) su temi di ricerca legati alle attività cognitive proprio allo scopo di comprenderle al meglio e facilitarne un utilizzo efficace. In questo modo il concetto di ‘potenziale umano’ inizia ad essere molto più pragmaticamente tangibile ed identificabile (in puro stile Made in USA) e soprattutto possiamo giungere a riconoscere metodi e strumenti efficaci per valorizzarlo concretamente. Tutto il lavoro di Klein sull’intuito, raccolto nel libro Intelligenza intuitiva. Il vero segreto dei manager e degli imprenditori di successosi basa appunto su questa prospettiva.

Per apprezzare al meglio la sostanza di quanto Klein ha scoperto ed elaborato, è utile chiarire cosa significhi il suo titolo professionale di ‘chief scientist’. Klein è uno psicologo che studia la cognizione: il modo il cui noi percepiamo, agiamo e reagiamo rispetto alla realtà con cui ci confrontiamo. Il metodo che lui usa è scientifico, basato su un rigore operativo che a molti di noi risulterebbe almeno almeno snervante da praticare (tale è la cura, la pazienza e la meticolosità nell’identificare e ponderare ogni singolo dettaglio e ogni singola possibile connessione fra eventi ed osservazioni), al tempo stesso, a differenza di suoi molti colleghi, ha scelto di farlo fuori dall’ambiente asettico del laboratorio, nei contesti concreti di vita reale; anzi Klein è uno dei precursori di questa metodologia di ricerca che negli USA si sta progressivamente diffondendo con il nome di Metacognition.Le basi di questa metodologia di lavoro e circostanze fortuite di vita (come lui non dimentica mai di sottolineare) hanno portato Klein ad avere l’opportunità di rapportare il suo lavoro ad ambiti lavorativi in cui si devono inevitabilmente prendere decisioni fondamentali (a volte anche decisioni che hanno un impatto di ‘vita o morte’) in tempi ridottissimi, in pochi minuti o addirittura pochi secondi; in questi contesti non c’è tempo per analizzare varie opzioni in modo conscio, si deve agire di intuito. Klein nel corso di questi anni ha osservato e studiato ‘sul campo’ il lavoro di persone che sono portate a decidere ed agire in questo modo quotidianamente: vigili del fuoco, marines e personale specializzato operante in reparti ospedalieri di pronto soccorso e cura intensiva; tutto questo gli ha fornito basi concrete di studio sulle quali ha elaborato la sua prospettiva sui fondamenti dell’intuito e su come potenziarlo.

Ho avuto modo di approfondire con Klein il suo lavoro in occasione di incontri di persona, scambi di e-mail e franche discussioni su Skype. Ne sono venute fuori varie considerazioni che a mio parere sono utili ad introdurre ed in alcuni casi espandere le osservazioni e pratiche che Gary ha articolato nel libro sopra citato.

 

 

“L’intuito è esperienza tradotta in azione” - il segreto è tutto nella ‘traduzione’

Nel libro Gary chiarisce dalle primissime pagine che il suo punto di vista sull’intuito è puramente scientifico: si mettono da parte ‘magie’, doni di natura, sesti sensi di vario tipo e così via... o meglio, si analizzano gli effetti di tutte queste ‘capacità’ andandone a rintracciare la radice tangibile e concreta legata al nostro comportamento e tutto ciò che si sviluppa dalla stessa. Questa è la scienza cognitiva. Il libro mi è subito piaciuto proprio per questa sua pragmaticità e praticità che se da un lato spegne il glamour di ‘poteri unici e soprannaturali’, dall’altro alimenta la sostanza del potenziare concretamente certe nostre capacità andandone a scoprire la loro reale natura.

Uno dei primi aspetti che Klein ha identificato nei suoi progetti di osservazione e ricerca è che chi prende decisioni d’intuito spesso non si rende nemmeno conto di aver deciso qualcosa, l’azione è immediata e senza esitazione. Gary sottolinea “L’esperienza in questi frangenti è sicuramente un fattore fondamentale, ma non è sufficiente! La cosa interessante è che professionisti abituati ad utilizzare l’intuito nel loro lavoro quotidiano spesso non si rendono nemmeno conto di farlo e per questo motivo nemmeno riescono a identificare cosa li abbia portati a fare determinate scelte. In realtà, con il nostro lavoro di ricerca, siamo riusciti ad identificare con loro la natura e lo scopo dei vari processi mentali di selezione, processi rapidissimi, che li portano ad agire. Questi processi mentali si basano sul sensemaking che loro danno a tanti piccoli indizi e particolarità legati alla situazione con cui si confrontano. L’esperienza è fondamentale perché consente di accumulare, e successivamente riconoscere, questi indizi; al tempo stesso l’esperienza non è sufficiente perché questi indizi devono essere interpretati dal sensemaking allo scopo che siano veramente utili e ci permettano di agire al meglio” . Il sensemaking è una parola in gergo tecnico che inizia ormai ad essere piuttosto comune anche in Italiano, significa ‘dare un senso’, ‘interpretare’; da questo nasce la definizione di Klein “l’intuito è esperienza tradotta in azione”.

Action script è il termine tecnico che identifica la connessione fra l’interpretazione del contesto e la successiva immediata azione. Più esperienze abbiamo in un determinato campo, più siamo portati a riconoscere rapidamente (il più delle volte a livello inconscio) quegli indizi, quelle particolarità che ci portano ad inquadrare la situazione (sensemaking) e a scegliere il tipo di action script che riteniamo più adatto. Questa è l’essenza del collegamento fra intuito ed esperienza; da notare che questo processo di selezione di action script avviene rapidamente e a livello inconscio. E’ chiaro però che scomponendo le dinamiche dell’intuito in questo modo è possibile lavorare sul riconoscimento e sull’utilizzo dei singoli fattori in causa e questo rafforza la nostra capacità selettiva di action script una volta che ci troviamo in situazioni che ne richiedono l’impiego.

