370. Dissonanze legislative

Grazie ad affaritaliani.it per la pubblicazione (*)

 

Ho letto con molto interesse l'articolo da voi proposto (leggi qui),  sono felice per l'attenzione dedicata  agli individui delle altre specie e per la pubblicazione del report.

 

Ritengo tuttavia che  sia necessario affrontare anche i paradossi intrinseci alla legislazione vigente. L'ultima svolta in questo senso può essere considerata la legge n. 189/2004 e l'introduzione del nuovo titolo IX-bis del codice penale "dei delitti contro il sentimento per gli animali", cui si arrivò non da ultimo per il dilagare dei combattimenti tra animali. Come leggiamo nel testo "La tutela giuridica degli animali e il loro valore come categoria protetta" (Laura Boscolo Contadin, Editore Key) i reati commessi a danno degli animali non sono più reati contro la proprietà o contro la polizia dei buon costumi, ma sono inseriti in un contesto separato, anche se rimane prevalente la concezione antropocentrica volta a tutelare la sensibilità umana di fronte ad atti di violenza verso i non umani (non si parla infatti né di soggettività né di personalità). L'intervento normativo va comunque collocato nel mutare del paradigma culturale in corso per cui gli altri animali vengono riconosciuti come esseri senzienti, capaci di soffrire, gioire,  con "progetti di vita", portatori di interessi individuali.

 

L'art. 544 bis recita: Uccisione di animali. Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni. La contraddizione è qui principalmente dovuta all'art. 9 ter delle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale (introdotto insieme al Titolo IX bis del Codice nel 2004), che "stabilisce che la disciplina del nuovo Titolo non si applicherà alle disposizioni speciali in materia di allevamento, caccia, pesca, macellazione, sperimentazione, circhi, zoo, trasporto, manifestazioni di tipo storico  culturale che coinvolgono gli animali" (L.B. Contadin). Vale a dire ci troviamo di fronte a eccezioni che costituiscono per milioni di volte la regola e che di fatto fanno apparire la normativa come una manovra politica per accontentare di facciata l'opinione pubblica, dal momento che oggi nel criterio di necessità non può certo rientrare il consumo di carne e prodotti animali o altri fenomeni citati (anche per ragioni che esulano dai diritti degli animali, sulla base di una ormai rilevantissima letteratura scientifica). Le ragioni di tale contraddizione vengono menzionate  nel testo  citato e  vengono a coincidere, in modo assai interessante,  con quelle dell'antispecismo nella sua corrente più politica. Nel testo infatti si nota quanto segue: "La bioetica ecocentrica deve ancora progredire sulle riflessioni e argomentazioni perché non potrà ottenere molti risultati fin tanto che rimarrà legata alle esigenze economiche. In sostanza è il valore economico che gli animali rappresentano per l'uomo che impedisce l'affermarsi di un principio etico di liberazione (...) si tratta di un meccanismo circolare, un sempre maggior sfruttamento proporzionato a un minor costo di produzione e vendita e di conseguenza una maggior domanda da parte dei consumatori e crescita del guadagno dei produttori".  Spesso si parla di "pregiudizio" nei confronti degli altri animali: in realtà, semplificando, non è la discriminazione a generare l'oppressione, ma l'inverso. Il pregiudizio (sono meno intelligenti, non soffrono poi tanto, non hanno l'anima o la coscienza diventate di fatto intercambiabili ...) è "solo" un vestitino applicato a posteriori per legittimare lo sfruttamento, e si può qui operare un parallelo con la condizione degli schiavi, come esposto da Colette Guillaumin: "the mark followed slavery and in no way preceded the slave grouping. The slave system was already constituted when the inventing of the races was thought up" (Racism, sexism and ideology, Ed. Routledge). I nessi con lo sfruttamento umano, la radice comune,  non solo sono evidenti, ma si potrebbe arrivare a dire che l'uomo ha esercitato parallelamente su se stesso la tecnica dell'addomesticamento.  A dover essere combattuto non è quindi solo l'abuso secondo normative vigenti, ma la norma da queste sancita.

