382. "Il pensiero eterosessuale", intervista a F. Zappino su M. Wittig e sull'antispecismo

Grazie infinite a Eliana Pieralice per la trascrizione dell’intervista (1)

 

SILVIA MOLE’ DELL’ASSOCIAZIONE ANTISPECISTA PARTE IN CAUSA INTERVISTA

FEDERICO ZAPPINO, FILOSOFO, SCRITTORE E TRADUTTORE SU MONIQUE WITTIG E L’ANTISPECISMO

CONDUCE CRISTIANA PUGLIESE DI RADIO RADICALE      8 SETTEMBRE 2020 

 

Cristiana – Torniamo con le nostre conversazioni con Silvia Molè, che i nostri ascoltatori ben conoscono, membro dell’associazione antispecista radicale Parte In Causa e naturalmente parliamo di antispecismo ma non solo, oggi abbiamo come ospite Federico Zappino, io dico solo che è un filosofo, scrittore, traduttore ma anche autore, oggi parleremo proprio di un suo libro dedicato a Monique Wittig e il suo antispecismo.  Spero di averlo pronunciato bene, saluto entrambi: benvenuti a Radio Radicale e passo la parola alla nostra Silvia Molè

Silvia -  Un saluto a tutte e a tutti innanzitutto… sono molto, molto felice ed onorata di avere oggi con noi Federico Zappino che seguo personalmente da molto, molto tempo, ho diverse sue pubblicazioni.  Federico da un decennio contribuisce alla diffusione del pensiero femminista e queer in Italia.  Ha tradotto opere di EveKosofsky Sedwick (Epistemology of the Closet), Judith Butler (La vita psichica del potere, Fare e disfare il genere, L’alleanza dei corpi, La forza della non violenza) e, da ultimo, di Monique Wittig “Il pensiero eterosessuale”, edizioni Ombre Corte 2019.  Tra le sue opere più recenti ricordo il volume collettaneo “Il genere tra neoliberismo e  neofondamentalismo”  (ombre corte 2016) e il saggio “Comunismo Queer – note per una sovversione dell’eterosessualità” (Meltemi 2019), e di prossima pubblicazione la sua opera dal titolo “Il modo di produzione eterosessuale”.

Ecco, spero di averti presentato in maniera adeguata

Federico – Dire di sì e vi ringrazio!  Buonasera

Silvia – Allora cominciamo subito col chiederti chi era Monique Wittig, una femminista, tra l’altro, che a me sta molto molto a cuore e che cito in continuazione. E vorrei chiederti anche come mai hai deciso di tradurre questa sua fondamentale raccolta che fu pubblicata nel 1992 come silloge, mentre i testi furono scritti tra il 1976 e il 1990

Federico – Credo che il modo migliore per definire la Wittig sia quello di usare le sue parole: Monique Wittig si definiva una lesbica materialista; era fondatrice del movimento di liberazione delle donne in Francia, che è la cosa più importante che bisogna ricordare di lei; era profondamente femminista ed era materialista anche. E la prospettiva lesbica di Wittig riteneva proprio prioritario ampliare una critica femminista del patriarcato con una critica dell’eterosessualità come regime politico, cioè intesa come pre-condizione del patriarcato stesso.

Per Wittig la lotta contro il regime politico eterosessuale è una lotta che prevede un’alleanza tra tutti coloro che derivano oppressione da questo regime politico,  dunque le donne innanzitutto ma anche le lesbiche, i gay e molte altre soggettività di cui Wittig non parla per ragioni di sensibilità storica ma che pure possiamo rinvenire tra le righe delle sue parole.  Questo senza dubbio è uno dei motivi che mi ha indotto a tradurre quest’opera, appunto che tu introducevi così bene, dopo trent’anni dalla sua pubblicazione nonostante alcuni saggi di questa silloge fossero stati già tradotti anche in italiano e di cui ho reso conto nella mia traduzione.  Questo mi sembra sicuramente uno dei motivi più importanti 

Silvia – Bene.  Senti puoi esporre per il nostro pubblico, per quanto difficile, i punti cardine della sua teoria sull’eterosessualità come regime politico?  So anche che proprio a partire da Wittig tu sviluppi la tua teoria del modo di riproduzione eterosessuale

Federico – Sì, indubbiamente, come dire… Wittig parte dall’idea per cui a determinare l’oppressione delle donne, provo chiaramente a sintetizzare la sua posizione che è molto articolata, però appunto Wittig parte dall’idea per cui a determinare l’oppressione delle donne non è la loro anatomia, non sono presunte caratteristiche né fisiche, né morali, come la debolezza o la passività, ma a determinare l’oppressione delle donne sono gli uomini, è la classe politica antagonista.  E quest’oppressione secondo Wittig produce in senso proprio la differenza sessuale, quindi ribalta interamente il discorso femminista che – come dire – col quale si confronta negli anni in cui scrive questi saggi.  Per Wittig non esiste di conseguenza alcun sesso, ma esiste un sesso oppresso e un sesso oppressore, quindi la categoria di sesso, appunto il maschile o il femminile, è essa stessa un prodotto.  Quindi la differenza sessuale per Wittig è un prodotto ed è “il marchio”, lei lo definisce il “marchio dell’oppressore”.  Wittig dice appunto la categoria di sesso è la categoria che fonda la società in quanto eterosessuale, in quanto tale non concerne l’esistenza individuale, bensì la relazione.  La categoria di sesso presiede infattinaturalmente, dice Wittig, alla relazione che sta alla base della società eterosessuale, quindi la relazione è fondamentale della società in cui viviamo, della società nostra.  Quindi attraverso questa categoria metà della popolazione, dice Wittig, viene eterosessualizzata e sottomessa ad un’economia eterosessuale.  La categoria di sesso, dice ancora Wittig, è il prodotto di una società eterosessuale che impone alle donne il rigido obbligo della riproduzione della specie; inoltre, la categoria di sesso è il prodotto di una società eterosessuale nell’ambito della quale gli uomini si appropriano per sé stessi del lavoro riproduttivo e produttivo delle donne e dei loro corpi; e infine la categoria di sesso è il prodotto di una società eterosessuale che relega metà della popolazione ad un’esistenza, dice Wittig, meramente sessuale.  Proprio perché l’approccio di Wittig è materialista auspica un’abolizione delle categorie delle classi di sesso e questo, dice Wittig, può essere realizzato solo con la distruzione dell’eterosessualità come sistema sociale o per meglio dire come un contratto sociale di cui appunto dice Wittig che si fonda sull’oppressione delle donne da parte degli uomini ma che produce anche la dottrina della differenza tra i sessi per giustificare quest’oppressione.  In quest’affermazione di Wittig io ravviso qualcosa di molto importante perché appunto lei coglie il carattere produttivo di questa oppressione, che non è soltanto circoscritta alle donne, benché lo sia in maniera determinante, ma è reificatrice della produzione dell’oppressione anche di altre soggettività.  D'altronde è proprio dalla produzione del femminile che si origina la produzione dell’altro, del diverso, con cui sono stati via via definiti l’omosessuale, la persona non conforme al genere, molte altre soggettività.  Wittig dice questa cosa: la società eterosessuale non potrebbe funzionare senza questa alterità, senza questa differenza, senza questa diversità.  E non potrebbe farlo sotto nessun punto di vista quindi per Wittig, per tornare anche alla domanda sui motivi per i quali ho tradotto quest’opera, l’oppressione eterosessuale è la pietra angolare per tutte le relazioni gerarchiche e di dominio.

