365. Buon compleanno MARX

Buon compleanno Karl Marx. Avevi ragione!

 

di Jason Barker

articolo pubblicato sul NY Times il 30 Aprile 2018 (traduzione di Gustavo Laflora)

 

SEOUL, Sud Corea - Il 5 Maggio 1818, presso la città di Treviri nel sud della Germania, nella pittoresca regione vinicola della valle della Mosella, nasceva Karl Marx. A quel tempo Treviri era dieci volte più piccola di oggi, con una popolazione di circa 12.000 persone. Secondo uno dei recenti biografi di Marx, Juergen Neffe, Treviri è una di quelle città in cui "benché non tutti conoscano tutti, molti sanno parecchio di molti".

Tale provincialità non fu da freno all'incontenibile entusiasmo intellettuale di Marx. Pochi furono i pensatori radicali delle maggiori capitali europee del suo tempo che non riuscì a conoscere o con cui non si scontrò sul piano teorico, tra cui i tedeschi suoi contemporanei Wilhelm Weitling e Bruno Bauer; il "socialista borghese" francese Pierre-Joseph Proudhon, come Marx e Friederich Engels lo avrebbero etichettato nel loro "Manifeso del Partito Comunista"; e l'anarchico russo Mikhail Bakunin.

Nel 1837 Marx rinnegò la carriera legale che il padre, egli stesso avvocato, aveva predisposto per lui, per immergersi invece nella filosofia speculativa di G.W.F. Hegel all'Univeristà di Berlino. Si potrebbe dire che da lì fu tutto in discesa. Il governo prussiano, molto conservatore, non nutriva grande simpatia per tali pensieri rivoluzionari (la filosofia Hegeliana auspicava uno stato razionale liberale), e al principio del decennio successivo la carriera di professore universitario che Marx si era scelto era già stata bloccata.

Se mai si potesse portare un caso convincente a supporto della pericolosità della filosofia, sarebbe di certo la scoperta da parte di Marx di Hegel, la cui "grottesca melodia frastagliata" trovò ripugnante da principo ma che presto lo vide danzare delirante per le strade di Berlino. Come Marx confessò al padre in un'altrettanto delirante lettera del Novebre 1837, "volevo abbracciare le persone ad ogni angolo di strada."

 

Con l'avvicinarsi del bicentenario della nascita di Marx, quali lezioni possiamo trarre dalla sua pericolosa e delirante eredità filosofica? Qual è di preciso il suo contributo duraturo?

Ad oggi l'eredità sembra essere ancora viva e vegeta. Dall'inizio nel nuovo millennio sono apparsi innumerevoli libri, dai lavori accademici alle popolari biografie, che sposano la lettura marxiana del capitalismo e la sua rilevanza imperitura per la nostra epoca neoliberista.

Nel 2002 il filosofo francese Alain Badiou dichiarò, ad una conferenza cui assistetti a Londra, che Marx era diventato il filosofo della classe media. Cosa voleva dire? credo intendesse che l'opinione pubblica progressista e istruita è oggi più o meno concorde nel riconoscere che la tesi marxiana fondamentale - ossia che il capitalismo si regge sulla lotta di classe divisiva in cui una minoranza e classe dominante si appropria del plusvalore creato dal lavoro della classe operaia, in forma di profitto - sia corretta. Persino economisti liberisti come Nouriel Roubini ritengono l'idea di Marx - che il capitalismo portasse in sé una intrinseca tendenza all'autodistruzione - più che mai profetica.

Ma l'unanimità finisce qui. Mentre i più concordano sulle diagnosi di Marx riguardo al capitalismo, le opinioni su come affrontarne il "disordine" sono fortemente divise. Ed è proprio qui che risiede l'originalità e la grande importanza di Marx come filosofo.

Innanzitutto siamo franchi: Marx non ha scoperto alcuna formula magica nel portare alla luce le enormi contraddizioni sociali ed economiche che il capitalismo globale comporta (secondo Oxfam l'82% della ricchezza globale prodotta nel 2017 è andata in mano al 1% più ricco della popolazione). Tuttavia quel che Marx seppe ottenere, attraverso il suo personalissimo pensiero materialista, furono gli strumenti critici per destabilizzare la pretesa ideologica del capitalismo di essere l'unica alternativa possibile.

Nel "Manifesto del Partito Comunista", Marx ed Engels scrivevano: "La borghesia ha spogliato della loro aura le attività che fino ad allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati alle sue dipendenze."

Marx era convinto che il capitalismo ne avrebbe presto fatto reliquie. Le incursioni che l'intelligenza artificiale sta facendo nella medicina diagnostica e nella chirurgia, ad esempio, sono esemplificative della tesi del "Manifesto" in cui si sostiene che la tecnologia accelererà enormemente la "divisione del lavoro", o la dequalificazione di tali professioni.

Per meglio comprendere l'influenza globale e persistente ottenuta da Marx - un'influenza probabilmente maggiore e più ampia di qualunque filosofo venuto prima o dopo di lui - possiamo iniziare con il suo rapporto con Hegel. Cos'era dei lavori di Hegel che tanto affascinava Marx? Come confidò al padre, i primi incontri con il "sistema" di Hegel, stratificato livello su livello in negazioni e contraddizioni, non lo conquistarono appieno.

Marx notò come l'idealismo di fine '700 di Immanuel Kant e Johann Gottlieb Fichte, che tanto dominava il pensiero filosofico all'inizio del XIX secolo, desse priorità al pensiero di per sé - tanto da poter dedurre la realtà tramite il solo ragionamento intellettuale. Ma Marx rifiutò di avallare la loro realtà. In un'ironica piega hegeliana, era l'esatto contrario: era il mondo materiale a determinare tutto il pensiero. Detto con parole sue, "se prima gli dei dimoravano oltre la terra, ora ne sono diventati il centro."

L'idea che dio - o "gli dei" - abitasse tra le masse, o che fosse "in" loro, non era chiaramente nulla di nuovo in filosofia. Ma la novità di Marx consisteva nel considerare indipendente ogni deferenza idealistica - non solo verso dio ma verso qualunque autorità. Ove Hegel si limitò ad auspicare uno stato razionale liberale, Marx sarebbe passato di livello: dal momento che gli dei non erano più divini, non c'era più alcun bisogno di uno stato.

L'idea di società senza classi e senza stato avrebbe definito l'idea di comunismo di Marx e di Engels, ed ovviamente la successiva e travagliata storia degli "stati" comunisti (piuttosto ironico!) formatisi nel corso del XX secolo. C'è ancora tanto da imparare dai loro fallimenti, ma la loro rilevanza filosofica rimane a dir poco dubbia.

Il fattore chiave dell'eredità intellettuale di Marx nella nostra società del giorno d'oggi non è tanto la "filosofia" quanto la "critica", o quello che lui decrisse nel 1843 come "la critica ostinata di tutto l'esistente: ostinata sia nel non temere i risultati a cui può portare, sia nel non rifuggere il conflitto con i poteri costituiti". "I filosofi hanno solo interpretato il mondo, in vari modi; il punto è cambiarlo", scrisse nel 1845.

Le oppressioni razziste e sessiste si sono aggiunte alle dinamiche dello sfruttamento di classe. Movimenti di giustizia sociale come Black Lives Matter e #MeToo hanno una sorta di tacito debito nei confronti di Marx, nel loro impenitente bersagliare le "verità eterne" della nostra epoca. Tali movimenti riconoscono, così come fece Marx, che le idee che governano ogni società sono quelle della classe dominante, e che sovvertire queste idee è fondamentale per un reale progresso rivoluzionario.