Ecco come togliamo l’alone di ‘magia’ all’intuito e lo portiamo su aspetti pragmatici di percezione e comportamento. Il fattore chiave consiste nel saper riconoscere, analizzare e soprattutto interpretare le nostre esperienze. Questa constatazione mi fa riflettere su quanta approssimazione e superficialità faccia parte di tante piccole e grandi scelte ed esperienze che avvengono in azienda; tutto questo sicuramente non contribuisce a rafforzare le nostre capacità di sensemaking e nemmeno la nostra attitudine ad esercitare l’intuito.

Approfondisco con Klein sul fattore esperienza: “OK Gary, l’esperienza ed il relativo sensemaking sono i fattori chiave. Ma contano soltanto le esperienze che viviamo in prima persona o possiamo beneficiare anche delle esperienze altrui? e se si, come?” Gary è rapido nel rispondere “Le esperienze degli altri possono essere rilevanti tanto quanto le nostre, se non di più. Questi sono alcuni modi per rafforzare le nostre capacità di valutazione ed azione: ascoltare persone che descrivono come hanno gestito situazioni di scelte difficili; fare loro domande al termine dei loro racconti per approfondire la natura degli indizi chiave che li hanno influenzati; condividere con loro i dubbi e le scelte che noi stessi cerchiamo di gestire per avere una loro opinione interpretativa, questa attività può essere particolarmente utile quando abbiamo la fortuna di interagire con persone veramente esperte nel campo in causa.”

 

 

L’intuito e la saggezza; radici comuni

Quindi, riassumendo: varie esperienze in un determinato contesto rafforzano la nostra capacità di utilizzare l’intuito in quanto aumentano la gamma di indizi e particolarità che siamo pronti a percepire ed action script che siamo pronti ad utilizzare. Mi è venuto spontaneo collegare il tutto alla tesi centrale del libro di Goldberg Elkhonon, Il paradosso della saggezza. Come la mente diventa più forte quando invecchia.

Detta tesi evidenzia come la saggezza sia determinata dalla nostra capacità di accumulare un’ampia gamma di modelli mentali generata dalle nostre esperienze; più ampia è questa gamma, maggiore è la possibilità di adottare scelte sagge. Con l’avanzare dell’età il cervello fisiologicamente diminuisce le sue capacità ricettive, al tempo stesso è proprio l’età e l’esperienza che ci ha permesso (potenzialmente) di accumulare quelle esperienze che hanno arricchito i nostri modelli mentali e quindi la nostra capacità di saggezza. Il collegamento fra le ‘fonti’ della saggezza e le ‘fonti’ dell’intuito non è casuale. Elkhonon (un esperto in neuroscienza, una scienza che ha progredito moltissimo nel corso degli ultimi anni e che studia le dinamiche e interazioni del nostro sistema nervoso con il cervello) e Klein sono arrivati a conclusioni molto simili negli aspetti ‘meccanici’ di base proprio perché sia per l’intuito che per la saggezza dipendono dall’efficace gestione di potenzialità fisiologiche che fanno parte del nostro cervello e del nostro sistema nervoso dal quale dipendono le percezioni. Non a caso sia Elkhonon che Klein parlano di esercizi ‘muscolari’ (nel senso esercizi ripetuti e perfezionati con la pratica) per potenziare rispettivamente le nostre capacità di saggezza e di intuito. Ho fatto notare la cosa a Klein che non conosceva il lavoro di Elkhonon e anche lui ha concordato che questo parallelo concettuale non è casuale ma bensì legato agli stessi fondamenti di base.

In entrambi i casi l’aspetto chiave è la gamma di modelli mentali che si hanno a disposizione. Sicuramente gli esperti in un determinato campo hanno una gamma più ampia di modelli da cui attingere e fanno questo in modo più immediato e diretto, esercitando le loro capacità di intuito. Ma attenzione, anche gli esperti non sono infallibili e ciò dipende dal fatto che gli schemi mentali che formiamo con l’esperienza e il sensemaking rischiano di essere non del tutto accurati e precisi in quanto selezionati da ‘filtri mentali’ (ferme assunzioni e convinzioni) che ci creiamo e che ci impediscono di percepire appieno le vere dinamiche e connessioni della realtà. In questo senso i modelli mentali mostrano la loro debolezza. Una debolezza che peraltro può essere arginata con una giusta dose di umiltà che ci porti a rivedere la situazione in una maniera meno istintiva e più analitica. Infatti, anche Klein suggerisce nel prendere decisioni di partire sempre dall’aspetto intuitivo integrandolo poi con quello analitico (valutare consapevolmente varie opzioni, analisi di dati numerici) per mettere alla prova la consistenza dei modelli mentali che hanno generato la nostra decisione intuitiva ed eventualmente rettificarla.