Silvia – Chiarissimo, grazie!  Senti Federico tu sei anche antispecista e anche in questo ambito assistiamo alla naturalizzazione dell’oppressione, il conetto di specie, forse, non è del tutto neutro.  Ecco io vorrei chiederti: vi sono legami con le altre lotte?  Tra l’altro a pag.25 la stessa Wittig afferma “che la creazione delle donne come categoria di sesso è simile all’allevamento degli animali”.

Federico – Sì, fai bene a menzionare questo passo così preciso di Wittig da cui si evince proprio questo carattere produttivo dell’oppressione, e anche dell’idea… ora io non so se Wittig annoverasse anche l’oppressione degli animali sotto la matrice produttiva dell’oppressione eterosessuale oppure se fosse esattamente il contrario, in ogni caso nel libro “Comunismo queer”, che prima citavi, se c’è un ambito al quale estendo il concetto di modo di produzione eterosessuale, per il quale Wittig mi è stata così d’aiuto nel formularlo, è proprio l’antispecismo: così come il modo di produzione eterosessuale produce la differenza sessuale, così la specie è essa stessa il prodotto di un rapporto di forza, cioè un modo di produzione antropocentrico chiaramente.  Ciò non significa che non esistano delle differenze tra gli animali, ma significa sicuramente che tutto ciò che conta come differenza di specie e tra le specie l’ha stabilito l’animale umano, e costruire una differenza significa esercitare una delle formule più subdole di dominio perché fa passare per naturale una forma di dominio che invece è sociale.  In altre parole costruire una differenza significa costruire sempre una diseguaglianza, Wittig in questo senso ci torna ancora utile perché dice “La differenza è il modo in cui i padroni definiscono una situazione storica di dominio”.  Da questa prospettiva io reputo sicuramente che l’alleanza tra l’antispecismo e queer dalla mia prospettiva possa essere assolutamente desiderabile perché entrambe per come le percepisco dalla mia prospettiva situata sono lotte che mirano a sovvertire non soltanto diseguaglianze, ma i presupposti che rendono possibili queste diseguaglianze.  Anche se la sfida più grande per noi, sia gli antispecisti che le queer, consiste nella costruzione di nuovi schemi di intellegibilità dell’eguaglianza, la quale è insidiata da tante cose, ad esempio dallo spettro della parità, dall’uguaglianza formale, dalle forme illusorie di inclusione e questo valetanto per le minoranze di genere, sessuali, vale tanto per le donne e vale anche per gli animali, per i quali non mancano affatto proclamazioni, diciamo così, “ufficiali” di diritti benché la condizione degli animali resti pressoché ovunque di dominio totale.  Quindi l’unica eguaglianza desiderabile, mi viene da dire, è quella che proviene dalla sovversione dei presupposti della diseguaglianza, anche se la forma che quest’eguaglianza può assumere è tutta da immaginare.

Silvia – Ottimo grazie!  Ecco io avrei concluso passo la parola a Cristiana

Cristiana – Allora, solo una rapidissima domanda, una curiosità: tu prima hai detto Federico che la Wittig diceva che l’oppressione delle donne nasce dagli uomini, io volevo sapere se lei ha mai parlato di religione e in che termini

Federico – Sì, chiaramente è ovvio che non si può prescindere dal patriarcato inteso in quel senso molto stretto, dal patriarcato ecclesiastico.  In realtà in Wittig è molto interessante che vedeva  nelle suore degli esempi di resistenza all’eterosessualità, al contratto sociale eterosessuale, la suora è una fuggitiva dalla propria classe, fuggitiva dal proprio destino di moglie e di madre all’interno di una cornice rigidamente eterosessuale, quindi mi sembra interessante che nelle sue opera ci sia questo richiamo alle suore che per molte persone sembra quasi spiazzante mentre invece ci indica, oltre ad illuminare storicamente la condizione delle suore intese in senso proprio come delle lesbiche fuggitive, però anche, appunto, illumina questo gesto di resistenza.  Poi chiaramente parliamo di testi che affondano le loro radici addietro nel tempo, parliamo di testi degli anni ’70 e anni ’80.  Ad oggi non sono sicuro però che la situazione sia così tanto cambiata, credo che ci sono ancora molti spazi nel mondo, anche nel mondo vicino a noi, in cui l’ingiunzione eterosessuale è molto forte quindi forse diventare suora è ancora un modo per resistere a questa cosa, non lo so lo lascio come interrogativo

Cristiana – Bene, continueremo a parlarne e io sarò lieta, e sono sicura che Silvia pensa la stessa cosa, se sarai ancora nostro ospite 

Federico – Ma molto volentieri!