(*) www.affaritaliani.it/cronache/ogni-55-minuti-un-reato-contro-gli-animali-551016.html

 

 

369. Libertà ma senza pollo, replica

 Una replica a Massimo Fini ("l'occidente è libero ma senza pollo")

 

di Barbara Balsamo, docente e attivista antispecista

e Silvia Molè, traduttrice e attivista antispecista

 

 

Abbiamo  letto con interesse e un  legittimo grado di divertimento l'articolo (*) di Massimo Fini "l'occidente è libero ma senza pollo" comparso il 5 luglio 2018 sul Fatto Quotidiano. L'interesse, di carattere sociologico, risiede nella constatazione che non solo sconosciuti utenti dei social media siano privi di adeguate basi culturali per giudicare posizioni filosofiche e movimenti di liberazione tanto complessi e multiformi, ma anche affermati giornalisti che trovano una cassa di risonanza nei maggiori quotidiani nazionali.  Desta particolare sconcerto nonché ilarità innanzitutto il fatto che come "fanatici" vengano designati gli "specisti"" ("un'ulteriore e più oltranzista specificazione, pardon corrente, dei vegani"), ovvero la categoria alla quale Massimo Fini parrebbe rientrare a tutti gli effetti, dimostrando di non aver completamente chiari i termini del dibattito ovvero specismo/antispecismo. Come "ideologa degli specisti" viene indicata la studiosa americana Melanie Joy  la quale, in quanto psicologa, ha posto l'accento (2010) sui meccanismi psicologici (ad esempio la dissociazione di massa, cuore della desensibilizzazione psichica, che permette di sviluppare una sorta di doppia identità quando si violano gli altri) che rimuovono e occultano l'uccisione degli individui delle altre specie,  a fondamento del carnismo, inteso come sistema di credenze condiviso, particolarmente difficile da mettere in discussione in quanto esso - a differenza di altri - lavora attivamente per tenersi nascosto, dandosi per "naturale". Diventare consapevoli dell'intensa sofferenza di miliardi di animali, e della nostra stessa complicità a tale sofferenza, può suscitare emozioni penose, spiega Joy, un grave senso di colpa, da cui la resistenza a vedere e  affrontare il problema in termini di liberazione, e da cui  la deindividualizzazione, il pensare agli animali come astrazioni, o in termini di "arrosto", nonostante oggi siamo consapevoli del fatto trattarsi di esseri senzienti. Quando Massimo Fini parla di "infantilismo" ravvediamo quindi quel tipo di banalizzazione estrema (leone e gazzella) assai frequente sui social media, che tende all'identificazione totale con le caratteristiche etologiche  degli altri animali, salvo poi rivendicare solo per se stessi unicità e  libero arbitrio, salvo poi non poter operare scelte nell'ambito di quelle date, tra cui il non uccidere, che non mettono a rischio la propria sopravvivenza. "Madre Natura ordina/dice che", e sappiamo quanto questo imperativo "coglione" (ispirandoci alla dotta terminologia finiana)  sia pericoloso anche nel contesto delle oppressioni di umani. Esattamente come l'uso eminentemente politico di "intelligenza" e "coscienza" (quest'ultima sostituita 1:1 al concetto di anima) nella costruzione - storicamente e non naturalmente determinata - delle gerarchie. 

 