Siamo ormai abituati al mantra d'assalto che il cambiamento sociale debba necessariamente passare dal cambiamento individuale. Ma un pensiero illuminato o razionale non è sufficiente, giacché le norme del pensiero sono già distorte dalle strutture del patriarcato e dalle gerarchie sociali, per arrivare fin giù all'uso che facciamo del linguaggio. Cambiare tali norme implica cambiare le stesse fondamenta della società.

Per citare Marx, "Nessun ordine sociale si estingue fintanto che tutte le forze produttive per le quali c'è spazio all'interno di esso si siano sviluppate, e nuove e più elevate relazioni di produzione non si avranno mai prima che le condizioni materiali della loro esistenza siano maturate nel grembo della stessa vecchia società."

La transizione verso una nuova società in cui finalmente siano le relazioni tra persone piuttosto che relazioni di capitale, a determinare la dignità di un individuo, si sta rivelando probabilmente un'ardua impresa. Marx, come ho già detto, non offre una ricetta buona per tutto a sostegno del cambiamento sociale, offre però un formidabile banco di prova intellettuale per tale cambiamento. Su questa base siamo destinati a continuare a citarlo e a confrontarci con le sue idee fino a quando la società per la quale si è tanto battuto, e che un crescente numero di noi desidera, sia finalmente realizzata.

Jason Barker è professore associato di Filosofia alla Kyung Hee University, Sud Corea, e autore del romanzo “Marx returns”

https://www.nytimes.com/2018/04/30/opinion/karl-marx-at-200-influence.html

 

 

(questa traduzione è stata fatta nel tempo libero, non è professionale, e saremo grati per la segnalazione di eventuali imprecisioni)

 

364. Passing e Sacrificio

“E’ quasi come se la persona cis “perdonasse” la persona trans solo alla luce di un “sacrificio fisico. E’ chiaro che le persone medicalizzate facciano determinati cambiamenti per il proprio desiderio di vedere la propria immagine più coerente a quella interiore, ma ciò non toglie che da fuori questo sarà visto come un sacrificio “necessario” per essere presi sul serio, come un “rituale tribale”, richiesto, affinchè il “capriccio” di essere rispettati possa essere ascoltato e accolto.”

Pubblichiamo questo bellissimo pezzo di Nathan (progetto genderqueer*) che abbiamo seguito in questi anni nel suo attivismo.

"Il mio ritiro dall’attivismo associativo ha posto in me diversi interrogativi sul mio esistere, come persona, come professionista, e come uomo, al di fuori di quei contesti.
Non ho molti transgender non medicalizzati con cui confrontarmi, nel senso che quasi nessun transgender “non medicalizzato” rivendica questa identità (spesso usano, per definirsi, concetti che non mettono al centro questa diversità, ovvero la non medicalizzazione, ma mettono al centro la visione antibinaria o altro), ma con quei pochi che conosco, quasi sempre virtualmente, il piano del confronto non è mai lo stesso, perché, di solito, hanno scelto una visibilità e un’esposizione sociale diversa (minore) della mia.

Sarebbe facile fare una crociata contro i “cattivoni” velati, ma se invece avessi sbagliato io? Non voglio essere “elogiato” come coraggioso monaco guerriero: sono estremamente infastidio da questa componente “cattocomunista” dell’attivismo, che ci vuole guerrieri senza macchia, senza vita privata, devoti alla causa e all’aiuto dell’altro, di quello un pelo più fragile di te, a cui “dovresti” sacrificare quel poco di solidità che hai ottenuto.
No, non sono qui per questo, per chiedere “la beatitudine” alla chiesa LGBT. Io sono qui per capire “perché” gli altri non medicalizzati spesso decidono di non esporsi.

Una persona che ho molto aiutato, che si autodefinisce genderfluid, ma rivendica l’appartenenza all’ombrello transgender, e parla della sua disforia, ha scelto di fare attivismo, ma di farlo con un altro cognome. Ha un cognome molto comune, e credo che avrebbe potuto presidiare il web col cognome vero senza rischiare, ma la “paura” dell’essere identificato/a come “transgender” anche da chi lo/la conosce col nome anagrafico, magari tramite canali professionali, era altissima.

Questa persona è una di quelle che, senza fare una terapia ormonale, si espone di più, maggiormente rispetto agli altri. Mediamente le persone non med che conoscono sfidano ogni giorno la “censura” di facebook, provando ad aprire account (che spesso poi vengono chiusi, a volte per “vendetta” legata a segnalazioni a facebook, da parte di persone, spesso anch’esse LGBT,  con cui litigano per argomenti di attivismo) con cognomi esotici.
A volte, queste persone, in società, vivono con aspetti androgini (questo avviene più per persone di provenienza biologica XX), a volte no (vi è un on/off nel look), ma spesso il dato allarmante è che, spento il portatile, queste persone vengono “socializzate” come appartenenti al sesso biologico.

Partiamo da quelle persone che scelgono (magari sono spinte dalla disforia), di presentarsi al mondo con una aspetto “gender non conforming”. Il caso tipico è quello della persona di biologia xx che sceglie un aspetto maschile, ma che, a causa dei “limiti biologici”, riesce ad avere un aspetto al massimo androgino, dove “androgino” non deve essere pensato come qualcosa di erotico e intrigante, perché, se si supera l’asticella del consentito, l’ambiguità viene vista come brutta, anomala, e genera sospetto.

Però, questa persona xx, se la sua androginia è “ridotta” e “controllata”, e se è molto giovane, riesce a farne un punto di forza, ad integrarsi come ragazza lesbica, bisessuale o etero alternativa.
Se invece la sua androginia sarà “eccessiva”, oltre al limite “consentito”, ottenuto dalle battaglie femministe, se il suo cranio sarà troppo tosato, se le sue gambe saranno troppo pelose, questa persona potrà sì vivere, uscire di casa senza rischiare le percosse, ma non potrà mai “integrarsi” davvero nella società, inseguire le sue aspirazioni professionali, essere percepita come “altro” rispetto allo stigma di persona “poco raccomandabile”, “strana”, “ambigua”.
Lo stesso accade, se non di peggio, alle persone non medicalizzate di provenienza xy. Esse a volte limitano la medicalizzazione, se di questo si può parlare, alla rimozione della barba tramite la terapia laser, ma, se non portatrici di un buon “passing”, esse continuano ad essere viste come uomini “strani”, magari omosessuali, magari che hanno una “vita notturna” in non si sa bene quale nightclub.

E’ facile giudicare le persone “non medicalizzate”, dimenticando quanto è difficile per loro non solo fare coming out, ma che questo coming out venga preso sul serio.

E’ quasi come se la persona cis “perdonasse” la persona trans solo alla luce di un “sacrificio fisico”. E’ chiaro che le persone medicalizzate facciano determinati cambiamenti per il proprio desiderio di vedere la propria immagine più coerente a quella interiore, ma ciò non toglie che da fuori questo sarà visto come un sacrificio “necessario” per essere presi sul serio, come un “rituale tribale”, richiesto, affinchè il “capriccio” di essere rispettati possa essere ascoltato e accolto.

Senza il passing, senza un corpo che cambia velocemente nelle sue caratteristiche biologiche legate alla percezione del sesso di appartenenza, senza un certificato di una persona cisgender che “attesta” che la persona T non stia mentendo, i coming out delle persone T non vengono presi sul serio. Deve essere sempre attesa una particolare apertura mentale: nulla è dovuto, ed è sempre un mix tra una committenza illuminata (che accoglie l’istanza), e l’intelligenza, la cultura, la sfrontatezza della persona T non medicalizzata che fa questo coming out, un uso sapiente, ponderato e scelto delle parole, di ogni singola parola.