Cristian – Ringraziamo Federico Zappino e naturalmente ringrazio la nostra Silvia Molè

Silvia – Grazie!  Un saluto, grazie Federico

 

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https://www.radioradicale.it/scheda/615215/monique-wittig-e-lantispecismo-intervista-a-federico-zappino

 

 

381. Eclisse della democrazia e Restiamo Animali: Lorenzo Guadagnucci

Grazie a Eliana Pieralice per la trascrizione dell'intervista da Radio Radicale del 28 marzo 2020
 
Cristiana Pugiese, redattrice di Radio Radicale

Silvia Molè dell’associazione radicale antispecista “Parte in causa”

Intervista a  Lorenzo Guadagnucci

Autore di “Eclisse della democrazia” (ed. Feltrinelli) e “Restiamo animali” (Ed. Terre di mezzo)

28 marzo 2020

 

CRISTIANA - Torniamo sui temi dell’antispecismo, oggi parliamo di 2 libri, uno  è Eclisse della democrazia, edito dalla Feltrinelli di Lorenzo Guadagnucci e Vittorio Agnoletto e Restiamo animali di Lorenzo Guadagnucci,

Come ospite abbiamo proprio Lorenzo Guadagnucci e io saluto lui e come sempre la nostra Silvia Molè dell’Associazione antispecista Parte in causa… Benvenuti!

SILVIA – Allora oggi sono veramente felicissima di avere con noi Lorenzo Guadagnucci che molti e molte già conosceranno, giornalista e blogger italiano, durante il G8 di Genova nel 2001 si trovò all’interno della scuola Armando Diaz al momento dell’irruzione della polizia dove fu picchiato e poi anche trattenuto in stato di arresto, sulla vicenda ha scritto appunto 2 libri:  “Noi della Diaz” e “Eclisse della Democrazia”

Ecco Lorenzo, io comincerei proprio con Eclisse della democrazia,  Il capitolo a pag. 37 si intitola “Un altro mondo sembrava possibile, lo striscione arancione  _Voi Kioto, noi 6 miliardi – è un pezzo di storia della globalizzazione, era il luglio 2001”, quali erano le idee alla base di questo striscione? Cosa simboleggiava? E cosa si contestava, soprattutto cosa si voleva costruire?  E inoltre mi interesserebbe sapere cosa si intende quando si parla di criminalizzazione preventiva?

LORENZO – Si… per tutte queste domande bisognerebbe scrivere un libro … cerco di sintetizzare al massimo diciamo che quel movimento che nel luglio 2001 manifestò a Genova durante la riunione del G8, cioè degli 8 leader politici dei paesi più industrializzati del mondo,  un vertice che all’epoca aveva un forte connotato simbolico comunicativo, era espressione di un movimento globale ormai già esistente nel mondo e che si era già riunito a Porto Alegre nel gennaio precedente e che sosteneva la prima forte, vera critica alla globalizzazione neoliberale.  Direi anzi che è il movimento che l’ha fatta capire, l’ha comunicata al mondo ed è in quell’epoca, fra il ’99 e il 2001 che abbiamo iniziato a conoscere istituzioni e realtà che oggi diamo per scontate ma che all’epoca erano veramente ignote e assenti dal dibattito pubblico.   Parlo del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della WTO  - organizzazione mondiale del commercio, si era cominciato a dire che il vero potere non risiedeva più nei governi nazionali ma in dinamiche sovranazionali, in istituzioni sovranazionali non democratiche che gestivano questi processi di globalizzazione che abbiamo imparato in quei giorni a chiamare neoliberale.  Ecco, quel movimento intendeva smascherare questa nuova situazione, questa nuova distribuzione di potere e soprattutto intendeva contestare quel modello di economia, quel modello di sviluppo, diciamo pure, che quell’economia che quel potere sosteneva e sta ancora dominando il pianeta , quindi quel movimento aveva sostanzialmente un carattere sociale, di critica dal basso e stava indicando i problemi più critici per l’umanità intera, cioè quei processi di finanziarizzazione dell’economia, l’uso dello strumento del debito pubblico come forma di governo da parte della finanza sui poteri politici nazionali;  indicava questa enorme contraddizione fra la teoria e la pratica di una liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati, quindi una libertà di commercio di beni e di spostamenti dei capitali finanziari alla quale non corrispondeva una libertà di movimento per le persone, tema che poi è esploso con i migranti;  indicava la possibile, probabile esplosione di una bolla finanziaria, cosa che poi è avvenuta nel 2007-2008.   Da parte sua proponeva una sorta di approccio che tenesse invece conto delle realtà locali, dei bisogni, delle agricolture di sostentamento che venivano in quella fase spazzate via dall’agricoltura industriale delle monoculture e dal commercio internazionale. 

In qualche modo era una critica che cercava di trovare una via d’uscita da questi processi così travolgenti rispetto ai quali addirittura nemmeno i potero politici sembravano aver la possibilità di contrapporre qualcosa.  Ecco, quel movimento con quelle sue idee, quella proposte, anche quelle sue pratiche, perché c’era anche in questo movimento una parte molto concreta di movimenti sociali, sindacali, di economia alternativa, già praticavano sostanzialmente un modello diverso da quello della globalizzazione neoliberale, tutti insieme si ritrovarono a Genova per la prima grande manifestazione in Europa.  Ce ne sono state altre, meno importanti, meno grandi, c’era stata all’inizio – fine ’99 -  la rivolta di Seattle cosiddetta, quando fu individuato in una riunione del WTR – Organizzazione mondiale per il commercio – un momento non trasparente, non democratico in cui si decidevano le sorti di tutti.  Quindi c’era una parte critica, una parte propositiva che si esprimeva soprattutto con i forum sociali mondiali, Porto Alegre nel 2001 ci  fu il primo, poi un altro nel 2002 e poi così negli anni successivi.  In Europa ce ne sarebbero stati altri ancora, uno a Firenze nel 2002.

Parte critica e parte propositiva con lo slogan – UN ALTRO  MONDO E’ POSSIBILE – la criminalizzazione preventiva a mio avviso è consistita nel fatto che questo movimento e la sua proposta è stata in realtà affrontata non con gli strumenti del dialogo, della  politica, del confronto, come si dovrebbe in una situazione di democrazia, è stata affrontata invece con la forza .  Era un movimento che preoccupava perché aveva credito crescente in aree politiche eterogenee,  si andava veramente dalla sinistra classica al mondo ambientalista, dal mondo cattolico al mondo delle ONG del commercio equo e solidale e così via, quindi aveva una forza di partecipazione enorme, fu affrontato, un po' ovunque in maniera più vistosa, anche per importanza e la mole della manifestazione a Genova con le forze di polizia, con la criminalizzazione dicendo – Attenzione questo è um movimento violento che dobbiamo fronteggiare con le forze dell’ordine –

Criminalizzo il movimento, dico che ha un’indole violenta ed è il modo per non affrontare le sue idee e le sue proposte.  E’ stata una criminalizzazione che ha impedito di ragionare su problematiche poi abbiamo capito col tempo essere cruciali per la nostra vita, per la nostra società

SILVIA – Il libro percorre tutta una serie di connivenze, ad ogni livello, nel confrontarsi con le violenze verificatesi, ovvero per impedire la ricerca delle responsabilità, per queste violenze istituzionali.  Ecco, a tuo parere, permane oggi un problema a livello sistemico? E quali possono essere oggi le forme di resistenza?