Detto questo, il termine specismo (inteso come discriminazione degli altri animali, reificazione di essi) - saltando importanti e anche antichissimi precedenti storici riguardanti la critica all'oppressione degli individui delle altre specie - viene utilizzato già nel 1970 da Richard Ryder. Le riflessioni su specismo e antispecismo vengono riprese da autori come Peter Singer (1975)  e Tom Regan (1983)  fino ad arrivare  al nuovo,  multiforme e ricchissimo panorama contemporaneo, che si muove in ottica interdisciplinare, con Steven Best (2014) e molti altri (Gary Francione, Will Kymlicka ...), sottolineando come anche l'Italia vanti una produzione filosofica antispecista ricchissima, dove spiccano Marco Maurizi, Massimo Filippi, Benedetta Piazzesi, Roberto Marchesini e molti altri ruotanti attorno alla rivista di critica antispecista Liberazioni ). Particolarmente importante è la corrente dell'antispecismo politico, che intende fuoriuscire da un approccio di carattere "meramente" morale per introdurre l'oppressione degli individui delle altre specie in una dimensione politica che evidenzi anche gli odierni meccanismi di sfruttamento economico di stampo capitalista alla base e dello sfruttamento di animali umani e di animali non umani, ragion per cui la lotta non può che avere lo stesso obiettivo. Stiamo parlando della differenza tra antispecismo metafisico (che trasforma lo specismo in  realtà oggettiva posta sopra la storia)  e storico, secondo cui  lo specismo inteso come pregiudizio o  habitus mentale "non può essere posto alla base dello sfruttamento animale, poiché nella misura in cui si può parlare dello specismo esso è una conseguenza, più che una causa di esso. In altri termini, non è affatto vero che noi sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, piuttosto li consideriamo inferiori perché li sfruttiamo" (Maurizi, Al di là della Natura). Evidenti qui le analogie con il pensiero di Colette Guillaumin vertenti su razzismo e su schiavitù. E' la valenza economica che gli animali rappresentano per l'uomo ad ostacolare la loro liberazione, il pregidizio è "solo" il meccanismo che si innesta a giustificazione dello sfruttamento economico (non sono bianchi, non sono intelligenti come noi, non provano le stesse emozioni, non hanno l'anima, non sono coscienti). Lo specismo storico quindi "include il dominio dell'uomo sull'animale-uomo,  per l'antispecismo metafisico lo specismo indica solo la lotta dell'uomo contro il restante mondo animale, come se l'uomo non avesse dovuto anche addomesticare sé per poter addomesticare gli animali" (Maurizi).


Sulla base di questa premessa si potrà facilmente intuire come l'impostazione di base di Massimo Fini banalmente poggi sul diritto del più forte " ...anche nel caso degli esseri umani, anche intraspecifica", sul fatalismo della violenza, sull'oppressione sistemica  intesa come naturalmente inevitabile, come insita nella natura umana e non storicamente determinata. Mentre l'antispecismo politico vede la violenza dell'uomo sull'uomo e dell'uomo sugli altri animali come storicamente determinata, e quindi ribaltabile. L'impianto di pensiero di Massimo Fini è utile a giustificare ogni genere di oppressione,  data appunto come naturale, l'impianto antispecista è utile a sovvertirlo. Desta non poca ilarità la menzione di "culture superiori" che hanno condotto guerre contro popoli considerati inferiori o diversi. Ovvero la stessa guerra perpetua che  conduciamo contro gli altri animali in nome di una presunta superiorità, che ha molto a che vedere con un testo sacro e molto meno con un testo scientifico. Aggiungiamo, un costume o una tradizione sono tali fino a quando non ledono la vita altrui. Nel momento in cui il mio costume prevede di porre termine alla tua vita, possiamo parlare di guerra, di omicidio, di pena di morte, più difficilmente di costume nel senso indicato da Fini, il quale conclude con un attacco al #metoo, a dimostrazione  del fatto che le oppressioni hanno radici comuni (mirabile in questo contesto "the sexual politics of meat" di Carol J. Adams).


Nell'articolo di Fini viene citata la lettera aperta dei macellai francesi al ministro dell'interno francese, che nella filosofia antispecista e nella relativa prassi di liberazione vedono lesi i propri interessi economici, e qui ci riallacciamo a quanto esposto sopra, ovvero alla radice dello sfruttamento. I fatti non sono quelli che riporta il signor Fini, che dipinge grottescamente i macellai francesi facendoli passare per povere vittime in preda a dei violenti psicopatici. Piuttosto, in un paese, la Francia, dove il dibattito pubblico è il più possibile veritiero, la questione della liberazione animale è sentita e presa sul serio perché se ne sono comprese le premesse basilari, cosa che non possiamo dire per l’Italia. A fronte di un dibattito politico articolato si rimette in discussione anche l’intero impianto economico, come si fa in democrazia.


L’ antispecismo è un movimento politico a tutti gli effetti, certamente giovane ma radicale e nonviolento per un mondo migliore di pace e libertà e la fine delle oppressioni per tutti i soggetti di qualunque specie. 