Molte persone non med preferiscono coming out soft che alludono a questioni di antibinarismo dei ruoli, o alla compresenza di entrambi i generi, o al non avere un genere, anche quando queste persone, osservando la loro disforia rispetto al nome, o alla grammatica, sono, di fatto, persone che si identificano chiaramente nel genere opposto al loro sesso, e non in “vie di mezzo”: a darmi ragione è aver osservato per 11 anni la comunità T, virtuale e non, e avere visto che, arrivata la medicalizzazione, spesso le definizioni “non binary” venivano accantonate, proprio perché spesso usate, comunicativamente, per farsi accettare in modo meno traumatico.
Del resto anche io spesso ho preso in considerazione, in casi abbastanza complessi, un coming out “genderqueer” piuttosto che uno da uomo trans. Poteva essere un modo veloce e semplice per eliminare i comportamenti fonte di disforia (l’uso del nome anagrafico, del genere grammaticale sbagliato, di alcune aspettative da stereotipo), senza generare aspettative di genere (ovvero che, accettato il fatto di considerare quella persona del genere opposto a quello di cui la consideravano prima, si generino aspettative sulla lunghezza dei suoi capelli, sui comportamenti, sulle reazioni, spesso dovute alla poca evoluzione mentale sui ruoli che ha la persona con cui dobbiamo fare coming out).

Questa parte del mio articolo potrebbe sembrare offensiva verso genderqueer e non binary. Eppure io credo che tante persone siano genderqueer e non binary, anche tante persone medicalizzate (magari hanno scelto una medicalizzazione parziale, per esaltare un non binarismo estetico che corrisponde alla loro identità di genere non binaria), ma anche che molte persone di identità definita pensino di essere “non binary” (definizione che riguarda l’identità e non i ruoli), solo perché sono uomini o donne contro il binarismo dei ruoli di genere o non aderenti agli stereotipi del genere d’elezione (caratteristica assai diffusa tra transgender non medicalizzati).

Inoltre, è come se la definizione “non binary” o “genderqueer” desse meno fastidio nell’attivismo trans. E’ come se dire di essere “non medicalizzati” in qualche modo mettesse in discussione o “offendesse” i percorsi canonici, e i vari litigi assurdi e irrispettosi che si possono osservare nei gruppi trans di facebook, quelli in cui da anni non scrivo più, ne sono la prova.

Insomma: definirsi “transgender non medicalizzato” porterebbe problemi in tutte le comunità, sia interne che esterne al mondo LGBT, mentre definirsi queer o non binary (non essendolo), darebbe un passaporto per una grande comunità, guidata dagli Stati Uniti, che veicola parole chiave più “rassicuranti”.

Passo al tema del cambio documenti.
In Italia, se sei non medicalizzato, non puoi cambiare i documenti. In altri stati basta una semplice pratica amministrativa.
Lotterò fino alla morte affinché una persona senza passing possa cambiare legamente i documenti.
Penso, però, a me, domani, con un bel nome marcatamente maschile, e questo aspetto. Per quanto alcune persone non med, spesso molto giovani, abbiano un discreto passing (magari fasciando il petto a vita, cosa che non è che faccia poi così “bene” a lungo andare), quasi tutte non arrivano a confondersi tra i cis, me compreso, e penso che, per come la società la pensa oggi, quel bellissimo nome potrebbe creare verso di me ancora più stigma. Sarebbe un “coming out” continuo, come persona trans, ovunque io andassi, o volessi lavorare. Qualcuno, per ignoranza, mi immaginerebbe “trans al contrario”, un uomo che vuole sembrare donna e ci riesce (visto lo scarso passing), ma “chissà cosa fa di notte al nightclub“).

Poi ci sono quelle persone non med a cui basterebbe optare per un cambio nome, con la scelta di un nome ambiguo, neutro, esotico, che tolga loro la disforia, e che permetta alla persona in questione di presentarsi, in un modo molto transfobico, come appartenenti al genere d’elezione solo quando le condizioni al contorno lo permettono. Qualcuno potrebbe chiamare questa “piccola soluzione”, e io potrei anche essere d’accordo a questa opzione, se possa essere “scelta” in alternativa al “cambio di genere” come tradizionalmente concepito.
Potrebbe essere una soluzione al problema sanitario: una persona non med ha bisogno dell’assistenza medica relativa al suo sesso biologico, ed è bene che la sanità lo preveda, visto che esistono già situazioni imbarazzanti per i trans “med”, che in alcuni casi, anche loro, hanno bisogno di visite mediche relative al loro corpo di nascita.

D’altro lato, ciò che è sostenuto dalla legge, diventa automaticamente autorevole. Se da domani io fossi Arturo (nome a caso), per la legge, forse con maggiore libertà potrei vivere il mio maschile estetico, senza preoccuparmi di impelagarmi in tutti quei casi in cui la gente, leggendo il mio documento al femminile, mi guardava male per la mia sfumatura alta, o per i peli sulle gambe (anche se qui andrebbe aperta una parentesi sul perché una donna non possa scegliere un’immagine di questo tipo se lo vuole, presentandosi come donna, dopo tutti questi anni di femminismo).
Probabilmente la legittimazione legale nel genere maschile mi spingerebbe a vivere liberamente un’immagine maschile senza mille compromessi, giri di waltzer, e compagnia cantante.
In varie occasioni, in cui ero “burocratizzato” al maschile (anche solo da una tessera ad un’associazione o ad una biblioteca), molte persone mi hanno trattato al maschile perché “se c’era scritto così doveva essere così”. Non poteva essere altrimenti (magari dipende anche dalla scarsa informazione sugli ftm), non era per loro concepibile che se in quella tessera c’era scritto Nathan, io in realtà mi chiamassi in altro modo, e fossi “altro” rispetto a “uomo”.
Per questo credo fermamente che, seppur dovrebbe essere importante dare alternative “soft”, che permettano di integrarsi a persone che preferiscono un’esposizione minore, ma vogliono limitare la disforia, sia importante anche dare la possibilità di cambiare nome e genere a chi si sente pronto, senza preoccuparsi in modo paternalistico di “come faranno, poverini, ad integrarsi senza il passing”.

Tutti questi ragionamenti richiedono una sensibilità ed un’esperienza che chi ha avuto la possibilità di confrontarsi a lungo con altri transgender, anche medicalizzati (e rivendico il ruolo dei gruppi di confronto dal vivo, dove nascono spesso soluzioni inedite per i problemi di noi trans afflitti dal binarismo sociale), ha, ma non si deve pretendere che la persona “non med” sia sempre sgamata, maliziosa, portata a compromessi “funambolici” come posso esserlo io, con grande dispendio di energia.
E a dirla tutta, avrei preferito di gran lunga destinare ad altro le mie energie, magari alla mia promozione come professionista, senza dovermi preoccupare di creare un “brand” diverso dal mio nome, proprio per non dover dare spiegazioni sul perché esso differisce dal mio nome anagrafico, che spunta ogni volta che devo fare una ricevuta.
Quanto, questo stress di dover escogitare strategie sul nome anagrafico e sull’aspetto, di dover comunque fare i conti continuamente con sesso biologico, nome anagrafico, anche quando volevo pensare alla mia immagine di professionista, o, non so, di musicista semiprofessionista che fa parte di una band, mi ha scoraggiato?
Quante persone non rettificate non vanno a votare? Quanto il misgendering, l’incomprensione, la difficoltà a dare spiegazioni convincenti quando non hai il passing, azzoppa le nostre vite, la nostra autorevolezza, la nostra felicità?