LORENZO – Bè la risposta è complessa, diciamo che di fronte a queste violenze così clamorose oggi possiamo sicuramente parlare di un uso sistemico della tortura da parte delle forze dell’ordine, perché questo è stato accertato in processi che sono avvenuti in Italia, soprattutto nei ricorsi che abbiamo fatto e io stesso ero uno dei partecipanti a questi ricorsi alla Corte Europea dei Diritti Umani, e in queste sentenze a Strasburgo che hanno condannato l’Italia si dice esplicitamente che alla Diaz… agli ostaggi alla scuola Diaz e i maltrattamenti e le violenze fisiche e psicologiche sui fermati nella caserma di Bolzaneto furono dei casi di tortura.   Ecco, rispetto a queste vicende nel momento in cui si è cercata verità e giustizia anche con lo strumento giudiziario è stato opposto un muro di omertà - che è la parola che fanno usato i magistrati che hanno condotto l’inchiesta Diaz -  da parte del potere politico ma da parte soprattutto delle forze dell’ordine medesime, dei loro vertici che non hanno collaborato, anzi hanno ostacolato il corso della giustizia come scriverà  poi nel 2015 la Corte Europea per i Diritti Umani.

C’è stato un rifiuto delle proprie responsabilità, un rifiuto di ammettere i propri errori e addirittura un ostacolo alla giustizia.    La Corte Europea, bisognerebbe leggerla quella sentenza, dice fra le altre cose che in Italia è stato possibile ostacolare impunemente il corso della giustizia, quindi non solo l’ostacolo, che già sarebbe una cosa grave, ma il fatto che una volta che si è stabilito che si è posto questo ostacolo non si è punito chi lo ha opposto, ed erano vertici istituzionali.   Tutto questo comunque con la complicità  della politica, perché questo bisogna anche dire: se i funzionari chiamati in causa, altissimi dirigenti della polizia non sono stati né sospesi durante le inchieste, né rimossi, cioè licenziati, dopo le sentenze definitive come prescrive la Corte Europea per i Diritti Umani è perchè evidentemente i poteri politici che via via si sono avvicendati hanno permesso questo, hanno accettato che le forze di polizia non facessero un’operazione di trasparenza, di responsabilizzazione che era necessaria.  Questo purtroppo  è avvenuto in maniera bi, e forse possiamo ormai dire tri-partisan, tutte le forze politiche che conosciamo sono state complici di questa cosa.

Per cui ne usciamo, dal punto di vista istituzionale con le ossa rotte, si salvano da questo disastro quei magistrati che, direi, eroicamente, spesso anche in contrapposizione con il proprio corpo di appartenenza, con i “desiderata” addirittura che trapelavano dal mondo giudiziario, hanno condotto le inchieste, se pur parziali perché evidentemente è stato possibile chiamare in causa solo una parte dei responsabili.  E quindi credo che noi siamo ancora in questa situazione di non trasparenza, di rifiuto da parte dell’autorità delle forze di polizia di assumersi le  loro responsabilità quando avvengono dei fatti gravi nelle caserme, durante gli arresti…  purtroppo è qualcosa che abbiamo visto anche dopo, basta pensare al caso Cucchi, ai falsi che sono stati ormai accertati di sviamenti, di tentativi di occultare le prove, che sono la stessa che avevamo visto nel caso Diaz a Genova.  Quindi noi siamo ancora in quella condizione e quello che possiamo fare è batterci per una critica sempre più ferrata di questa tendenza, di questa capacità pur capendo che il ceto politico medio è un po' vile e si fatica in Italia ancor oggi a parlare di questi argomenti, delle libertà delle forze dell’ordine, quasi un tabù fino a pochissimo tempo fa.

SILVIA – Ottimo… senti il capitolo I dell’”Eclisse della democrazia” si chiama “Una macelleria italiana”, insomma per me è impossibile non fare un salto al tuo libro “Restiamo animali – vivere vegan è una questione di giustizia” ecco: quali sono i nessi tra oppressioni di animali umani e non umani? Non a caso un paragrafo del tuo libro è intitolato “Dall’antirazzismo al vegan”, si tratta quindi di scelte personali oppure possiamo collocare il tutto in una cornice politica, in una dimensione di potere, in termini di rami sacrificali, di rapporti di potere? O magari anche se c’è qualche nesso con l’ecocidio in corso che stiamo vedendo tutti