 

 

La concezione ‘muscolare’ dell’intuito alimenta il vero apprendimento

Le dinamiche ‘muscolari’ dell’intuito (imparare ad arricchirsi dalle esperienze con la pratica e la verifica del sensemaking) ci portano all’esercizio del vero apprendimento: l’apprendimento che non è semplicemente nozionistico ma bensì si basa sul confronto diretto con gli aspetti pratici e concreti della realtà. Klein sottolinea “C’è un significativo rapporto di reciprocità fra intuito e apprendimento. L’intuito è sicuramente basato sull’apprendimento: sull’aprirsi a nuove esperienze cercando di comprenderle e assimilarle. L’apprendimento a sua volta è alimentato dall’intuito che ci può indirizzare ad approfondire aspetti o particolarità che altrimenti avremmo trascurato. Le nostre capacità di intuito ci possono infatti portare ad integrare modelli mentali che per loro natura sono modulari e che ci consentono quindi di dare un nuovo indirizzo all’eccessiva linearità del nostro apprendimento.” Messa così la cosa mi sembra un po’ intricata... “Gary, cosa intendi per eccessiva linearità del nostro apprendimento?” “Semplicemente che sempre più spesso per imparare veramente bisogna rendersi conto di dover disimparare, di dover uscire da rigidi schemi logici che spingono il nostro pensiero in un’unica direzione; l’intuito ci può appunto aiutare in questo soprattutto quando ci abituiamo a svilupparlo in modo appropriato”.

Continuo a essere perplesso sulla cosa e spingo Gary a ‘scendere’ su aspetti più pratici: “Facciamo un esempio”. “Bene, consideriamo il feedback che riceviamo sotto forma di imprevisto o problema con il quale ci dobbiamo confrontare. Le percezioni e la logica ci portano subito ad identificare quali siano i sintomi del problema, ma spesso le cause vere dello stesso sono più complesse e restano nascoste. Finché non usciamo dalla linearità di pensiero che ci porta a vedere solo i sintomi del problema, non riusciremo mai a risolverlo veramente e di conseguenza finiremo per non apprendere niente di nuovo. In questi casi l’intuito ci può fornire spunti chiave per individuare le cause vere del problema.”

Beh, non è semplicissimo ragionare in modo pratico con un ‘chief scientist’, devo ammetterlo; in ogni modo la sua considerazione mi fa ricordare vari Case Studies che sono presenti nel libro e che narrano appunto di problemi aziendali risolti in questo modo; fondamentalmente gli esperti spesso riescono a risolvere problemi proprio perché grazie al loro intuito arrivano alle cause vere del problema riuscendo a percepire qualcosa che magari altri ‘avevano sotto il naso’ ma che non riuscivano a vedere proprio per quella ‘linearità di apprendimento’ e conseguentemente, linearità di risoluzione problemi, di cui parla Gary.

 

 

Il concetto di intuito posto su un piano organizzativo: dare forza al potenziale umano e riconsiderare sotto nuova luce la vera valenza di procedure e tecnologie di gestione

L’intuito su un piano aziendale. Nel corso degli ultimi anni anche in Italia si è sempre più parlato di cambiamento, di aziende che devono innovare ed innovarsi, a mio parere l’intuito ha un ruolo chiave in tutto questo. Timidamente provo ad approfondire la cosa con Gary facendo riferimento alle pratiche quotidiane di un’azienda brasiliana che radica il successo su basi molto insolite... “Ricardo Semler è il visionario proprietario della Semco, un’azienda brasiliana che ha pratiche molto innovative nel modo in cui il potere decisionale è stato decentrato verso operai ed impiegati allo scopo di stimolare il pieno utilizzo dei loro talenti e delle loro passioni. Semler definisce l’intuito come ‘il carburante che permette alle persone in Semco di catturare ed utilizzare il meglio dalle loro esperienze e conoscenze’. Cosa ne pensi di questa affermazione e cosa ne pensi dell’importanza dell’utilizzo dell’intuito a qualsiasi livello organizzativo, come parte integrante della cultura aziendale?”.

Gary all’inizio resta un po’ meravigliato “Intuito a livello organizzativo. Riccardo, è un tema emergente su cui stai lavorando? Non ne ho ancora sentito parlare da nessun collega... Beh, devo dirti che da un lato penso che il concetto di intuito non significhi molto a livello organizzativo; dall’altro lato penso che la maggior parte delle aziende non abbiano un buon sistema per raggiungere decisioni e quindi lo facciano per intuito... In realtà, la considerazione che fai e che fa anche Semler ha sempre più senso man mano che ci penso... Si, sono concorde con l’affermazione di Semler ma voglio sviluppare meglio l’argomento. Dobbiamo fare chiarezza su cosa intendiamo per ‘conoscenza’. Spesso utilizziamo la parola ‘conoscenza’ a significare fatti, regole e altre forme esplicite del sapere. Queste sicuramente rappresentano una parte importante della conoscenza, ma trascurano l’aspetto fondamentale della conoscenza tacita, quella che non è espressa esplicitamente: capacità percettive, un senso di familiarità con alcune situazioni o problematiche o modelli mentali riferiti a come certe cose funzionano veramente. Spesso l’intuito è considerato come qualcosa di misterioso perché si rapporta proprio a questo tipo di conoscenza che, per definizione, non è facile da articolare. Non vorrei che nel riflettere sull’affermazione di Semler si possa pensare che per stimolare l’intuito a livello aziendale basti mettere assieme un sistema di gestione della conoscenza esplicita e dichiarata finendo per trascurare laconoscenza tacita che invece è così critica al successo”.