Siamo quindi pienamente concordi con Steven Best (Liberazione Totale): "è ogni giorno più evidente che i movimenti di liberazione degli umani, degli animali, della terra sono inseparabili l'uno dall'altro: nessuno (esseri umani, animali ed ecosistemi dinamici) potrà essere libero fintantoché non saranno liberi tutti gli altri (dallo sfruttamento e dall'intervento dell'uomo)"


(*) https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/loccidente-e-libero-ma-niente-pollo/

https://infosannio.wordpress.com/2018/07/05/massimo-fini-liberta-ma-senza-pollo/

368. Femminismo neoliberista e freedom fallacy

Riportiamo qui a seguito uno splendido articolo che ben chiarisce il contenuto del femminismo neoliberista o choice feminism che con una vacua e inconsistente retorica nonchè ri-significazione del concetto di autodeterminazione (intesa di fatto come libertà dei mercati, che andrebbe ben distinta dalla libertà personale, e culturalmente riassumibile in “il corpo è mio e me lo mercifico io”, fino ad arrivare a "coerenti" spinte per la depenalizzazione del reato di sfruttamento e induzione) è diventato consapevolmente uno dei migliori alleati dell’industria del sesso e del patriarcato capitalista. Il famoso nuovo che avanza per tornare indietro di secoli. Normalizzare le gerarchie, naturalizzare le oppressioni, risignificare in modo positivo lo status quo: le categorie con cui ci troviamo a “giocare” sono queste, in ogni campo. Spesso mascherate da "empowerment".

Tempo permettendo lo tradurremo.

“Feminism is back in fashion. As the push to claim the “f-word” has intensified, public figures, corporations and much of the mainstream media have propelled a largely unchallenging version of feminism into the popular consciousness. It is a feminism that never mentions women’s liberation, instead opting for a celebration of “choice”.

Read almost any online article about feminism and the comments will soon devolve into a debate about choice. It doesn’t seem to matter what the topic is, people are quick to reframe the issue as one of women’s empowerment and right to choose. This provides a neat diversion from talking about the larger power structures and social norms that restrict women, in many different ways, all around the world.

It’s been a big month for “choice feminism”. In late March, the fashion magazine empire Vogue launched a “My Choice” video in India as part of its Vogue Empower campaign which, quite literally, reduced women’s empowerment to a series of choices.

The video went viral and, as the India-based reporter Gunjeet Sra noted, the hypocrisy of an “industry that is based on fetishising, objectifying and reinforcing sexist standards of beauty on women”, supposedly promoting feminism, went largely unremarked.

This liberal brand of “choice feminism” was then followed to its logical, if absurd, conclusion, when a Liberal Democrat candidate in the upcoming UK election tried to explain away footage of him getting a lap dance in a strip club. Apparently, it was all part of his feminist mission to assist in “empowering women to make legal choices, not to judge the legal choices they make”.

Even Playboy has recently decided to weigh in on the finer points of feminist theory, and have come out in favour of a woman’s right to be subjected to the pornographic gaze. Which, conveniently, fits in very nicely with their own business plan, of course.

It is incidents like these, as well as hackneyed arguments about whether Beyoncé is a feminist, or whether male politicians should wear This is What a Feminist Looks Like T-shirts, that inspired a new collection of feminist writing, Freedom Fallacy: The limits of liberal feminism.

In the book, which I co-edited, 20 of us take on different topics that have become part of the “choice feminism” landscape: from pornography and prostitution, to female genital mutilation, from women’s magazines and marriage, to sexual violence. While coming from a range of different perspectives, we all critique the notion that “choice” should be the ultimate arbiter of women’s freedom.

Many of us argue that the rise of this pop-feminism is actually more insidious than poking fun at the inane end of the “I choose my choice” spectrum might suggest.

First of all, the choice arguments are fundamentally flawed because they assume a level of unmitigated freedom for women that simply doesn’t exist. Yes, we make choices, but these are shaped and constrained by the unequal conditions in which we live. It would only make sense to uncritically celebrate choice in a post-patriarchal world.