LORENZO – Io francamente penso il nesso sia fortissimo.  Ti rispondo partendo dall’altro libro, da “Restiamo animali” ,  all’inizio ho raccontato proprio l’esperienza che ho vissuto alla scuola Diaz perché in qualche modo illuminante anche del percorso personale che ho fatto e soprattutto del ragionamento, che mi sembra importante proporre, ho raccontato questa mia esperienza dicendo che dopo aver subìto   questo pestaggio, terribile essere picchiato in quel modo, così selvaggiamente da persone tra l’altro che appartengono ad un’istituzione che dovrebbe essere democratica, un’esperienza spaventosa dal punto di vista personale , ma quello che mi ha portato a fare una riflessione e ad andare poi nella direzione di quella che è la questione animale è che quando io risposi per la prima volta alla domanda che mi venne fatta subito dopo essere stato scarcerato, nel luglio del 2001, ad una collega che mi chiese di restituirgli con un’immagine quello che era successo all’interno della scuola Diaz io risposi: - Hai presente una tonnara?- cioè non mi venne in mente di citarle uno dei numerosi purtroppo episodi di violenza istituzionale che si possono subire; non le citai la tortura dell’Argentina, un Garage Olimpo, una qualche camera di tortura del fascismo ma citai una tonnara perché effettivamente tutti noi avevamo subito un’esperienza come vivono i tonni dentro alle tonnare e la riflessione che poi ho fatto nel portare avanti questo ragionamento sulla metafora animale perché in realtà io ero il tonno, tutti noi dentro la scuola Diaz eravamo come i tonni dentro le tonnare, eravamo dei soggetti sacrificabili, eravamo delle non persone, eravamo appunto degli animali per come vengono considerati gli animali nella nostra società: cioè dei corpi a disposizione di chi ha il piacere di colpirli, di ucciderli, di trattarli come crede meglio fare.  Questo è un ragionamento, a mio avviso, al di là del voler comprendere tante dinamiche all’interno della società umana,  la metafora animale viene usata dal potere per de-umanizzare gruppi umani, basta pensare al nazismo a cosa ha fatto con gli ebrei equiparandoli ai topi, ma anche il genocidio in Ruanda è stato preceduto da una campagna forsennata radiofonica sui tootsie da equiparare a degli scarafaggi, a degli esseri ripugnanti , i casi sono infiniti pensiamo alle metafore che si usano per i campi rom ancora oggi e ancora qui nel nostro paese.  Questo permette in sostanza di spostare il confine fra i degni di tutela, fra i degni di rispetto, fra i “noi” e i “loro” e questa linea di separazione che normalmente divide l’umano dall’animale in realtà è mobile, si sposta ad escludere gruppi umani quando le condizioni di potere lo consentono, Questo è un insegnamento enorme perché ci fa capire quanto sia centrale in tutte le dinamiche che viviamo come individui e come gruppi associati, la dimensione del potere che incredibilmente viene trascurato ad esempio molto frequentemente nel mondo animalista che si batte per la liberazione animale ma tende un po' a dimenticare questo passaggio essenziale per immaginare un mondo diverso, ci adeguiamo a ragionare attorno alle forme del dominio, attorno a che cos’è veramente l’idea della liberazione dei corpi, degli individui, di riconoscere a tutti gli individui viventi una dignità.  Noi oggi stiamo vivendo chiusi in casa come siamo, una dimensione di questa incapacità di leggere le cose del mondo in questa chiave, anche questa epidemia, come le principali precedenti nascono da un’invasione di campo, da una distruzione degli habitat degli altri animali, da una mancanza di considerazione che siamo esseri viventi fra esseri viventi, c’è una parte di umanità, perché anche qui le responsabilità vanno distinte, bisogna fare un ragionamento sui poteri non tutta l’umanità ha la stessa responsabilità, non tutti hanno potere uguali sulle ingiustizie sociali, su posizioni di potere geograficamente, però diciamo che questa aggressione all’elemento naturale, agli altri animali ha portato a questa reazione e il virus infatti è passato da una specie selvatica ad una specie umana, è quasi una reazione, un grido di dolore una vendetta, non lo so si può leggere in vari modi;  però io credo che abbia molto a che fare con una perdita del senso di misura da parte dei poteri più forti che ci sono oggi nella nostra società  e che tendono ad essere incontrollabili.   Quindi a mio avviso passare da una condizione di considerarci in quanto umani distinti dal resto degli esseri viventi a una condizione diversa in cui ci sentiamo più al fianco, più affratellati con gli altri animali e le piante sia passaggio essenziale anche per uscire dal disastro nel quale siamo precipitati.

SILVIA – Grazie, chiarissimo! Io avrei finito non so se Cristiana vuole aggiungere qualcosa…

CRISTIANA – Volevo solo fare una domanda: di quelle istanze di cui parlavi all’inizio ti volevo chiedere secondo te cosa è rimasto nei movimenti politici attuali?

LORENZO – Nei movimenti politici attuali se riusciamo a dare uno sguardo allargato che vada anche oltre il nostro paese è rimasta l’idea che deve esserci un rifiuto di massa del modello neoliberale e di quella che è la sua premessa e cioè l’ idea di dover deregolamentare i flussi, le regole economiche, per favorire la massimizzazione della produzione di merci e sviluppo.  Ecco quest’idea di una crescita infinita è stato e rimane tutt’ora il dogma che non ha veramente alcuna ragione di essere preso in considerazione.   Noi dobbiamo abbandonare questa strada, abbiamo alle spalle esperienze nate all’interno di quel movimento alle quali fare riferimento, io credo che dobbiamo costruire qualcosa a partire dalla parte migliore delle esperienze passate e presenti. 

https://www.radioradicale.it/scheda/601940/intervista-a-lorenzo-guadagnucci-autore-di-eclisse-della-democrazia-feltrinelli-e

380. Transassy: traduzione, Andrea Dworkin era una alleata delle persone trans

Qui a seguito la traduzione di Transassy:
 
 
 

Era una giornata di sole a Key West, a metà degli anni '70. Stavo camminando con Andrea Dworkin su un marciapiede circondato dalle palme, lei in T-shirt e salopette, io in canottiera e pantaloncini. I suoi capelli scuri erano folti e crespi, i miei erano biondi e ricci. Mentre passavamo davanti a un uomo più vecchio, evidentemente brillo, lui ci salutò con un "Ciao, ragazzi!" Poi, dopo un'occhiata più da vicino, "Ragazze?” Non sapeva di che sesso fossimo, ma pensava che dovessimo essere dello stesso sesso. Fu un momento molto divertente, che avremmo ricordato con piacere per anni. E guardando indietro, credo di sapere il perché: siamo entrambi stati – ognuno a modo suo – per tutta la vita alla ricerca di una via di fuga dal “genere”.

Andrea ed io abbiamo iniziato a vivere insieme il 1° agosto 1974, a New York, e lei è morta nella nostra casa a Washington D.C. il 9 aprile 2005. Nel corso di quei trentuno anni mi ha cambiato la vita, e all'inizio è stato difficile andare avanti senza di lei.

Da molto prima che la incontrassi, Andrea aveva delle forti idee radicali, come ben sanno le persone che l'hanno letta o sentita parlare. Una di queste era il ripudio del binarismo sessuale - e dell'essenzialismo biologico che si basa su esso. Come scrisse nel suo libro del 1974, Woman Hating:

"La scoperta è, naturalmente, che "uomo" e "donna" siano finzioni, caricature, costrutti culturali. Come modelli sono riduttivi, totalitari, inappropriati al divenire umano. Come ruoli sono statici, umilianti per la femmina, e un punto morto sia per il maschio sia per la femmina. La scoperta è inevitabile: Siamo, chiaramente, una specie multisessuale in cui la sessualità è distribuita lungo un vasto continuum nel quale gli elementi chiamati maschio e femmina non sono discreti."