E diventiamo, intendo come comunità non med, dei nomi farlocchi su facebook, continuamente funestati da chiusure dell’account, osservati dai nostri amici facebook, anche semplicemente gay, come cangianti, instabili, inaffidabili, e così anche dal mondo che ci vede fuori, quello a cui facciamo fatica a dare un nome disambiguo, italiano, semplice, che finisce con A od O, quello che non sa se ci vuole come vicini di casa, compagni di banco, o di materassino in palestra.

E così sono qui, mosso dai miei sentimenti contrastanti verso gli altri non med. Forse mi sono esposto troppo io, 10 anni fa, spinto dall’allora dirigenza dell’unica associazione che sembrava inclusiva per persone come me. Forse loro stessi si aspettavano, da parte mia, una transizione canonica che sarebbe arrivata a breve, e volevano che mi “sperimentassi” da persona esposta, ma dopo 10 anni posso dirvi che vivere da non med esposto, in uno stato che non ha delle leggi che mi tutelano per la mia diversità (soprattutto nel mio caso, per il quale, se mi si considera da sesso biologico, sono pure visto come unA eterosessuale, quindi neanche appartenente al mondo LGBT),  che non si è “abituato” alla visibilità delle persone non med (proprio perchè tutti sono velati, è un cane che si morde la coda), quindi ride ad ogni nostro coming out, lo ignora, lo “posticipa”.

Pensavo che espormi per tutti questi anni avrebbe aiutato altri non med a trovare il coraggio di esporsi, ma ne sono passati tanti. Mi hanno contattato, tempestato di domande, spesso morbose, su come riesco a vivere la mia vita, si sono fatti due conti, e hanno deciso di tornare alle loro vite in tacco dodici, da attraenti ragazze cisgender, oppure hanno fatto transizioni canoniche, mandandomi foto del petto operato mai richieste, condividendo con me la loro felicità, paternalisticamente proponendomela, per poi sparire per sempre dalla mia vita a causa di una loro scelta di vita “stealth”, e anche per il fatto che non ero mai stato loro amico, ma solo un infopoint per scegliere la strada migliore per loro.

Da un lato sono arrabbiato con tutti i vari Noah, Etienne, Pierangelo, Matthias, Dieghino e chi più ne ha più ne metta. Dall’altro, effettivamente, i non med hanno altre possibilità?
Se si presentano socialmente per il loro genere d’elezione, al netto di un interlocutore particolarmente illuminato, succede quanto ho scritto, e se si limitano ad una semplice androginia estetica, devono comunque “limitarla” (deve essere sexy e ammiccante, come quella di alcuni cantanti rock eterosessuali o di alcune donne provocanti in cravatta e con taglio sbarazzino) per non venir visti come scherzi della natura, ed esclusi da occasioni professionali e di inclusione sociale.

A questo punto cosa dire a questi ragazzi?
Se nessuno di noi è visibile, l’opinione pubblica non si abituerà mai al fatto che esistiamo. L’immaginario del mondo trans sarà sempre legato al passing, e le persone penseranno che sia una conditio sine qua non per essere rispettati nel proprio genere.
Se però le persone non med uscissero dai loro account con meravigliosi cognomi esotici, e cominciassero a vivere apertamente come transgender, allora forse negli anni, nei decenni, le cose cambierebbero.
E’ avendo un viso gentile, una voce sottile, ma dicendo “sono uomo”, avendo una voce profonda e un viso spigoloso e dicendo “sono donna”, che nelle coscienze cambierà qualcosa. I primi ci sbatteranno il muso, come forse è in parte successo a me, ma col tempo non sarà più così strano.
Siete abbastanza altruisti per fare un sacrificio che forse non avrà effetto nelle vostre vite, ma in quelle di chi verrà dopo di voi?
Molti di noi non riusciranno ad essere genitori, ma forse anche noi possiamo vivere questo “passaggio di consegne” coi nostri figli putativi.

E ora lasciate andare in pensione un vecchio, largo a voi, giovani. Riprendete le fila dove io le ho lasciate, esponetevi, fate “transizionare” la società insieme a voi."

 

https://progettogenderqueer.wordpress.com/2018/03/10/percorsi-non-medicalizzati-coming-out-velatismo-esposizione-sociale/

 

 

 

363. Credere alle cazzate

"Questo genere di uso della domanda: "Che cos'è la verità?" è l'equivalente intellettuale del gettare la polvere negli occhi del vostro avversario per squagliarvela rapidamente. Quando la discussione si mette bene per noi, in genere siamo ben lieti di dire che abbiamo ottimi motivi per pensare che sia vero quello che crediamo. Solo quando le cose cominciano ad andar male ci capita improvvisamente di chiedere: "Sì, ma che cos'è la verità?!"

Abbiamo acquistato "Credere alle cazzate", di Stephen Law, Ed. Nessun Dogma e proponiamo a seguito una recensione di Marco Trainito, comparsa sul quotidiano di Gela (*)

Il progetto editoriale “Nessun Dogma. Libri per menti libere”, avviato da alcuni anni dall’Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti), mira a offrire un catalogo di testi improntati a una visione laica del mondo. Accanto ad alcuni classici, come la monumentale storia dell’ateismo di Fritz Mauthner e il celebre pamphlet ateo del poeta inglese Percy B. Shelley, “Nessun Dogma” pubblica soprattutto opere recenti di studiosi di varia formazione accomunati dall’approccio razionalistico ai problemi trattati, che ruotano solitamente attorno alla filosofia della religione e al nesso tra certe credenze irrazionali tramandate dalla tradizione e l’immagine delle cose che oggi ci offre la scienza.
 
Vorrei soffermarmi qui su uno di questi libri, tradotto nel 2015 con il titolo (aderente all’originale) “Credere alle cazzate. Come non farsi risucchiare in un buco nero intellettuale”.  Pubblicato originariamente nel 2011, ne è autore Stephen Law, un affermato filosofo inglese che insegna all’Heythrop College dell’Università di Londra.  Ne parlo perché, a mio modesto avviso, in un mondo purtroppo ancora utopico, più razionale, scettico e umile, nessuno dovrebbe avere il coraggio di discutere di alcunché – per strada, al bar, sui social network, in un pubblico dibattito, a scuola, ecc. – senza prima aver letto un libro come questo. Per “Nessun dogma”, va notato, ne sono usciti almeno altri due analoghi, anch’essi pubblicati per la prima volta nel 2011, “Perché crediamo in Dio” di J. Anderson Thomson, con prefazione del celebre biologo inglese Richard Dawkins, e “Homo credens” di Michael Shermer, con prefazione del compianto scienziato cognitivo italiano Vittorio Girotto, scomparso prematuramente nel 2016 e coautore, insieme a Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara, di “Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin”, uscito per Codice Edizioni nel 2008 e considerato uno dei migliori testi divulgativi sul tema. 
 