Second, the idea that more choices automatically equate to more freedom is a falsehood. This is essentially just selling neo-liberalism with a feminist twist. Yes, women can now work or stay at home if they have children, for example, but this “choice” is fairly hollow when child-rearing continues to be constructed as “women’s work”, there is insufficient state support for childcare, and childless women are decried as selfish.

Third, the focus on women’s choices as the be-all and end-all of feminism has resulted in in a perverse kind of victim-blaming and a distraction from the real problems women still face. If you’re not happy with the way things are, don’t blame misogyny and sexism, the pay gap, entrenched gender roles, women’s lack of representation on boards or in parliament, or an epidemic of violence against women. Blame yourself. You obviously made the wrong choice.

As sociologist Natalie Jovanovski points out in her Freedom Fallacy chapter, it is not surprising this kind of liberal feminism has risen to prominence. In privileging individual choice above all else, it doesn’t challenge the status quo.

It doesn’t demand significant social change, and it effectively undermines calls for collective action. Basically, it asks nothing of you and delivers nothing in return.

Instead of resistance, we now have activities that were once held up as archetypes of women’s subordinate status being presented as liberating personal choices. Sexual harassment has been reframed as harmless banter that women can enjoy. Marriage is reconstructed as a pro-feminist love-in.

Labiaplasty is seen as helpful cosmeticenhancement. Pornography is rebranded as sexual emancipation. Objectification is the new empowerment.

Instead of talking about a vision for a more equal future, we are left with inward-looking, futile discussions about whether or not individual women are “bad feminists”. Or what journalist Sarah Ditum has termed the “can you be a feminist and …” game. As though the real issue of women’s progress is whether or not we can live up to some fabled feminist ideal.

So thorough is the individualisation of “choice feminism” that when women criticise particular industries, institutions and social constructions, they are often met with accusations of attacking the women who participate in them. The importance of a structural-level analysis has been almost completely lost in popular understandings of feminism.

By way of comparison, it would seem quite ludicrous to suggest that by critiquing capitalism a Marxist was attacking wage labourers. It would similarly seem very odd to suggest that those critiquing Big Pharma hate people who work in pharmaceutical factories. Or that those who question our cultural reliance on fast-food have it in for the kids behind the counter at McDonalds.

Ultimately, the promotion of “choice” – and the myth of an already-achieved equality – have hampered our ability to challenge the very institutions that hold women back. But the fight is not over.

Many women are reasserting that feminism is a necessary social movement for the equality and liberation of all women, not just platitudes about choices for some.


Freedom Fallacy: The limits of liberal feminism was launched in Australia in March. It is also available internationally.


Meagan will be on hand for an author Q&A between 3 and 4pm AEST on Thursday April 30. Post your questions in the comments section below.

 

http://theconversation.com/no-feminism-is-not-about-choice-40896

 

367. Femminismo materialista

Traduzione dell’intervista a Christine Delphy a cura di Cristiana Pugliese e Silvia Molé (Associazione Parte in Causa)  registrata su Radio Radicale il 24 aprile 2018.

 

 

Molé - Buongiorno Christine, è un grande onore per noi averla qui oggi. Siamo felici che abbia accettato questa intervista.  Prima di iniziare con le domande, vorrei dare al pubblico alcune informazioni sulla sua biografia, in italiano:

 

Comincerò con una doverosa sintesi della biografia di Christine Delphy e ringrazio  Deborah Ardilli, studiosa del femminismo materialista per l’aiuto che mi ha dato nell’approfondire il pensiero e la vita di questa grande autrice.