Andrea era molto chiara sul fatto che il sistema della supremazia maschile viene imposto su e contro una classe politica chiamata "donne" per delineare e reificare una classe sessuale chiamata "uomini" - ed era eloquente nella propria analisi su come pratiche culturali come lo stupro, la violenza, la prostituzione e la pornografia istituzionalizzino questa oppressione di classe. Ma era anche molto chiara sul fatto che il binarismo sessuale che deduciamo e imputiamo a queste due classi non esiste di per sé: è un'illusione culturale, non un aut aut biologico.

Per Andrea non c'era alcuna contraddizione tra la sua opinione che gli esseri umani non siano divisibili in due sessi e le sue appassionate esortazioni a porre fine alla gerarchia di classe del sesso. La prima riguardava una verità assoluta, la seconda un regime sociale imposto dalla supremazia maschile. La sua mente era abbastanza grande da comprendere entrambi.

In un discorso del 1975, pubblicato più tardi come "The Root Cause" in Our Blood (1976), Andrea approfondì questa importante distinzione tra verità e realtà:

"Ho fatto questa distinzione [...] per permettermi di dire una cosa molto semplice: che nonostante il sistema della polarità di genere sia reale, non è vero. Non è vero che ci siano due sessi che sono discreti e opposti, antitetici, che si uniscono in modo naturale ed evidente in un insieme armonioso. Non è vero che il maschio incarni qualità e potenzialità umane sia positive che neutre, in contrasto con la femmina, la quale è femmina – secondo Aristotele e tutta la cultura maschile – "in virtù di una certa assenza di qualità". E una volta che smettiamo di accettare l'idea che gli uomini siano positivi e le donne negative, stiamo fondamentalmente rifiutando l'idea dell'esistenza stessa di uomini e donne. In altre parole, il sistema basato su questo modello polare dell'esistenza è assolutamente reale; ma il modello stesso alla base è falso."

La distinzione di Andrea tra verità e realtà è diventata, nei miei lavori, il fondamento filosofico di un'argomentazione contro l'essenzialismo biologico del sesso e una critica alla "mascolinità". Ad esempio, in Refusing to Be a Man (1985), ho scritto:

"L'idea del sesso maschile è come l'idea della razza ariana. I nazisti credevano nell'idea di una razza ariana – credevano che la razza ariana esistesse davvero, fisicamente, in natura [...] Credevano di poter dedurre l'esistenza di una razza a sé stante sulla base dei capelli biondi e degli occhi azzurri che si trovano naturalmente nella specie umana [...] Ma i tratti non costituiscono una razza; i tratti sono solo tratti. Per rendere veritiera l'idea che questi tratti fisici costituissero una razza, la razza doveva essere costruita socialmente. I nazisti sottomisero e sterminarono coloro che definivano "non ariani". In quel modo, l'idea di una razza ariana iniziò a prendere forma. Ecco come è potuta nascere un'entità politica nota come razza ariana, ed ecco come poteva esserci per alcune persone un senso personale e soggettivo di appartenenza ad essa. E’ un processo avvenuto attraverso l'odio e la forza, attraverso la violenza e la vittimizzazione, attraverso il trattare di milioni di persone come oggetti, per poi sterminarle. Il sistema di credenze condiviso da tutte le persone che credevano di essere ariane non sarebbe potuto esistere se non con la forza e la violenza, le quali hanno creato un sistema di classi razziali, e hanno creato l'appartenenza di queste persone alla razza considerata "superiore". Ma l'idea di una razza ariana non potrebbe mai diventare metafisicamente vera... perché, molto semplicemente, non esiste alcuna razza ariana. C'è solo un'idea di essa - e le conseguenze del cercare di farla sembrare reale. Il sesso maschile è molto simile a questo."

Quel passaggio è stato influenzato da un'altra cosa che ho imparato da Andrea: per lei, il modo in cui vengono odiate le donne e il modo in cui vengono odiati gli ebrei erano strettamente correlati. Questo è un tema ricorrente nel suo lavoro, e quel che significava per Andrea da un punto di vista morale l’essere sia donna che ebrea è stato una costante nella vita che abbiamo passato insieme.

Dopo la morte di Andrea nel 2005, ho iniziato a preoccuparmi sempre di più del fatto che lei e le politiche radicali che ho imparato da lei stessero venendo “rubate” da alcuni per sostenere - in nome del femminismo radicale - una concezione biologicamente essenzialista di "vera femminilità". A mio parere, ciò tradiva una concezione molto importante che mi ha trasmesso Andrea, e a cui ho fatto riferimento in tutto il mio lavoro, secondo cui la supremazia maschile si basa sull'altrettanto fittizio essenzialismo biologico della "vera mascolinità".

Già nel 1974, Andrea scriveva del transessualismo (come veniva chiamato allora) in una sezione lungimirante ed empatica di Woman Hating:

"Non c'è alcun dubbio che nella cultura della separazione maschio-femmina, la transessualità sia un disastro per le persone transessuali. Ogni transessuale, bianco/a, nero/a, uomo, donna, ricco/a, povero/a, è in uno stato di emergenza primaria... in quanto transessuale. Ci sono tre punti cruciali. Uno, ogni transessuale ha il diritto di sopravvivere come ritiene più consono. Ciò significa che ogni transessuale ha diritto a un intervento chirurgico di cambio del sesso, che dovrebbe essere un’opzione di base fornita dalla comunità. E’ una misura di emergenza per una condizione di emergenza. Due, cambiando le nostre premesse su uomini e donne, sui giochi di ruolo e sulla polarità, la condizione sociale delle persone transessuali verrà trasformata ed esse saranno integrate nella comunità, non più perseguitate e disprezzate. Tre, una comunità costruita sull'identità androgina significherà la fine della transessualità per così come la conosciamo. O la persona transessuale sarà in grado di espandere la propria sessualità in un’androginia fluida, oppure, con la scomparsa dei ruoli, il fenomeno della transessualità scomparirà e quell'energia si trasformerà in nuove modalità di identità e comportamento sessuale."

Questo terzo punto era la visione di Andrea per il futuro: una società in cui tutti fossero liberi dalla polarità di genere e dalla gerarchia sociale che la reifica e la richiede. Questa era la verità con la V maiuscola. Nel frattempo, i suoi primi due punti parlavano della realtà attuale per le persone trans e mettevano in evidenza il suo profondo impegno per il diritto all'affermazione della loro identità e ad essere sostenute nelle proprie esigenze mediche da parte delle comunità. L'empatia e l'accettazione su cui Andrea ha basato quel passaggio non hanno mai vacillato.