Il libro si ispira evidentemente al fortunato “Stronzate. Un saggio filosofico” (Rizzoli 2005) di Harry G. Frankfurt, che Law cita nell’introduzione per doveroso omaggio, anche se chiarisce che su alcune cose non è d’accordo e si propone di andare oltre. Un altro punto di riferimento imprescindibile è “L’illusione di Dio” (Mondadori 2007) di Dawkins, uscito nel 2006, ormai una pietra miliare del cosiddetto “Nuovo ateismo”, citato diverse volte da Law e discusso nei dettagli soprattutto nel primo capitolo. 
Nel suo lavoro Law illustra sostanzialmente le otto strategie retoriche (una per capitolo) attraverso le quali riusciamo senza accorgercene a farci risucchiare nel buco nero intellettuale di certi sistemi di credenze che, pur non essendo necessariamente delle “cazzate” nei contenuti specifici, lo sono nel modo in cui questi ultimi vengono sostenuti e giustificati. Completano il volume la conclusione e un’interessante appendice narrativa di cui dirò in chiusura.
Quali sono, secondo Law, queste otto strategie subdole con le quali trasformiamo la nostra mente, o quella di qualcuno che magari vogliamo sottoporre a lavaggi del cervello, in una sorta di prigione da cui è quasi impossibile fuggire? Eccole nel preciso ordine in cui sono esposte nel libro.
 
1. GIOCARE LA CARTA DEL MISTERO. È una mossa classica: appena si è messi alle corde con argomentazioni che smascherano l’inconsistenza scientifica di una certa credenza, si tira fuori la carta che fa appello alle numerose questioni che sfuggono alla scienza, mettendo così al riparo la credenza irrazionale sotto il manto del mistero. Se poi si intende trionfare sull’avversario razionalista, si esibisce la ben nota citazione shakespeariana tratta dall’“Amleto”: “Ci sono più cose in terra e in cielo, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.  Questa citazione piace tantissimo, per esempio, a chi ha una  mente pretesca o comunque da aspirante guru.
2. “MA QUADRA!” E IL TROMBONE. La nostra tendenza innata a cercare conferme per le nostre credenze rende difficile capire che qualunque teoria strampalata può essere messa d’accordo con un insieme grande a piacere di fatti noti. Per essere davvero credibili sul piano scientifico, però, non basta far quadrare i conti, cioè far concordare una teoria con dei dati disponibili, ma occorre fare delle previsioni precise e rischiose, la cui smentita può seriamente compromettere la teoria (Law qui si serve esplicitamente del falsificazionismo di Karl Popper). Chi si aggrappa al “Ma quadra!” spesso ricorre anche al trucco che Law chiama “trombone”, dal nome di un antico schioppo dalla bocca svasata. Esso consiste nell’investire l’interlocutore con una scarica di problemi che sono o non pertinenti o inventati. Per esempio, chi difende il creazionismo biologico spesso chiede all’interlocutore darwinista di spiegargli come si è formata la prima molecola organica, ben sapendo che si tratta di un problema ancora insoluto per la scienza (e forse insolubile) e dando a credere che tale “mistero” porti acqua al mulino del mito biblico della creazione della vita sulla terra.
3. RICORSO AL NUCLEARE. Si tratta di un’arma retorica tanto potente quanto intellettualmente disonesta. Per troncare la discussione e mettere al riparo anche la più assurda delle credenze, basta sganciare la bomba filosofica che fa appello allo scetticismo e al relativismo. Se, infatti, si dice (con argomentazioni anche valide)  che tutte le credenze sono incerte, allora si azzera la discussione asserendo che anche le teorie scientifiche contengono un residuo di fede dogmatica in qualcosa (per esempio nella ragione). Analogamente, chi si appella al relativismo salva tutte le credenze assegnando loro una verità relativa inaccessibile ai metodi di verifica provenienti da altri sistemi concettuali. In tal modo esisteranno, per esempio, “verità di fede” e “verità di ragine” non confrontabili (e si noti la disonestà di quest’ultima mossa, soprattutto quando a ricorrervi è chi, per altri versi, sostiene che esiste una sola Verità: la sua).  La medaglia d’oro nella gara tra bombaroli la vince il fedele che conclude una discussione con l’ateo dicendo, per screditarlo: “Beh, anche l’ateismo è una fede”. 
4. SPOSTARE I PALI SEMANTICI. Una buona tecnica per difendere credenze vaghe e infondate è cambiare continuamente il significato dei termini-chiave nel corso della discussione. Un caso classico è la parola “dio”. Quando il credente di una qualche religione rivelata è in difficoltà, può sempre dire che lui non intende la parola nello stesso significato in cui la intende l’interlocutore, il quale magari cerca di rendere il discorso concreto ed empiricamente controllabile. Alla fine di questo gioco linguistico c’è l’esibizione della matta: il credente dice che ciò in cui crede è un’esperienza ineffabile, dimenticandosi di aver in precedenza snocciolato tutta una serie di tratti positivi attribuiti all’oggetto misterioso della sua credenza. 
5. “LO SO E BASTA!”. Non di rado si vede qualcuno rivendicare il diritto di avere un accesso privilegiato a certe conoscenze, cioè di essere in grado di sapere con certezza qualcosa per la quale non è in grado di fornire giustificazioni razionali. È tipico, per esempio, di chi crede nel paranormale e nelle apparizioni di certi personaggi del proprio pantheon. La cosa interessante, qui, è che di solito chi ricorre a questa mossa sa che essa, in altri contesti, è propria di chi nella migliore delle ipotesi è vittima di un’illusione. Per esempio, un cattolico è disposto a convenire che chi crede di ricevere ogni notte la visita degli dèi greci è molto probabilmente  affetto da qualche disfunzione neurologica; ma allora dovrebbe avere almeno il sospetto che dare credito alla mossa “Lo so e basta!” quando si tratta della visione, per esempio, della Madonna non sia molto ragionevole.
6. PSEUDOPROFONDITÀ. È lo stratagemma tipico di guru, santoni e filosofi oracolari. Basta costruire formule linguistiche che mescolano ovvietà e falsità palesi per creare nella mente dell’interlocutore un cortocircuito che lo spinge a sospettare la presenza di verità profondissime. Qui Law cita un esempio proposto dal filosofo americano Daniel Dennett, il quale a tal proposito parla di “deepity” (“profonditudine”): «Amore è solo una parola». È ovvio che la parola amore è solo una parola, ma è banalmente falso che il sentimento relativo sia una parola, eppure sembra che l’enunciato esprima un pensiero profondo. Analogamente, si veda su Youtube una breve intervista al famoso maestro spirituale Osho in cui costui, con la massima gravità, sentenzia che il domani non esiste e che quindi tutto è presente qui ed ora.
7. ACCUMULARE I RACCONTI. Tutti conosciamo la potente persuasività dei racconti aneddotici su certi eventi sorprendenti. Le scienze cognitive oggi studiano le ragioni strutturali ed evolutive che spiegano la  grande vulnerabilità della mente umana di fronte alla forza probatoria delle cosiddette testimonianze, cui non a caso ricorrono massicciamente imbonitori e ciarlatani di ogni risma. Da un punto di vista logico, però, nessun racconto sui fantasmi, sui rapimenti degli alieni, sui miracoli ecc. prova alcunché, eppure in molti difenderebbero fino alla morte credenze sull’anima, sugli extraterrestri e su certe divinità quasi esclusivamente basate su storie di tal fatta passate di bocca in bocca.
8. PREMERE I PULSANTI. Come ultima strategia Law prende in considerazione quelle tecniche di pressione psicologica che servono per inculcare certe credenze e che, se usate sistematicamente secondo protocolli collaudati, portano al lavaggio del cervello. Sono tecniche molto popolari presso certe sette religiose e i regimi totalitari (non a caso Law cita qui l’Orwell di “1984”) e sono accomunate dal fatto di essere del tutto insensibili alla verità, perché ciò che conta è che quello che viene inculcato venga creduto come vero. Esse sono cinque: l’isolamento del soggetto, il suo controllo, l’induzione di un senso di incertezza su tutto il resto, la ripetizione e la manipolazione emotiva.
 