Christine Delphy è una sociologa francese e una tra le più note femministe al mondo in particolare nel contesto del cosiddetto femminismo materialista a cui lei diede avvio intorno al 1975. Nasce a Parigi nel 1941 e dopo la laurea in sociologia conseguita alla Sorbona si reca per un periodo negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio. All’Università di Berkley scrive una dissertazione su Freud al quale contesta di aver enunciato  una inferiorita psicologica della donna dalla quale sarebbe derivata una inferiorita sociale e gli contesta pure il fatto di difendere come sola sessualità “normale” quella eterosessuale. E questo le fece comprendere a pieno la stigmatizzazione delle persone omosessuali. Durante il soggiorno statunitense nel 1965 stringe contatti e lavora per  associazioni impegnate sul fronte dei diritti civili degli afroamericani. Verso la fine degli anni 60 comincia a militare in gruppi femministi legati al movimento di liberazione delle donne di cui lei è una delle fondatrici e nel 1970 comincia la collaborazione anche con Monique Wittig. Insieme a Simone de Beauvoir fonda nel 1977 la rivista questions feministes oggi nouvelles questions feministes, una rivista che tra l’altro introduce il concetto di genere,  ed è dal 1970 ricercatrice al CNRS occupandosi di  studi femministi e di genere. In Italia purtroppo mancano in gran parte traduzioni delle sue opere, eccezioni ad esempio per l’articolo del 1970 Il nemico principale e per l’articolo del 1991 Pensare il genere. Degno di nota è il fatto che non occorre attendere gli anni novanta  per veder decostruita la cornice essenzialista che pregiudica una comprensione integralmente politica dei rapporti di genere. Ella infatti si pone in contrapposizione alla corrente femminista differenzialista o essenzialista/naturalista e in una certa misura anche a un certo riduzionismo del marxismo ortodosso, il patriarcato non è riducibile al capitalismo, lei teorizza la co-esistenza di modi di produzione e rompe diciamo il dogma del modo di produzione unico, attraverso l’individuazione del modo di produzione domestico. In anni piu recenti si è anche distinta nella lotta contro l’islamofobia e nella strumentalizzazione del femminismo in chiave anti islamica. E ha condotto forti critiche contro le politiche imperialiste occidentali e relative guerre sui vari fronti. Lo scorso anno firma un documento contro un mattatoio francese che lascia presagire un crescente interesse verso la questione animale e su cui porrò una domanda finale.

 

 

 

Molè - Christine, le faccio la mia prima domanda: cos’è il materialismo femminista e quali sono oggi i suoi principali obiettivi? 

Delphy - Innanzitutto io parlo di femminismo materialista e non di materialismo femminista. Sono stati invertiti i termini. Come hai ben detto nella presentazione in italiano qui si tratta di femminismo materialista. Che cos’è?
È una visione dell’oppressione delle donne, intesa come oppressione economica. Per oppressione economica intendo l’economia in senso lato e quindi anche le condizioni in cui vivono le donne . Mi sono interessata alle condizioni di produzione della vita materiale femminile. Quindi, l’oppressione di cui parlo è quella vissuta in primo luogo nella famiglia, all’interno del nucleo familiare. È questo il mio principale interesse, che mi ha convinto a occuparmi di questa parte importante del lavoro tipico del mondo occidentale, e probabilmente di tutto il mondo, cioè il lavoro che le donne eseguono in quanto mogli senza riceverne una remunerazione, in altre parole le donne non possiedono la loro forza lavoro perché all’interno del matrimonio o di un rapporto di concubinato la loro forza lavoro è accaparrata dal marito, diventa la sua proprietà. Le donne lavorano gratuitamente come, si è detto, in una situazione di schiavitù. La visione però è molto più ampia e include anche l’appropriazione sessuale. Ancora oggi, perlomeno in Francia, e penso nella maggior parte dei paesi occidentali, la soddisfazione di quelli che sono considerati i bisogni sessuali del marito costituisce un dovere della donna.  In Francia d’altronde si parla di dovere coniugale, cioè di servizi sessuali che la donna deve offrire al marito, almeno in un primo tempo, oltre allo sfruttamento del suo lavoro a titolo gratuito. È questo che intendo per femminismo materialista: si riferisce alle condizioni di vita delle donne e al modo in cui ottengono un mezzo di sostentamento. In questo sistema, poiché il lavoro femminile appartiene in pratica al marito, in molti ambiti economici, ad esempio in agricoltura, nell’imprenditoria, o anche nelle professioni cosiddette autonome, quando il marito possiede un’autofficina o è medico o avvocato o commerciante, quello che osserviamo è che le donne lavorano, aiutano come si dice il marito nel suo lavoro, ma è il marito che gestisce il denaro ricavato dalla loro produzione, come nel caso delle agricoltrici ovvero delle mogli di agricoltori. Questo tema è stato il mio primo interesse, e fin dall’inizio mi sono trovata a combattere l’idea imperante a quei tempi nell’ambiente in cui vivevamo, non solo io, ma direi un po’ tutti, anche le altre femministe, che la causa del male fosse il capitalismo. Quindi ho voluto distinguere nettamente la modalità capitalista dalla modalità patriarcale, il lavoro di dipendente dal lavoro domestico perché il lavoro domestico non comprende solo quella parte di lavoro che Marx definiva superlavoro e che genera un plus-valore di cui usufruisce il capitalismo, ma è tutto il lavoro, e non solo una piccola parte di esso, di cui una donna è spossessata.  A questo proposito, ho affermato che ci sono almeno due modalità di produzione, basti pensare alle modalità di produzione dei paesi non occidentali, dove lo sfruttamento femminile è ancora radicato in sistemi simili alla schiavitù o alla servitù.  Questo è il tema principale della discussione che ho avuto con e contro le femministe che pensavano, come le loro organizzazioni, che la causa di ogni male fosse il sistema capitalista. Mi sono ribellata non solo a questa visione di tipo economico, basata sulla dipendenza economica delle donne, ma anche a tutte le spiegazioni, a mio avviso, non di ordine materialista e che mi sembravano idealiste in termini di cultura, di psicologia, di quel che volete. So che in Italia, purtroppo per voi, le femministe sono in gran parte essenzialiste, credo.

