353. Il virus di Giulio Giorello

 

 

Sul Corriere della Sera del 29 maggio troverete un inserto nel quale si parla di sperimentazione animale. Ampio spazio è dedicato al filosofo Giulio Giorello (che argomenta a supporto) e un trafiletto al filosofo antispecista Leonardo Caffo.

Il tema della sperimentazione animale è molto complesso e delicato e in questa sede mi interessa unicamente evidenziare -  a titolo di brainstorming -   le banalizzazioni cui è giunto Giulio Giorello (filosofo che peraltro stimo assai in altri campi di sua competenza) nell’argomentare a favore di un testo i cui autori sono Gilberto Corbellini e Chiara Lalli, “Cavie?”. Il percorso argomentativo è prevalentemente basato sul tentativo di fare presa sull’emotività del pubblico dandone per scontata la scarsa conoscenza degli argomenti trattati.

L’articolo comincia infatti con un vecchio cavallo di battaglia degli hater antianimalisti, che viene riproposto in infinite varianti, quello dell’incoerenza. Come si può essere contrari alla sperimentazione animale nel momento in cui si mangiano bistecche, si chiedono ad esempio gli autori di “Cavie”,  e lo stesso Giorello. Porre questo quesito significa sostanzialmente essere fuori della storia e non aver minimamente compreso la portata del pensiero antispecista che si sta affermando, lentamente ma inarrestabilmente, come nuovo paradigma del nostro tempo. Vale a dire, molti di coloro che si pongono criticamente nei confronti della  sa hanno coerentemente scelto  ANCHE percorsi di tipo veg e sono impegnati o sono sensibili  in OGNI campo (circhi, zoo, caccia …) riguardante i diritti degli animali. Dovessimo poi tracciare una linea dell'orrore, dal punto di vista della sofferenza animale, la sperimentazione animale o buona parte di essa (metastasi sperimentali e simili) meriterebbe in ogni caso il posto d'onore, pur con tutte le precauzioni che i ricercatori seri possono prendere.

Giorello afferma che una sperimentazione assolutamente priva di scrupoli sarebbe comunque da condannare, eppure non entra nel dettaglio e sarebbe necessario farlo, caso per caso e già in fase teorica e in ottica di limitazione progressiva, anche a livello legislativo.  In quanto se partiamo dal mero concetto di “utile” ci sarà permesso praticamente tutto, in quanto tutto in una certa misura può risultare utile, senza per questo essere sadici. Un semplice abbonamento a riviste come Mente & Cervello può  rendere chiaro che a dibattito non sono soltanto il cancro o l’aids  o altre gravissime malattie continuamente evocate nell’eterna lotta topo contro bambino (che sempre fa presa sul pubblico meno preparato), ma anche le nevrosi sperimentali su topi portate avanti da studiosi come Jacques Cosnier (se ne parla appunto in un numero di Mente & Cervello) e molti altri esempi potrebbero essere riportati. Le stesse droghe citate da Giorello.  Certamente test utili in una qualche misura. La domanda corretta pero non è se sia utile, ma se sia lecito.  Il paradosso  consiste nel fatto che  a seguito della teoria dell’evoluzione abbiamo appreso di una stretta “parentela” con gli altri animali, la qual cosa ha significato sia la non accettabilità di un tormento animale da un punto di vista etico sia una maggiore utilità dal punto di vista scientifico, ed è stato questo ultimo punto di vista a prevalere, laddove di fatto al vecchio concetto di anima si sostituisce spesso (e in modo antiscientifico) quello di coscienza o autocoscienza. E non è un caso che questi dibattiti, sul livello di coscienza o intelligenza di altri esseri viventi siano serviti storicamente al sopruso di umani su altri umani (donne, schiavi, indigeni). Per questi motivi parlo spesso e volentieri di creazionismo ateo.

Noto inoltre, con disperazione assoluta, come anche Giorello ricorra al ritornello tanto di moda sui social media, quello del virus e del batterio nocivo che non esitiamo ad uccidere. Innanzitutto questo “argomento” costituisce in genere la base di  quella che chiamo ETICA AL RIBASSO (che è poi la fallacia del nirvana): non potendo riuscire a salvare tutti, ebbene per essere coerenti uccidiamoli o sfruttiamoli tutti. Agnelli e vitelli compresi. In secondo luogo Giorello cita Plutarco, a dimostrazione del fatto che in alcuni casi per gli “animalisti” del passato fosse necessario uccidere, ma dimostrando quindi di  non conoscere neppure l’opera principale di uno dei leader storici dell’antispecismo, ovvero Animal Liberation, di Peter Singer, in cui chiaramente si afferma che non è moralmente inammissibile uccidere altri animali per cibo, quando sia necessario per la sopravvivenza. Ovviamente il discorso è estendibile anche a  chi ci attacca, come ad esempio un virus. Qui stiamo parlando pero di casi limite, e non dell’istituzionalizzazione di sistemi di morte e sofferenza, su primati, cani, roditori, gatti, mucche e maiali ...in nome delle diverse sfumature di utile. Laddove rimarrà anche sempre una differenza  sostanziale tra il deviare un carrello ferroviario e buttare giù dal ponte l’uomo grasso.