Nella Conclusione di questo libro davvero brillante e accessibile a tutti, Law specifica il modello mostrando come le otto strategie si combinino variamente in un gruppo di credenze tipiche. Esse, infatti, non si presentano mai da sole, e per risultare veramente efficaci hanno bisogno, di volta in volta, di coalizzarsi. E così vediamo come l’omeopatia si serva di 1 e 7; le teorie del complotto di 1, 2 e 7; il rapimento degli alieni di 1, 5 e 7; le chiacchiere sull’auto-aiuto (come avere successo, come fare soldi, ecc.) di 2, 6 e 7; i poteri paranormali e le visite degli angeli di 1, 3, 5 e 7; le profezie di Nostradamus di 2, 6 e 7; le teorie generali di carattere politico ed economico di 2, 7 e 8; una certa teologia raffinata di 1, 3, 4, 5 e 6; la credenza dell’amica evangelica di 1, 5, 7 e 8.
Si noti, di passaggio, come la strategia 7 sia quasi onnipresente; un fatto, questo, che racconta molto sulla particolare storia evolutiva del nostro cervello chiacchierone, tendenzialmente animista e affamato di storie con agenti di ogni tipo.
 
L’Appendice letteraria, infine, è un vero pezzo di bravura. Ispirandosi a un classico della letteratura inglese, le “Lettere di Berlicche” (1942) dello scrittore C. S. Lewis, Law immagina una parodia epistolare dal titolo “Le lettere di Berlocche”. Qui, un’anziana guru chiamata Agatha Berlocche scrive sette lettere a un giovane guru, suo nipote Vermiglione, per istruirlo sul modo di irretire una giovane donna insoddisfatta di trentadue anni e trasformarla in una fanatica adepta del loro improbabile culto religioso applicando puntigliosamente e sistematicamente le tecniche di manipolazione illustrate nel testo. Nel libro di Lewis è un vecchio diavolo, Berlicche, che attraverso trentuno lettere cerca di istruire il giovane nipote, il diavolo Malacoda, sul modo di dannare un giovane essere umano, allontanandolo dal dio cristiano. E come qui l’imprevisto – la conversione del giovane “paziente” al cristianesimo – manda all’aria il piano dei diavoli, analogamente nella parodia di Law è l’imprevista apparizione di un fratello della “paziente”, uno scettico che la inizia al pensiero critico, a far fallire il progetto dei guru del culto del dio Glub.

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https://www.quotidianodigela.it/come-smascherare-i-venditori-di-schiocchezze/

 

 

 

 

 

362. Dare voce alle ribelli locali

Proponiamo qui la traduzione di un interessante articolo che non da ultimo ci sentiamo di condividere per la scarsa visibilità data in spazi femministi alla protesta delle ribelli iraniane contro il velo obbligatorio (white wednesdays). Siamo consapevoli del fatto che il femminismo venga spesso strumentalizzato in chiave xenofoba e autoritaria, ma la lotta a tale strumentalizzazione non può neanche condurre all'oscuramento quasi totale delle ribelli locali. Di questa autrice non condividiamo l'impostazione di base su molti aspetti del femminismo o sul femminismo in generale (come si evince da altri articoli), ma in questa riflessione ha colto a nostro avviso un punto importante.

 

Traduzione di Giovanni Fanfoni

Sul carattere essenzialmente occidentale del femminismo intersezionale[1]

 

Le femministe intersezionali sbagliano con le donne musulmane, sopravvalutando le differenze rispetto alla comune appartenenza all’umanità e trascurando, o giustificando, gli abusi che subiscono all’interno delle loro stesse comunità.

Traduzione divulgativa (non professionale) dell’articolo “The Western-Centric Nature of Intersectional Feminism” di Helen Pluckrose https://conatusnews.com/western-centric-intersectional-feminism/

Molti critici del femminismo intersezionale hanno accusato le sue esponenti di non preoccuparsi del benessere delle donne musulmane. Questo non è del tutto vero, ma è facile capire perché hanno avuto questa impressione. Ad esempio, è stata molto contestata la mancanza di supporto alla campagna #StopEnslavingSaudiWomen nonostante la sua ampia diffusione con tweet in lingua inglese.

Tweet n.1 https://7905d1c4e12c54933a44d19fcd5f9356-gdprlock/amal_l_o/status/862298965261381636

Tweet n.2 https://7905d1c4e12c54933a44d19fcd5f9356-gdprlock/WCFSW/status/860794329681592324

In tale occasione, le femministe intersezionali sono state accusate di ignorare in gran parte un sistema di oppressione inequivocabilmente patriarcale, qual è il sistema dei guardiani in Arabia Saudita, mentre sono pronte a rintracciare la presenza del patriarcato in molti aspetti della loro società, dalle molestie per strada alla gestione delle emozioni[2].

Tweet n.3 https://7905d1c4e12c54933a44d19fcd5f9356-gdprlock/ggeorginattyson/status/835599196736585728

Tweet n.4 https://7905d1c4e12c54933a44d19fcd5f9356-gdprlock/AnnaLarsianna/status/789826170586103808

D’altra parte, i tentativi delle femministe non intersezionali e degli attivisti dei diritti umani per mettere in discussione le violenze commesse in nome della cultura dell’onore vengono spesso bloccati dalle femministe intersezionali, che cambiano immediatamente argomento per parlare delle violenze domestiche subite dalle donne occidentali.

Qualsiasi conversazione sull’orrore delle mutilazioni genitali femminili rischia di essere dirottata sui pericoli che le ragazze stanno correndo attualmente o su una lezione a proposito delle origini pre-islamiche di tale pratica. Ogni tentativo di considerare il carattere discriminatorio del coprirsi il capo per mostrare modestia finirà quasi certamente col provocare la risposta secondo cui le donne musulmane eserciterebbero la propria libertà di scelta e sarebbero magicamente libere da quelle paralizzanti pressioni sociali che le femministe occidentali sostengono invece di subire. Quando una petizione per la criminalizzazione delle molestie per strada e di altri abusi dovuti all’appartenenza di genere https://goo.gl/G5oKEa raccoglie più di 58.000 firme, mentre un’altra petizione per il rafforzamento delle misure di contrasto delle violenze dovute alla cultura dell’onore https://goo.gl/2CT6D5 ne raccoglie solo 406 (e quindi non può essere proposta al Parlamento), si può finire col mostrare comprensione per chi pensa che le femministe occidentali non musulmane si preoccupano soltanto di se stesse.

Tweet n.5 https://7905d1c4e12c54933a44d19fcd5f9356-gdprlock/6siders/status/778300153400848385

Tweet n.6 https://7905d1c4e12c54933a44d19fcd5f9356-gdprlock/Sarah_Zundel/status/778409265002188800

Tuttavia, pensare così sarebbe un errore, almeno in parte.

Il problema non nasce dalla convinzione per cui le femministe occidentali non musulmane sarebbero più importanti delle donne musulmane. È molto più complicato di così. Con l’avvento della Critical Race Theory[3], degli studi post-coloniali e della intersezionalità, tutti ispirati al post-modernismo, l’interesse principale della corrente dominante del femminismo si è spostato dai diritti umani universali e dalla sorellanza[4] al relativismo culturale e alle politiche dell’identità. I princìpi universali dei diritti umani, della libertà e dell’uguaglianza sono stati subordinati al riequilibrio della storica ingiustizia occidentale verso il mondo orientale.