Molé- La mia seconda domanda: quali sono le forme di lotta più efficaci per combattere il patriarcato oggi ?

Delphy - A lungo, come tutti, ho creduto che la situazione femminile rivestisse una molteplicità di aspetti perché le donne sono oppresse in tutti i campi (sono oppresse anche dal sistema capitalista – gli stipendi delle donne in Francia sono inferiori del 26% rispetto a quelli degli uomini e questo vuol dire che gli uomini guadagnano il 33% in più delle donne per lo stesso lavoro). Quindi esiste una doppia oppressione. Penso che l’oppressione patriarcale o domestica sia la prima, ma il problema è che su tutte queste situazioni gioca l’oppressione sessuale, una prevaricazione nella quotidianità che è culturale e che è anche data dal silenzio che è fatto sulla creatività, le opere artistiche, intellettuali, ecc. delle donne.  
Per questo, ho pensato a lungo che il primo sistema da sconfiggere dovesse essere il sistema materiale che relega le donne in una situazione di dipendenza e di lavoro non retribuito quale quello che svolgono per la famiglia e per il marito. Ora però ho una visione più empirica, da quando mi sono resa conto quarant’anni fa, quando è nato il movimento di liberazione femminile in Francia, che in realtà non c’è un’unica chiave.  In altri termini, si deve lottare in tutti i campi. In Francia, e penso anche in Italia, c’è il movimento “Me too”. Sono convinta che sia un’ottima cosa, molto importante, negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia, non so bene in Italia e in Spagna. È visto come una rivoluzione, nel vero senso della parola, nella denuncia delle aggressioni sessuali e delle violenze, delle molestie, della libertà che si concedono gli uomini di interrompere una donna che sta pensando ai fatti suoi e cammina da sola lungo la strada, dicendole che è bella o che non è bella, o invitandola a bere qualcosa, ecc. Sono modi per occupare, per appropriarsi del tempo e dei pensieri delle donne, anche se non sono aggressioni sessuali. E il diritto degli uomini di aggredire sessualmente non è punito. Pensiamo anche all’atteggiamento delle donne che hanno subito per anni e anni senza mai ribellarsi, come se tutto fosse naturale perché gli uomini sono fatti così e non c’è niente da fare.  Il movimento Me too dice: “ Sì, certo che si può fare qualcosa! Non è obbligatorio, non c’è una ragione biologica o naturale perché l’uomo abbia questo diritto, quindi togliamoglielo.”. Io penso, e non solo da tempi recenti, che tutte le forme di oppressione vanno combattute insieme e che non c’è un qualcosa che scatta o un tasto da schiacciare per liberare le donne da una parte di oppressione e per liberarle contemporaneamente da tutte le altre forme di prevaricazione. In realtà, dobbiamo agire su tutti i fronti. Ad esempio, all’inizio del movimento, nel 1970, abbiamo lottato molto per la liberalizzazione dell’interruzione di gravidanza. Allora andava benissimo e dovevamo farlo. La lotta non è ancora finita e ci vorrà ancora del tempo perché alcuni paesi, fra cui alcuni paesi  europei, vietano ancora l’aborto, come la Polonia o l’Irlanda, e altri limitano il diritto delle donne a praticarlo.  Questa lotta ha seminato qualche piccolo seme come l’idea che il nostro corpo ci appartiene. Ma non basta, perché ci sono altri campi in cui le donne sono considerate inferiori e dove non sono padrone del loro tempo e del loro lavoro. Non basta, perché uno dei problemi è che le donne interiorizzano l’idea che sono inferiori, da tutti i punti di vista, inferiori dal punto di vista fisico, dal punto di vista intellettuale, ecc. Quindi pensano di essere debitrici nei confronti degli uomini che si interessano a loro. La situazione è molto difficile. Per questo motivo, i movimenti di liberazione sono assolutamente indispensabili, perché combattono questo stato di cose, ma il processo è per forza lento e graduale. Le donne lo interiorizzano già alla nascita in un certo senso. La nascita di una bambina è considerata meno importante per mille motivi dalla famiglia. Mangia meno, è obbligata a fare cose che i maschi non sono tenuti a fare, ecc. E dopo 10 o 15 anni di questo addestramento, perché si tratta di un vero e proprio dressage, le ragazze capiscono di essere donne, anche al di fuori della famiglia, a scuola, dove non possono giocare liberamente, non possono giocare con i maschi, ma neanche senza tener conto dei maschi. Anche i ragazzi interiorizzano l’idea di avere molti diritti, molto più delle ragazze e le ragazze interiorizzano il fatto di averne meno. Le persone assimilano queste idee fin dalla nascita ed è un qualcosa che si affievolisce nella società quando i movimenti femministi ottengono nuove vittorie. Ma è molto difficile nella vita individuale. Il grado di rivolta contro queste credenze culturali non è lo stesso in tutti. Ancora una volta penso che questa cultura sminuisca il valore delle donne e abbia proprio questo scopo, anche se non è lo strumento principale della loro oppressione.  Ma evidentemente vi contribuisce insieme a tutto il resto. Le donne non accetterebbero di lavorare gratis per il loro marito se non pensassero di essere creature inferiori.