Faccio notare a Gary che in realtà molte aziende cercano sempre più di organizzarsi al meglio con procedure e sistemi tecnologici di gestione ultrasofisticati volti a rafforzare il più possibile il livello di conoscenza esplicita. Gary replica deciso “Si, ci sono varie ricerche e studi fatti su questa ‘cultura delle procedure’. Il fatto è che abbiamo sicuramente bisogno di alcune procedure come linee guida, ma nella pratica non sono mai sufficienti a gestire propriamente le situazioni, le procedure non riusciranno mai a sostituire l’efficacia della conoscenza tacita legata alla vera professionalità individuale, professionalità che proprio grazie all’intuito può confrontarsi con cambiamenti, variabili ed eventi che nemmeno le procedure stesse potevano prevedere. Di fatto le procedure spesso rappresentano un ostacolo appunto perché le situazioni cambiano e le aziende cambiano. In questo modo le procedure e tutti i sistemi volti a contenere e controllare la conoscenza finiscono per rallentare il progresso invece di facilitarlo.”

 

 

Esercitarsi con metodo per fare veramente leva sulle proprie potenzialità (a livello individuale e organizzativo)

Il ‘potenziale umano’: Klein nel suo libro offre spunti chiari non solo per comprenderlo ma anche per svilupparlo; la sua prospettiva sull’intuito rappresenta effettivamente un argomento di sostanza per farlo non solo concettualmente ma anche in senso di esercizio pratico. Tutto il lavoro che Gary ha sviluppato osservando ed interagendo con ‘contesti estremi’ è validissimo anche per quando riguarda gli ambiti strategici e operativi aziendali. Anzi, a mio parere, sono proprio i dinamici ambiti aziendali odierni che per natura non solo offrono ‘terreni fertili’ per l’applicazione di dette potenzialità, ma ne richiedono un pronto e costante impiego.

In questo senso la prospettiva di esercizio ‘muscolare’ del libro offre molti spunti concreti e attuabili. Spunti che se pratichiamo sia a livello individuale che organizzativo daranno ben presto luogo ad un positivo impatto sulle capacità individuali e organizzative di osservazione e decisione rispetto ai cambiamenti che sempre più fanno e faranno parte delle nostre vite dentro e fuori l’azienda. Noteremo anche che l’intuito diverrà un nostro utile strumento di decisione e azione che impareremo a utilizzare in modo bilanciato facilitando in noi un vero e rigenerante processo di apprendimento.”

http://www.bloom.it/rec_paterni2.htm

Queste riflessioni aiutano a comprendere come le moderne scienze cognitive vadano di pari passo con le scoperte in altri campi, INTEGRANDOLE: "Anche perchè allo stato attuale sembra difficile credere che problemi così complessi o la stessa creatività possano dipendere da un solo gene. Come per molte altre patologie, psichiatriche e non, si dovrebbe piuttosto parlare di gruppi di geni che predispongono alla malattia, ma sulla cui effettiva concretizzazione debbano intervenire anche altri fattori interni, personali o ambientali. E lo stesso si dovrebbe pensare per la creatività". Sintetizzando, non siamo predestinati, per cui è possibile che eventuali e poco accertabili predisposizioni, non coltivate, si risolvano in un nulla di fatto, e che persone ritenute, a buon diritto o meno, "biologicamente" poco inclini raggiungano con l'impegno grandi vette.

http://arteesalute.blogosfere.it/2009/07/un-legame-genetico-tra-creativita-e-psicosi.html

Il Prof. Renato Dulbecco, Premio Nobel per la medicina, nell'intervista rilasciata a Paolo Guzzanti ha affermato: "Non esiste una trasmissione di caratteri comportamentali (...). Non nego che possa anche passare qualche frammento genetico. Ma diversamente da quel che si crede, sono briciole". "Ma allora i figli, i padri...", chiede l'intervistatore. Il premio Nobel afferma che è l'ambiente a prendere il sopravvento, tant'è che se Bach avesse adottato un trovatello questi avrebbe potuto sviluppare "un istinto musicale superiore alla media"

http://www.anfaa.it/approfondimenti/adozione_una_prima_informazione/ambiente_ed_ereditarieta.html








 

 

 

 

 

 

094. Gossip e Potere


Un’ottima riflessione sul GOSSIP come STRUMENTO di POTERE

di MASSIMILIANO PANARARI (La Stampa, 9 luglio 2011)

“Lo sciacallaggio dei giornalisti-spia e degli investigatori privati intenti a rovistare nei telefonini delle vittime di varie vicende tragiche dell’ultimo decennio, per conto delle pubblicazioni di Rupert Murdoch, è l’episodio finale (ma non necessariamente il capolinea) di una storia di lunga data. La Gran Bretagna, madrepatria di tante cose si è inventata anche lo strapotere del gossip, nella sua valenza economica di industria dall’enorme fatturato, come nella sua dimensione (ebbene sì...) politica.

Dal tardo Rinascimento delle shakespeariane allegre comari di Windsor al Medioevo del domenicale «News of the World», la «perfida Albione» rimane sempre la scena del misfatto, il luogo dal quale il voyeurismo morboso e il tifone della calunnia (altro che venticello...) soffiano irresistibili. Proprio perché quello che un tempo si chiamava pettegolezzo, sia pure con caratteristiche differenti, nel più antico Stato liberaldemocratico d’Occidente (e, in passato, suo maggiore Impero), è divenuto un formidabile combinato disposto di fonte di profitto e di instrumentum regni.