A questo proposito, gli studi postcoloniali e il concetto di Orientalismo sono fondamentali. I primi sono un ramo della teoria critica della società[5] che studia le conseguenze del colonialismo e dell’imperialismo, nonché dei comportamenti e dei discorsi che esse innescano. Il secondo, invece, si riferisce a quell’atteggiamento occidentale per cui l’Oriente viene visto come esotico, misterioso, violento, primitivo, ingannevole, lussurioso e pagano. Aveva ragione Edward Said quando nella sua opera rivoluzionaria (intitolata appunto Orientalismo) scriveva così: “Sostenere semplicemente che l’Orientalismo fosse una razionalizzazione a posteriori del dominio coloniale significa ignorare fino a che punto tale dominio venisse giustificato a priori dallo stesso Orientalismo.” Ogni testimonianza scritta che sia compresa tra il Medioevo e la metà del XX secolo ritrae il mondo orientale in questo modo, sebbene occorrerebbe notare come tra il XIV e XVII secolo l’impero Ottomano fosse una potenza mondiale e avesse a sua volta molti stereotipi sull’Occidente. Sta di fatto che l’idea di una intrinseca superiorità occidentale dal punto di vista morale e razionale costituì una giustificazione per l’imperialismo, il dominio e lo sfruttamento.

Quando il cambiamento culturale a favore dell’uguaglianza e dell’universalità dei diritti umani cominciò ad emergere, provocando la nascita del movimento dei diritti civili, la seconda ondata del femminismo e il Gay Pride, idee simili cessarono di essere moralmente sostenibili. L’universalità del liberalismo rifiutava l’idea collettivista dell’identità culturale, reclamava la parità tra persone in quanto individui e forniva le medesime opportunità di accesso a ciò che il mondo occidentale offriva. Tuttavia, con l’avanzare della teoria critica della società, e in particolare del postmodernismo, tutto questo cominciò a essere messo in questione. Si cominciò a sostenere che l’universalità del liberalismo, fondato su valori laici e libertari, esprimesse in fondo valori occidentali, benché esistessero persone laiche e libertarie ovunque nel mondo. Dato che in altre culture le idee religiose e conservatrici erano dominanti, continuare a promuovere il liberalismo veniva considerato come il proseguimento dell’affermazione di superiorità dei valori occidentali su tutti gli altri.

Di più, secondo questo nuovo punto di vista ci sono alcuni errori da correggere. Per la teoria critica della società, che si richiama ampiamente alle idee costruttiviste del postmodernismo, i discorsi formano le realtà sociali e determinano i comportamenti degli individui, diventando conoscenza che richiede di essere decostruita affinché venga disimparata. Quindi non si tratterebbe soltanto di ammettere che “Finora abbiamo sbagliato sottovalutando e opprimendo le donne, le persone che non hanno la pelle bianca, le persone LGBT, e per questo dobbiamo costruire una società dove ciò non accada mai più”. Ci sarebbe invece un intero sistema di pensiero che deve essere smontato e riscritto, prima che si stabilisca un nuovo equilibrio. Si tratta delle idee di genere, sessualità, razza, cultura. Come afferma E.Said, rielaborando alcuni concetti foucaultiani: ”La mia tesi è che, siccome la storia è fatta da uomini e donne, può essere anche disfatta e riscritta, ogni volta con diverse omissioni, ogni volta con immagini imposte e deformazioni tollerate, al punto che i nostri Orienti tornano in nostro possesso e vengono da noi decisi.” 

Perciò in questa forma di attivismo si riscontra una forte pressione ad amplificare e promuovere le idee, l’arte, le credenze e le narrazioni storiche che sono non-occidentali, nonché a svalutare quelle che sono occidentali. Solo così, si spera, uno squilibrio che viene percepito come resistente nella cultura dominante e interiorizzato dagli occidentali potrebbe essere ricomposto.

Tutto questo sembra molto positivo in teoria, ma sfortunatamente in pratica sfocia nella creazione di stereotipi culturali che sono, a dirla tutta, orientalisti, ovvero tali da riprodurre il pregiudizio che cercano di sconfiggere, rinforzando cioè le idee secondo cui la ragione, la scienza e il liberalismo sarebbero esclusivamente per gli occidentali. Non si tratta solo di un esito discriminatorio, ma anche sbagliato. Il Regno Unito, in particolare, soffre di una mancanza di interesse dei suoi abitanti per gli studi scientifici, costringendo il paese ad attirare medici, scienziati e ingegneri dall’India, dal Pakistan e dalla Nigeria: il 10% dei medici del sistema sanitario inglese è costituito da indiani o britannici di origini indiane, benché questo gruppo sociale rappresenti appena il 2.3% della popolazione. C’è da chiedersi cosa farebbero dell’approvazione inglese verso chi sostiene che “La scienza nel suo complesso è un prodotto della modernità occidentale e perciò andrebbe cancellata, riconoscendo piuttosto l’importanza dei paradigmi conoscitivi degli indigeni”, inclusa la stregoneria.

Il problema di questo approccio è che non ammette che i popoli del mondo sono sì diversi, ma condividono molti valori, per cui finisce col prendere in considerazione solo le culture non-occidentali che più differiscono dagli aspetti caratterizzanti il mondo occidentale. Già è offensivo e presuntuoso sostenere che l’idea moderna della conoscenza (la scienza, la ragione, la tecnica) sarebbe unicamente occidentale, diventa anche pericoloso quando si sostiene che lo sono le idee morali (il liberalismo universale, la laicità, la democrazia, l’uguaglianza). Tale atteggiamento costringe i popoli non-occidentali nella soffocante, antiscientifica, irrazionale, illiberale, superstiziosa e oppressiva immagine che si cercava di condannare in quanto orientalista. Lo stesso atteggiamento che è alla base degli attacchi contro i musulmani progressisti e agli ex-musulmani, accusati di essere stati addomesticati.

È fondamentale riconoscere che tutto questo non è solo estremamente razzista, ma è anche un modo per continuare a interpretare ogni cosa dal punto di vista occidentale, imponendo un’identità limitante sugli altri. I teorici postcoloniali e gli attivisti che si ispirano a essi stanno continuando a definire l’Oriente, ad avere il controllo della narrazione, a guardare verso i popoli non-occidentali come complementari a quelli occidentali, che restano la pietra di paragone. Semplicemente sono passati dal considerare l’Occidente come l’unico posto al mondo dove fioriscono la scienza, la razionalità e l’etica liberale, intese come positive ed emancipatrici, al considerarlo come l’unico posto in cui fioriscono i suddetti fenomeni, salvo che ora sono ritenuti negativi e intrinsecamente oppressivi.

Questo atteggiamento è in larga parte dovuto a un tentativo di riequilibrare le discriminazioni che subiscono alcune minoranze all’interno dei paesi occidentali. Tuttavia, esso deriva anche da un cambiamento del concetto che l’Occidente ha di sé e da come le Sinistre preferiscono considerare se stesse, mostrando quindi un ampio grado di narcisismo. Un tempo, lo sguardo imperialista era rassicurante, così gli occidentali potevano raccontare a se stessi che stavano offrendo valori positivi e un qualche ordine a popoli meno illuminati. Ora invece, presso un certo tipo di Sinistra risulta rassicurante il risveglio postcoloniale che prova vergogna per le azioni perpetrate dai progenitori, compiacendosi del senso di colpa e di una nuova consapevolezza degli errori compiuti, per cercare di porre rimedio a essi. Sfortunatamente, ciò richiede l’adeguamento della parte offesa ad agire in modo complementare rispetto all’Occidente, per cui solo coloro i quali condividono questa immagine manicheista e semplicistica della loro stessa cultura e di quella occidentale ricevono sostegno.