Ho ripensato al lavoro di Andrea e alle nostre conversazioni mentre riflettevo su come avrebbe risposto alle femministe radicali che si definiscono trans critical o gender critical (e a cui gli altri talvolta si riferiscono come trans-escludenti o transfobiche). Esse credono sinceramente che "le donne come classe biologica sono oppresse a livello globale dagli uomini come classe biologica" e che "negare il sesso biologico mini le fondamenta stesse del femminismo". In alcuni casi, invocano il nome di Andrea sul presupposto che, se fosse viva oggi, ci crederebbe anche lei e sarebbe una di loro. So che non lo farebbe.

In effetti, questa detestabile ideologia dell'essenzialismo biologico del sesso fomenta un bigottismo che avrebbe sconvolto Andrea. La sua reazionaria insistenza su un confine biologico intorno alla categoria delle "vere donne" gioca a favore dell'agenda maschilista-suprematista che vuole, più di ogni altra cosa, garantire la sicurezza dei confini della categoria dei "veri uomini". La cosa più sconvolgente, per me, è che l'ossessione anti-trans di questa fazione del femminismo radicale è diventata una storpiatura dell'etica egualitaria e della visione compassionevole che sta alla base della vita e dell'opera di Andrea.

Nel 1977 Andrea si trovò davanti a una sala di femministe radicali lesbo-separatiste e fece una critica molto accesa del loro determinismo biologico. (I lettori possono trovarla pubblicata come “Biological Superiority: The World’s Most Dangerous and Deadly Idea” nel suo libro del 1989 Letters from a War Zone). In esso, cita nello specifico le definizioni "biologicamente vincolanti, [...] genitalmente assolute" del genere come strumento di "discriminazione sociale e politica". Non ho dubbi sul fatto che Andrea al giorno d’oggi avrebbe criticato aspramente, con basi simili, l'essenzialismo biologico sessuale delle femministe radicali antitrans.

Di recente alcune femministe radicali trans-critical mi hanno detto che sbaglio, perché Andrea è morta prima che quella che loro chiamano “ideologia transgender” minacciasse di danneggiare la base biologicamente binaria del femminismo; Andrea non avrebbe potuto sapere, dicono, che le donne trans sarebbero diventate delle notevoli "minacce" ai diritti basati sul sesso delle donne. A loro rispondo che Andrea, in quanto donna ed ebrea, sapeva perfettamente riconoscere come si presenta un capro espiatorio biologicamente essenzialista.

Il problema fondamentale dell'ossessione del femminismo radicale nel definire biologicamente la categoria donna è che promuove inconsapevolmente una politica profondamente reazionaria. Nell'inquadrare falsamente la realtà della supremazia maschile come basata sul "fatto" biologico della "vera femminilità", non coglie affatto il punto che la supremazia maschile agisca in realtà per costruire la categoria della "vera mascolinità". Quella realtà letale avviene in modo transazionale, non anatomico. Succede quando gli aspiranti “veri uomini” violentano; succede quando gli aspiranti veri uomini picchiano; succede quando gli aspiranti veri uomini comprano sesso; succede quando gli aspiranti veri uomini consumano pornografia. La supremazia maschile è spiegabile non con la biologia, ma con il credere nell'illusione della "vera mascolinità" e il concomitante insaziabile bisogno di appartenervi nell'unico modo possibile: commettendo atti che violano e soggiogano gli altri.

Credere nella "vera mascolinità" è il genoma dell'ingiustizia. Personalmente mi schiero con il femminismo radicale che ho imparato da Andrea che intende confutare quella convinzione tossica e distruggere il potere che essa esercita su tutti noi.

 

379. Carol Adams, dentro l'oppressione dei referenti assenti

 

In un momento in cui il pensiero femminista sembra acquistare crescente visibilità nel panorama editoriale italiano, che rende finalmente – talvolta nuovamente – disponibili autrici come Donna Haraway, Monique Wittig, Valerie Solanas, non poteva mancare all’appello Carol Adams con Carne da macello. La politica sessuale della carne (comparso per la prima volta nel 1989 con il titolo di The Sexual Politics of Meat), per i tipi di VandA (pp. 360, euro 18, traduzione di Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati, postfazione di Barbara Balsamo e Silvia Molè).

Testo chiave dell’ecofemminismo statunitense e dell’antispecismo militante, il libro propone una critica del carnivorismo patriarcale con l’obbiettivo non soltanto di fornire un quadro dell’oppressione della vita animale, ma soprattutto di mettere in atto nuove pratiche di cura. Allieva di Mary Daly, teologa e femminista radicale autrice di Gyn/Ecology (1978), e per numerosi anni prima di dedicarsi alla scrittura attiva nelle lotte per il diritto alla casa e contro la violenza domestica, nel libro Adams ribadisce che creare alleanze significa innanzitutto lavorare trasversalmente, senza separare umani e non umani, e scardinando le gerarchie che discriminano i viventi e legittimano la subordinazione di alcuni e il privilegio di altri.

Il libro, che discute i «testi della carne» nelle diverse tradizioni, pratiche e relazioni sociali della cultura occidentale, e nelle sue espressioni verbali e visuali, insiste sull’interdipendenza fra la violenza simbolica e materiale esercitata sui corpi umani animalizzati e quella inflitta ai corpi degli animali non umani, le cui implicazioni vanno oltre la dimensione di genere: referenti assenti sono tutti quei corpi smembrati, macellati, stuprati, oggettivati che diventano, pertanto, consumabili.

In occasione della pubblicazione di Carne da macello (presentato in anteprima a Roma nell’ambito di «Feminism» il 5 marzo *** alle  ore 17 in sala 2 Caminetto con Barbara Balsamo, Silvia Molè e Flavia Fechete) abbiamo intervistato Carol Adams.