Gli ingredienti, difatti, c’erano tutti, belli pronti e disposti in ordine. La Gran Bretagna è la nazione del Vecchio continente con la struttura sociale più piramidale (quasi castale, si potrebbe dire), dove l’estrazione si riconosce dall’accento, e dove i consumi culturali (o sottoculturali) connotano indelebilmente la provenienza di ceto (o di classe, come un tempo). Già sul finire dell’Ottocento, Lord Alfred Charles William Harmsworth, visconte di Northcliffe, il «Napoleone della stampa», si inventò, con il «Daily Mail» e il «Daily Mirror», il giornalismo popolare (nei temi come nel prezzo, all’epoca mezzo penny), antesignano dei supermarket tabloid. E quando la working class si ritrovò orfana dei piccoli privilegi legati all’essere l’aristocrazia operaia del reame che possedeva colonie in ogni parte del globo, la riduzione della razione di panem che le spettava venne compensata aumentando esponenzialmente la quota di circenses . Del resto, per titillare i sogni e incitare a guardare dal buco della serratura una monarchia risultava ideale, dal momento che, come si sa, i destini regali appassionano moltissimo anche il pubblico delle meno fiabesche repubbliche. Con l’avvento al potere della signora Thatcher, e la correlata sterzata neoliberista, che riduce l’intervento assistenziale pubblico e non risulta certo tenera con le fasce popolari, si incrementa ulteriormente il bisogno di incentivarne gli svaghi e le distrazioni rispetto alla scena pubblica di un Paese che fa da apripista alla finanziarizzazione dell’economia e alla deindustrializzazione. Sempre meno classe lavoratrice, e sempre più agglomerato atomizzato di precari e disoccupati, la «gente» anglosassone trova nella lettura dei tabloid e nella tv trash un rifugio parziale, il quale fa anche da solidissimo ancoraggio al populismo della nazione laboratorio della postdemocrazia. E il pettegolezzo, vista pure la sua utilità a fini di creazione del consenso elettorale, nell’età postmoderna si fa così direttamente gossipcrazia. Gli spin doctors, esperti di quella che l’anglista Roberto Bertinetti chiama la «manipolazione democratica», finiscono quindi per fare a gara nell’accreditarsi presso Murdoch, il potentissimo tycoon globale della stampa gossipara. Il magnate di origini australiane, populista convinto anche per ragioni di avversione personale nei confronti delle élites dell’antica madrepatria colonialista (da lui considerate spocchiose ed esangui), si erge allora, grazie alla potenza di fuoco dei suoi media (a partire dal vendutissimo Sun), ad attore diretto della politica inglese, appoggiando prima Tony Blair e poi David Cameron, con gli esiti che sono poi stati sotto gli occhi di tutti.

Proprio in queste ore, il figlio James ha annunciato la chiusura del domenicale da 3 milioni di copie nell’occhio del ciclone, il cui ex direttore, arrestato ieri per questa squallida faccenda, Andrew Coulson, ha rivestito il ruolo, guarda un po’, di portavoce del premier conservatore in carica, a conferma delle sliding doors che intercorrono tra la comunicazione politica e il giornalismo dei basic instincts nella postdemocratica Gran Bretagna dei nostri giorni. Dove i lettori di tabloid, la cui fiducia è stata tradita, come scriveva su queste colonne Bill Emmott, coincidono con altrettanti elettori, di fronte ai cui comportamenti di voto la teoria politica liberale interessata alla qualità della democrazia contemporanea non può non porsi, con la giusta dose di preoccupazione, alcuni quesiti.

Per quanto mi riguarda faccio rientrare a pieno titolo nel gossip anche la trattazione delle notizie relative a singoli casi di criminalità comune (si prenda visione delle tabelle della ricerca unipol riportate nel link sottostante), laddove al gusto per il truculento e il morboso, alla base di molti omicidi ad esempio di carattere passionale o sessuale, viene data una rilevanza, soprattutto in Italia,  assolutamente sproporzionata rispetto a quelli che sono i problemi più gravi, e come tali anche sentiti, della popolazione.

http://www.unipol.it/CSR/Documents/I%20Report%20-%20Osservatorio%20Europeo%20sulla%20Sicurezza%20PREMIO%20ALPI.pdf

Interessante notare che il gossip nelle sue varie accezioni e “funzioni” è stato anche oggetto di molti studi di stampo evoluzionista e antropologico. L’approccio funzionalista è esemplificato da Max Gluckman, secondo il quale il gossip è un processo culturalmente determinato e “sanzionato”, un fatto sociale, con regole di costume e importanti funzioni. Il pettegolezzo aiuta a mantenere l’unità del gruppo, la moralità e la storia, perché l’essenza del pettegolezzo è una costante in termini di valutazione comune e rappresenta la sanzione contro la violazione delle aspettative tradizionali. Il pettegolezzo permette inoltre di controllare le “cricche” rivali e i loro “emergenti”, laddove le differenze di opinione sono combattute dietro le quinte cosicchè all’esterno possa essere mantenuto un quadro di armonia.

L’approccio transazionalista, guidato da Robert Paine, sostiene che è più appropriato vedere nei pettegolezzi un mezzo attraverso cui gli individui manipolano le regole culturali:  i “gossipers” hanno interessi contrapposti e rivali (potere, amicizie, economia), che  cercano di proteggere. Il gossip consente all’ordine morale di essere piegato a scopo individuale. Si tratta di un comportamento individuale e non di gruppo, strumentale, nel senso che usa un genere di comunicazione informale, basato sulla manipolazione delle informazioni, per fini egoistici. In questo contesto a mio parere si potrebbero ben inserire le fallacie ad hominem, in rapporto “simbiotico” con il gossip.