Molé- Trovo molto interessante ascoltare l’opinione di eminenti intellettuali sul tema del nostro rapporto con gli altri animali. L’anno scorso lei ha firmato una riflessione dell’associazione L214 contro un macello. Pensa che il processo di liberazione possa riguardare anche gli animali?

Delphy - È una domanda difficile. Mi sono interessata all’argomento perché avevo studenti e colleghi che militano in questa battaglia e la questione dei macelli evidentemente è estremamente importante: è l’aspetto più evidente, ed è il primo passo nella richiesta di liberazione degli animali. Penso che ci sia una grossa battaglia da combattere perché gli umani si definiscono in antitesi rispetto agli animali. Si dice che una cosa è umana, per intendere che non è inerente agli animali e quando si dice di qualcosa che è animale si intende dire che non è umana.  Dunque c’è una grande, grandissima battaglia da combattere. Credo che siamo costretti a iniziare gradatamente, con le torture che sono inflitte agli animali. La battaglia contro l’allevamento degli animali di cui ci nutriamo, come le vacche o le capre o i maiali, richiederà un tempo molto lungo, come tutte le battaglie d’altronde. Anche la lotta operaia non solo non è terminata, ma tende a perdere terreno. La battaglia delle donne è lungi dall’essere vinta, è ben lontana da un termine. E anche la battaglia per gli animali, secondo me, prenderà molto tempo.

Molé - Christine, grazie molte per le sue risposte. Continueremo a seguire il suo blog christinedelphy.wordpress.com e speriamo di rimanere in contatto e leggere altre sue nuove opere. 

Delpy - Molte grazie, Silvia.

 

https://www.radioradicale.it/scheda/539571/intervista-a-christine-delphy-sul-femminismo-materialista

 

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