Nel tentativo di valorizzare le culture orientali, le attiviste del femminismo intersezionale decidono cosa possa essere autentico e cosa sarebbe imposto dagli occidentali. Così, elementi culturali ritenuti positivi o neutri (l’abbigliamento, l’arte, le esperienze spirituali o il simbolismo) vengono spesso trasformati in feticci e messi fuori discussione, mentre gli aspetti negativi (il fondamentalismo religioso, la violenza settaria, l’instabilità politica) sono considerati come un mero prodotto degli interventi occidentali. Il fatto che i paesi orientali abbiano una storia lunga e complessa, ricca di valori religiosi e culturali consolidati che esistono indipendentemente dai paesi occidentali viene ampiamente trascurato. Questo modo di pensare limita fortemente le persone che desiderano affrontare argomenti simili e spesso finisce col zittire e denigrare i tentativi degli ex-musulmani, dei musulmani riformisti o progressisti di criticare la propria religione e la propria cultura.

Quando si tratta di quei valori che non possono essere considerati positivi, né possono essere plausibilmente attribuiti alle interferenze militari dei paesi occidentali (la disuguaglianza di genere, la violenza del codice d’onore contro le donne, la persecuzione delle persone  LGBT), gli attivisti, che sostengono le teorie postcoloniali, finiscono di solito col tentare di minimizzare il problema, cercando di ricondurre tali valori a prodotti di un patriarcato universale, misogino e omofobico. Ciò appare ai loro critici un tentativo egoistico di sentirsi in colpa alle spese delle donne e delle persone LGBT che soffrono una grave e spesso esiziale oppressione nel mondo islamico, così come in altre culture intensamente religiose. Tuttavia, le attiviste sono così intente nel dare importanza e difendere i diritti di quella che, nei paesi occidentale, costituisce una minoranza, da non supportare, se non addirittura da ostacolare, le minoranze dei difensori dei diritti umani, delle femministe, dei sostenitori dei diritti delle persone LGBT e dei progressisti che vivono nei paesi islamici e nelle comunità musulmane.

Post Fb n.1 https://goo.gl/oyHkJZ

A questo punto è chiaro come le femministe intersezionali non soffrono di una mancanza di attenzione verso le donne musulmane, ma sono fortemente concentrate sulla pur importante causa del contrasto all’odio anti-islamico, specialmente se colpisce le donne, ovvero quello che è uno dei segnali più visibili dell’essere musulmani: l’hijab. Ci sono numerose e preoccupanti denunce di abusi e persino violenze contro le donne che lo indossano. Di conseguenza, molte femministe hanno scritto articoli in difesa dell’hijab, presentandolo come un oggetto compatibile col femminismo e arruolando le donne che lo indossano come attiviste dei diritti delle donne, nonostante il fatto che molte donne musulmane che vivono nei paesi occidentali non lo indossano e molte femministe musulmane, come anche non musulmane e progressiste, criticano l’hijab a causa del carattere discriminatorio del concetto di “modestia” che evoca.

Tweet n.7 https://7905d1c4e12c54933a44d19fcd5f9356-gdprlock/SarahTheHaider/status/775874403187982336

Tweet n.8 https://7905d1c4e12c54933a44d19fcd5f9356-gdprlock/aliamjadrizvi/status/873208658783555589

Poiché le femministe protestano ovunque, dall’Iran all’Arabia saudita, contro l’obbligo di portare l’hijab e, in molte altre parti del mondo, denunciano le pressioni per indossarne uno e contestano il concetto di modestia femminile, desta preoccupazione vedere che le femministe occidentali, nella loro fede cieca per l’intersezionalità, rinforzano tali abusi. Si potrebbe dire che stiamo esagerando e che in fondo le loro intenzioni sono buone. Tuttavia, la ristrettezza di vedute con cui le femministe affrontano questioni sulle quali le donne musulmane dissentono chiaramente e la loro tendenza a impegnarsi solo quando vi sono abusi da parte dei bianchi non musulmani rischiano di produrre conseguenze ancora più gravi.

In Inghilterra e nel Galles, ci sono state 4.400 denunce di reati d’odio commessi per motivi religiosi nel 2015/2016, per lo più senza danni, ma non perciò meno gravi, ed è ragionevole supporre, dato che si è trattato spesso di picchi seguiti ad attentati terroristici di matrice islamista, che la maggior parte delle vittime fossero musulmane. Questo è un problema grave che non va trascurato, ma non è l’unico rischio che corrono i musulmani britannici, per cui dovrebbero preoccuparsi le femministe. Infatti, la polizia ha registrato 11.000 casi di crimini legati al codice dell’onore tra il 2010 e il 2014: dalle percosse ai rapimenti, fino ai femminicidi. I dati sono considerati parecchio inferiori all’entità del fenomeno. Inoltre, sono stati registrati 5.700 casi di mutilazioni genitali femminili nel periodo 2015/2016, 1.428 casi di matrimoni forzati (minacciati o realizzati) solo nel 2016, dove le vittime erano per lo più femmine. Anche per questi dati si stima che i valori siano molto inferiori alla realtà. Tutti questi comportamenti, che provocano gravi danni fisici, se non la morte, e comunque la perdita della libertà, costituiscono gravi violazioni dei diritti umani. La preoccupazione delle femministe intersezionali per il fatto che denunciare pubblicamente gli abusi commessi contro le donne musulmane da altri musulmani possa generare ulteriore odio nei loro confronti non è infondata, anzi va presa sul serio, tuttavia queste violazioni dei diritti umani devono essere affrontate comunque. Il modo migliore per farlo è offrire il proprio supporto a quanto stanno già facendo le femministe, i progressisti e i riformisti (ex-)musulmani.

Sarebbe un errore pensare che le femministe intersezionali che sottovalutano le violazioni dei diritti umani commesse in nome dell’Islam siano indifferenti al benessere delle donne musulmane e desiderino invocare lo status di vittime solo per se stesse, tuttavia sarebbe un errore comprensibile. In realtà, il femminismo intersezionale finisce con l’essenzializzare e valorizzare, esaltare e romanticizzare gli stereotipi culturali di gruppi minoritari, concentrandosi solo sugli abusi commessi da persone bianche e occidentali, a causa del desiderio di raddrizzare i torti del passato e le loro persistenti conseguenze. Inoltre, tale femminismo desidera costruire, in modo autolesionista, una nuova identità occidentale progressista che risulta narcisista, divisiva e essenzializzante. In questo modo, esso impedisce alle femministe musulmane ed ex-musulmane, progressiste e riformatrici di criticare e di cambiare la loro religione e la loro cultura, domandando loro di non farlo. Inoltre, distoglie l’attenzione dal fatto di appartenere a una sola umanità, dal valore dell’individualità e dai tentativi di costringere le persone all’interno di stereotipi culturali. Tutto sommato, è un femminismo occidentalizzante e orientalistico, incapace di difendere i diritti delle donne e la loro libertà in modo coerente. Per favore, lasciate perdere.


[1] NdT: breve articolo divulgativo sul concetto di intersezionalità https://goo.gl/w4JbKY

[2] NdT: emotional labour indica lo sforzo e il controllo necessari per dare espressione a quei sentimenti che un’organizzazione considera positivi e utili ai propri scopi cit. Mario Perini, L’organizzazione nascosta, Franco Angeli 2007, p.85

[3] NdT: una teoria critica del diritto, che non solo ne sveli i presupposti e i meccanismi di conservazione del potere, ma ne smascheri i pregiudizi razziali cfr. http://www.juragentium.org/forum/race/it/moschel.htm 

[4] NdT: Sisterhood mutuato dalla terza parola del famoso motto della rivoluzione francese: Fraternité

 

 

 

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