La dicotomia tra i due autori di cui sopra viene in parte risolta attraverso le riflessioni di John Haviland (approccio simbolico-interazionista) il quale pone l’accento su altri aspetti: attraverso il parlare di tutti i giorni realtà culturali e relazioni sociali vengono continuamente rappresentati e discussi, attraverso il pettegolezzo gli individui interagiscono e “speculano” sulla natura della loro vita e del mondo. Quindi il gossip fornisce agli individui una sorta di mappa dell’ambiente sociale e informazioni aggiornate su eventi, abitanti e loro inclinazioni, sulla cui base si può agire. Il gossip è un processo meta-culturale, un’attività attraverso cui gli individui esaminano e discutono insieme le regole e le convenzioni con cui normalmente vivono. Inoltre, dal momento che le regole sono relative e ambigue nella loro applicazione, tale interpretazione non è mai definitiva o consensuale. Quindi il gossip in continazione scompone, valuta e ricostituisce il mondo.

Cito, tra i diversi, anche R .Dunbar, che nel contesto delle sue ricerche sull’evoluzione umana analizza il gossip  quale importante elemento di coesione sociale, volto non da ultimo a controllare i  “free riders”.

 

093. Esperienza e Logica


La seguente riflessione non può che dirsi provvisoria, e verrà continuamente aggiornata sia sulla base dei feedback  ricevuti sia sulla base delle nuove esperienze e letture al proposito. Ogni contributo sarà benvenuto.

Il tema è quello della progressiva trasformazione della mente umana in relazione al potenziamento e allo sviluppo delle nostre capacità logiche, laddove il fine dichiarato è sempre quello del raggiungimento della verità e quindi di una più razionale gestione dell’ambiente che ci circonda.

Ritengo che un’ottima chiave di lettura sia stata offerta da C. S. Peirce attraverso il concetto, come da lui esposto, di esperienza. E ad esemplificazione di esso ritengo di poter condurre un parallelo con i vari stadi della vita umana. Infatti, quelli che noi chiamiamo ragionamenti fallaci costituiscono in determinati stadi della nostra esistenza un vero kit di sopravvivenza. Consideriamo un bambino, il quale nel relazionarsi prenda a riferimento le istruzioni materne. Possiamo parlare di ipse dixit? Certamente no. Oppure un bimbo morso da un cane, il quale tenderà ad evitare nel futuro ogni cane. Generalizzazione indebita? Certamente no: il bimbo sta imparando a muoversi nel mondo attraverso gli strumenti cognitivi a sua disposizione qui ed ora.

Di particolare rilevanza sia nel contesto dello sviluppo dell’individuo che dell’organizzazione sociale sono le conoscenze “derivate da altri”. Io  parlo qui di stereotipo, che non ha necessariamente una connotazione negativa, perlomeno in questo ambito: sia nell'esperienza personale, sia nelle conoscenze relative ai più disparati campi, la varietà e l'ampiezza dell'esistenza rendono impossibile un contatto diretto con i fatti. A questo proposito la cultura (intesa prevalentemente come bagaglio tramandato di generazione in generazione) offre agli individui dei modelli o schemi interpretativi: gli stereotipi. Scrive W. Lippmann che tale atteggiamento  ci permette di risparmiare energie, in quanto il tentativo di vedere ogni realtà in dettaglio impedirebbe ogni forma di azione. In questo senso gli stereotipi sono uno strumento indispensabile al vivere. Il loro utilizzo permette un'immediata lettura dell'ambiente all'interno del quale gravitano i soggetti, e serve loro come guida nell'impostazione dei loro rapporti attraverso la creazione di precise categorizzazioni. Gli individui infatti inseriscono in queste griglie cognitive temi e soggetti, riuscendo così sia ad orientarsi nelle varie situazioni sia a facilitare l'indirizzo delle proprie relazioni.

Da questa analisi si abduce che la conoscenza dei fatti così come si presentano nella realtà risulta fortemente problematica. L'autore perviene ad una descrizione della conoscenza individuale assai interessante. Egli scrive che non vediamo quello che i nostri occhi non sono abiutati a considerare. Siamo colpiti, talvolta consapevolmente, più spesso senza saperlo, da quei fatti che si attagliano alla nostra filosofia, cioè ad una serie più o meno organizzata di immagini per descrivere il mondo che non si vede. Se gli individui giudicano prevalentemente in base a stereotipi, egli si chiede come sia possibile una conoscenza non superficiale dei fatti. Lippmann giunge ad affermare che la maggior parte delle conoscenze comuni sono soprattutto un'interpretazione codificata di fatti.

Stereotipo e pregiudizio, pur non costituendo lo stesso concetto sono quindi intimamente legati tra loro: si può dire forse che il primo costituisca il presupposto cognitivo del secondo. Personalmente, per uscire da questa impasse,  definisco pregiudizio lo stereotipo “immune” (immunizzazione cognitiva) al dubbio e/o all’esperienza. Il bimbo di cui sopra, crescendo ed “esperendo” integrerà o modificherà alcune delle istruzioni materne, che non costituiranno più l’unico punto di riferimento, e si immergerà nella problematica quali e quanti cani siano o possano diventare aggressivi. Ne conoscerà altri, imparerà a distinguere, non sarà più necessario evitarli tutti. La sua razionalità si diversifica per così dire, gli offre un più complesso sistema di “filtri” interpretativi del reale. E il reale gli offrirà di conseguenza un maggior numero di possibilità.