Quali sono stati i motivi che l’hanno portata a scrivere «The Sexual Politics of Meat»? Ha percepito delle resistenze dopo la pubblicazione? Quali concetti sono stati accettati e quali sono stati criticati? 
Ho iniziato a riflettere sulle connessioni tra femminismo e vegetarismo nel 1974, quando studiavo teoria femminista. Un giorno, mentre stavo camminando in direzione di Harvard Square, sono stata colpita dall’idea secondo cui il mangiar carne fosse parte integrante della cultura patriarcale. Poi ci sono voluti 15 anni per definire cosa dire e come dirlo. Dopo molte revisioni, il libro è stato pubblicato nel 1989. Le prime recensioni furono molto positive. Invece quando The Sexual Politics of Meat (Tspm) uscì in Gran Bretagna nel 1990 la ricezione non fu così entusiastica. Molt* si scandalizzarono di fronte al fatto che le due questioni fossero state messe in relazione. Tuttavia molt* attivisti antispecisti furono estremamente felici. Avevano sempre pensato che ci fosse un aspetto politico nel loro modo di rispondere all’oppressione animale e il mio libro offriva loro un background teorico per le loro scelte. Penso che il più importante dei miei contributi sia la considerazione degli animali come referenti assenti. Dietro la carne vi è un’assenza: la morte dell’animale. Questo è il «referente assente», la cui funzione è di mascherare la violenza insita nel carnivorismo. Il referente assente serve a tenere la nostra «carne» separata dall’osservazione che una volta essa sia stata un animale, a impedire che qualcosa possa essere stato qualcuno. Questo meccanismo è all’opera anche in altre forme di oppressione, quali lo sfruttamento sessuale.

Più o meno nello stesso periodo in cui usciva il suo libro, Kimberlé Crenshaw parlò di «femminismo intersezionale» per attirare l’attenzione sulle connessioni tra sessismo, razzismo e classismo. Cosa l’ha spinta ad analizzare l’intersezione trascurata tra sesso/genere e specie?
Quando stavo scrivendo il libro, non vi era ancora qualcosa chiamato «teoria intersezionale». Crenshaw coniò il termine nel 1989, quando Tspm stava per essere pubblicato. Il mio libro, quindi, si fonda sull’idea di un’interconnessione tra varie forme di oppressione più che sull’analisi di Crenshaw intesa in senso stretto. Le basi di questo lavoro sono costituite dal femminismo antirazzista, in particolar quello della seconda ondata, che include il lavoro del Combahee River Collective e la sua dichiarazione del 1977, e dal mio attivismo contro la violenza domestica, il razzismo, la povertà e a favore delle/dei lavorator* migranti e delle persone diseredate. Va inoltre sottolineato che anche l’ecofemminismo nasce solo agli inizi degli anni ’70.
Sono diventata vegetariana nell’ambito della comunità femminista di Boston-Cambridge agli inizi degli anni ’70 e così ho sperimentato le connessioni tra femminismo, vegetarismo e altri movimenti progressisti. Ho iniziato a scrivere il libro per sostenere che le femministe dovessero essere vegetariane, ma poi il libro si è andato sviluppando da solo. Comunque, continuo a pensare, come allora, che il femminismo fornisca i mezzi per rendere conto dell’oppressione degli animali.

Vegetariani e vegani sono spesso etichettati come emotivi, arrabbiati, amareggiati: non pensa che questo sia un modo per banalizzare o manipolare le tematiche antispeciste, impedendo che si possa instaurare un reale dibattito?
Penso che i vegani mettano fortemente a disagio i non vegani semplicemente sedendosi a tavola. Ricordiamo che ognuno ha la possibilità di scegliere e che i non vegani hanno deciso di continuare a mangiare gli animali, il loro latte e le loro uova. La nostra scelta ricorda loro che hanno preso una decisione, che hanno deciso di non cambiare. Ho scritto Living Among Meat Eaters, un libro che tenta di aiutare vegani e vegetariani a capire perché i carnivori siano così spesso emotivi, arrabbiati e amareggiati. In un certo senso, non serve fornire argomenti contro l’utilizzo degli animali; i non vegani hanno già pensato a quello che fanno e, per conservatorismo che spesso ha a che fare con l’egoismo («Non posso rinunciare al mio hamburger», «Adoro il formaggio»), hanno deciso di non cambiare.
Quando si arrabbiano perché noi abbiamo deciso di cambiare stanno cercando di distogliere l’attenzione dalla loro decisione di non cambiare. Teoria critica? I non vegani cercano di evitarla il più possibile perché metterebbe a nudo la debolezza degli argomenti a favore del consumo di carne, uova e latte. E, naturalmente, esiste il mito secondo cui noi vegani ci staremmo affamando e che non mangeremmo cibo meraviglioso, quando in realtà il nostro cibo è delizioso.
Considero i non vegani come vegani bloccati. Soprattutto negli ultimi anni, dato il ruolo giocato dagli allevamenti nei cambiamenti climatici in atto, è comprensibile che i non vegani cerchino di spostare l’attenzione sui vegani. Quando The Sexual Politics of Meat venne pubblicato alcune femministe dichiararono che non lo avrebbero letto perché temevano di diventare vegetariane. Fu allora che pensai: «Che ironia. Il femminismo viene evitato perché potrebbe sollecitare un cambiamento. Ma che cosa sta alla base del pensiero femminista se non il cambiamento?».

Ci sono voluti 30 anni per tradurre il suo volume in italiano, ora «Carne da macello». C’è qualcosa che cambierebbe o a cui darebbe un’enfasi differente? Che rilevanza assume il suo discorso nell’«era Trump»?
Purtroppo, la cultura dominante fa sì che quel testo mantenga la sua importanza. Gli esempi utilizzati potrebbero essere diversi, ma non il fatto che si stia discutendo di opinioni e strutture dominanti che sono ancora le stesse. Inoltre, così tante persone hanno affermato che il libro ha cambiato la loro vita che ho ritenuto non fosse necessario «aggiustarlo». Sembra che stia funzionando come speravo che facesse. Sì, ho aggiunto una prefazione e una postfazione, ma non ho inserito nuovi capitoli e neppure ho apportato modifiche sostanziali. Al contrario, sto aggiornando The Pornography of Meat(sarà ripubblicato in ottobre), soprattutto per quanto riguarda le immagini (345 saranno nuove!), e sto aggiungendo considerazioni sul movimento #MeToo, sulla retorica delle destre a favore del mangiare carne e latticini con lo scopo di promuovere la supremazia bianca, sull’associazione tra animalità e razza, su come il binarismo di genere sia rafforzato dalle politiche sessuali della carne e sul linguaggio del presidente Trump, lo sfruttatore-sessuale-in-capo. Le immagini più recenti utilizzate per rappresentare le politiche sessuali del carnivorismo riflettono questi sviluppi e pertanto c’è spazio per un profondo aggiornamento di un libro iconografico.

 
*** NOTA: evento sospeso a seguito delle nuove raccomandazioni governative sul coronavirus.

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