In maniera risolutiva possiamo ora far intervenire C. S. Peirce, secondo il quale usciamo dagli stereotipi, nell’accezione di cui sopra,  attraverso “urti” e sorprese”:

“(…) Senza dubbio l’esperienza è la nostra grande e unica maestra. Quando faccio questa affermazione, non intendo enunciare alcuna dottrina del tipo tabula rasa. Al contrario, vorrei introdurre e subito sostenere l’idea che non c’è mai stato nessun principio nella scienza, dal più grande fino al più piccolo, che non sia scaturito dal potere della mente umana di dare origine a idee vere. Questo parere, nonostante tutto quello che ha saputo realizzare, è così indebolito che, non appena le idee fluiscono dalla mente umana, le idee vere sono quasi sommerse dall’ondata di false nozioni; il compito dell’esperienza è fare precipitare e filtrare le idee false in modo graduale e attraverso una sorta di frazionamento, in modo da eliminarle e permettere che la verità scorra liberamente. Ma come si realizza precisamente quest’azione dell’esperienza? Si realizza attraverso una serie di sorprese. Stiamo aspettando un certo risultato, abbiamo già una certa idea in mente. Anticipiamo il risultato in modo più o meno certo. Il risultato arriva. A volte corrisponde alla nostra aspettativa e allora non abbiamo imparato niente di nuovo (…) Molto spesso però (…) il risultato arriva proprio quando lo aspettavamo, ma non è come lo immaginavamo: è una sorpresa (…) Ad ogni modo la gran parte delle scoperte è il risultato di una sperimentazione (...) Gli esperimenti veramente istruttivi sono quelli in cui questo carattere previsto non si presenta affatto  e nella maggioranza di questi casi non solo non c’è traccia del carattere che ci  saremmo aspettati, ma se ne presenta un altro che non avremmo nemmeno sognato di poter trovare (…) La sorpresa quindi è il carattere dominante dell’esperienza (…) L’Esperienza è quello stato della cognizione che il corso della vita in qualche sua parte ha imposto al riconoscimento dell’esperiente, cioè di colui che è sottoposto all’esperienza, e generalmente le condizioni di questa imposizione sono dovute almeno in parte all’azione del soggetto stesso che esperische (…)” – dalla raccolta “Esperienza e Percezione”, a cura di Maria Luisi, Edizioni ETS –

Significativa anche la definizione di  W. James:

“Experience is a process that continually gives us new material to digest. We handle this intellectually by the apperceiving mass of beliefs of which we find ourselves already possessed, assimilating, rejecting, or rearranging in different degrees” (Humanism and Truth, in “Mind”, 1904, 13, pp 457-475, p. 460)

James parla di “funzione coniugale” (marriage-function) della verità: la sua funzione è mediare il vecchio e il nuovo nell’esperienza:

Purely obiective truth, truth in whose establishment the function of giving human satisfaction in marrying previous parts of experience with newer parts played no role whatever, is nowwher to be found. The reasons why we call things true is the reason why they are true, for ‘to be true’ means only to perform this marriage-function” (W. James, Pragmatism, cit., p. 37).

Importante a mio avviso anche il contributo di Dewey, secondo il quale e usando le parole di G. Tuzet in un commento ad esso

“ (…)  l’esperienza non è mai esperienza di un oggetto da parte di un soggetto, ma interazione fra soggetto ed oggetto, fra organismo e ambiente, o meglio transazione. L’esperienza secondo Dewey non è mera registrazione di un dato (given), ma si estende alla previsione di esperienze future; non è limitata ad un hic et nunc, ma si svolge in una dimensione diacronica; non è esperienza dell’immediato, ma è sempre inferenziale. Vi è una relazione essenziale fra esperienza ed inferenza in virtù del carattere anticipatorio (anticipatory) dell’esperienza, giacchè la dimensione prospettiva dell’esperienza è più importante della sua dimensione retrospettiva. Dunque, esperienza è anche o soprattutto capacità di previsione, pur non essendo, in senso stretto, esperienza del futuro (…) Fare un’esperienza è imparare qualcosa, imparare qualcosa che può essere impiegato nella vita futura (…) In sintesi, secondo la formula divenuta celebre, per Dewey non è possibile una conoscenza spettatoriale, giacchè il conoscere è una forma dell’agire, e nel fare esperienza il soggetto interviene sul mondo. I nostri processi cognitivi si originano da problemi da risolvere e non da un astratto amore di conoscenza (….) James ricordava che più importante non è copiare il mondo, ma arricchirlo. L’esperienza non si sottrae a questa logica, giacchè si lega alle nostre facoltà immaginative, capaci di ipotizzare e innovare. Così come l’esperienza non deve essere pensata separatamente dalle nostre facoltà di immaginazione e creazione, l’immaginazione non deve essere intesa nei termini romantici della fantasia o dell’evasione: l’immaginazione partecipa del reale orientandone lo sviluppo, cercando di migliorarlo rispetto ai fini scelti. L’immaginazione crea nuove possibilità che l’esperienza mette alla prova” (Giovanni Tuzet, “Sul concetto di esperienza”).

Detto questo appare evidente come attraverso l’esperienza l’essere umano acquisti progressivamente un maggior grado di autonomia e soprattutto ulteriori strumenti volti ad indagare,  verificare e ri-creare l’ambiente circostante.

Riprendo a questo punto la nozione EAUI (si veda la presentazione del sito e il numero 24), il cui scopo principale a mio parere è quello di mettere in evidenza, nel contesto del dibattito pubblico contemporaneo, la tendenza ad avvalersi di ragionamenti fallaci, in quanto spesso in grado di farci raggiungere più rapidamente un “obiettivo” . Distinguo quindi tra “artefici” (consapevoli e veri depositari del concetto EAUI) e “fruitori” (inconsapevoli). Anche in questo caso è richiesta esperienza,  coincidente qui con lo studio delle principali teorie o fallacie argomentative. Come giustamente fa notare la filosofa italiana Franca d’Agostini in “Verità Avvelenata” fu nell’antica Grecia

“(…) che emerse il metodo per salvare le ragioni migliori: la competenza logica e argomentativa, di cui tutti i cittadini devono disporre, e che deve essere spinta fino al punto in cui l’abilità retorica incontra le sue ragioni filosofiche. Non è necessario essere filosofi per argomentare bene e riconoscere le fallacie e le ragioni migliori. Ma certamente per usare l’argomentazione in modo divergente rispetto alla prassi sofistica, oggi ben esercitata dagli spin doctors dei politici (o dai politici che sono spin doctors di se stessi) occorre una chiara consapevolezza orientata alla verità e alla vita associata, o più precisamente: occorre la coscienza antidogmatica della fragilità delle conoscenze, accanto alla precisa consapevolezza di ciò che fa di un argomento un buon argomento. Queste prerogative non sono esclusive né specifiche dei filosofi professionali (che ne mancano come ne manca chiunque di noi), e possono essere acquisite da tutti (…)”

Molto utile in questo contesto sarà l’analisi proposta da moltissimi autori riguardo al formarsi delle credenze. Da parte mia non posso non consigliare in primis  C.S. Peirce, “Il Fissarsi della Credenza” (tenacia, autorità, metafisica, scienza), mirabile per precisione e chiarezza espressiva.

 Un'integrazione al Nr. 102 del Menu, con un ottimo contributo tratto dal sito Filosofi Precari.

 

 

092. Normale e Diffuso


L’ultimo ieri a Padova, un giovane commerciante in fase di separazione a cui era stato concesso di vedere il suo bambino solo il sabato o la domenica. Accanto al suo cadavere un biglietto in cui descrive la propria disperazione e la rabbia per non poter vedere suo figlio come vorrebbe. In Italia quasi cento papà separati ogni anno si suicidano (fonte FENBI)

Molte sono le notizie di questo genere, relative a gesti estremi che si consumano nell’indifferenza generale: padri madri di famiglia traditi, anziani abbandonati. In genere, prima, hanno chiesto in vario modo disperatamente aiuto.

Talora accade che  tali individui, manifestanti il proprio dolore, la propria tragedia individuale, vengano confrontati con risposte del tipo “ma è normale!” “sono cose normali”, laddove l’intento conscio o inconscio è quello di ridicolizzare il dolore o negarne il fondamento. Eppure normale non è, e aggiungo che la moralità o l’immoralità possono  dipendere anche da un corretto uso del linguaggio, oltre che dall’educazione ricevuta  e dalla Conoscenza.

Normale è tutto ciò che è riferito a valori, elementi, strumenti che si assumono come modelli di riferimento, in quanto facenti  parte del bagaglio culturale ed etico di un determinato popolo. Diffuso designa invece la mera espansione di un determinato fenomeno, a prescincere dal giudizio etico, che può quindi essere sia negativo che positivo.

I tradimenti sono certamente diffusi, non sono normali. Mariti o mogli che abbandonano la famiglia e i figli alla ricerca di effimere passioni, o non abbandonandola e mentendo gettano nella disperazione terzi presso i quali hanno cercato tali effimere passioni, sono forse diffusi, non sono normali. I portatori non sani di schizofrenie sessuali che imperversano sul web, scambiando la  propria libertà sessuale o la libertà in generale…con la negazione dell’essere umano, sono forse diffusi, non sono normali.

Paradossalmente la tendenza è  quella di “psicanalizzare” le vittime. Certamente queste necessitano di supporti psicologici (solidarietà umana in primis) al fine di rinforzare le proprie autodifese e superare il dramma. Certo è che prima ancora andrebbero psicanalizzati i colpevoli, soprattutto al fine di renderli idonei alla vita civile; stranamente nessuno pensa a questo. Nessun ricovero per costoro….nonostante minino le fondamenta di secoli di Conoscenza. Seppur agnostica  mi è rimasta impressa la frase di un vescovo, il quale affermava che un prete non è soltanto uno psicologo. Questo dovrebbe valere anche per noi, nel senso che oltre alla chiara comprensione di meccanismi e dinamiche dovremmo sempre esprimere chiari giudizi morali, sulla base dei dati a nostra disposizione, per non cadere nella trappola del relativismo etico o di un falso senso di relativismo (detto da una relativista convinta), giustificando tutto ciò che contribuisce al deterioramento della nostra civilità.

Il pericolo, quello di considerare “normale” e quindi  “morale” tutto ciò che non sia previsto dal Codice Penale. Esiste il peccato e il reato, ma non smettiamo per cortesia di chiamare peccato il peccato. Ed esigere il risarcimento, o espiazione. In quanto non è vero che “quando è fatta è fatta”. In queste banali locuzioni l’oblio dei capisaldi del vivere civile.

Parafrasando Oriana Fallaci, incredibile come il dolore dell’anima non venga capito: se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, e chiamano la polizia, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce di aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche o dicono che  sei pazzo. Eppure il dolore dell’anima è molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite assai più profonde di quelle provocate da un pallottola; chi l’ha danneggiata o l’ha semplicemente ignorata, la tua anima dolente,  è forse più colpevole di chi ti ha sparato alla cieca.

Non è normale. E Socrate non era uno sciocco, nel partire sempre dalle definizioni.

 

 

 

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