Ulteriore appeal to emotion, frequentissimo sui social media, per convincere gli animalisti all’accettazione della sa:  la sa serve anche ai nostri AMICI animali. La differenza sostanziale consiste  nel fatto  che nel caso degli umani oltre al concetto di specie viene fatto valere anche quello di individuo (infatti la sperimentazione coatta sugli umani è proibita:  vero che tutti i farmaci, per ovvi motivi,  prima di essere immessi sul mercato devono essere testati anche su umani, ma si tratta sempre di volontari, magari gia affetti da qualche patologia,  e una metastasi sperimentale su un umano sarebbe del tutto impensabile, vale a dire provocare una malattia o provocare menomazioni su soggetto sano a titolo di studio e cura della specie) mentre per gli animali si fa valere solo il concetto di specie (i singoli sono sacrificabili a vantaggio dei molti) e quindi la sa coatta è considerata legittima. Io  in questo caso rinuncerei del tutto a parlare  di AMICI, tranne nel caso si consideri Humpty Dumpty un modello cui ispirarsi.

“temo una troppa ampia proliferazione di diritti” afferma Giorello: concordo, il pericolo è reale come ha magistralmente sottolineato Norberto Bobbio in “destra e sinistra” : "mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare, il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano".

Concludo con una sana provocazione nei confronti di Giulio Giorello: Lei argomenta a favore di quello che considera di fatto un male necessario, e “va bene”, facciamo finta che alcuni margini di discussione possano esserci. Per poter acquisire credibilità sul tema non può però esimersi dal prendere posizione su tutte quelle pratiche che con la necessarietà, qui e ora, nulla e proprio nulla  possono avere  a che fare. Su queste pratiche testeremo il darsi o meno di un creazionismo ateo.

Silvia Molè

 

 

 

 

352. Tra inglesismi e indifferenziate

Vorrei qui mettere a dibattito a titolo di brainstorming alcune questioni.

Innanzitutto penso che sia importante comprendere come la stepchild adoption sia stata una scelta linguistica o inglesismo molto infelice (per usare un eufemismo) in quanto, incomprensibile ai più senza ulteriore approfondimento,  si è prestata alle manipolazioni più indecorose per non far passare il ddl Cirinnà nella sua completezza. La stepchild adoption (adozione del figliastro o adozione in casi particolari) generalmente si riferisce alla seguente situazione: due adulti formano una nuova famiglia e uno di loro o entrambi portano un figlio avuto da una precedente relazione (si può trattare di divorzi, separazioni o morte di un coniuge quindi). Nel ddl Cirinna si desidera estendere questa possibilità alle coppie omosessuali (anche se in realtà il tutto è più complesso, si veda la nota "Z" a fondo pagina), quindi impossibile intravedere un qualsiasi nesso con la questione dell’utero in affitto, che però viene tirato in ballo come elemento delegittimante. Il ddl non è nemmeno una legittimazione delle adozioni omosessuali in generale (per quanto io sia favorevole pure a queste, come anche al matrimonio omosessuale vero e proprio). Sulla base degli studi a nostra disposizione sarebbe anche antiscientifico sostenere che i bambini che crescono all'interno di coppie omosessuali abbiano svantaggi rispetto alle coppie eterosessuali (lasciando da parte eventuali discriminazioni da parte della società, e in questo caso non saremmo dovuti arrivare neppure ai matrimoni misti).

Purtroppo alcune questioni vengono a mio avviso indebitamente e con evidenti salti logici confuse  e messe nel mucchio non solo in ambienti di clericalismo bigotto ma pure in ambienti atei sedicenti progressisti. Per quanto riguarda i secondi si corre pure il rischio di sentirsi definire quali  “bigotte liberticide” per il semplice fatto che alcune posizioni siano casualmente coincidenti con quelle cattoliche (una variante dell’ad Hitlerum: Hitler dipingeva quindi pure dipingere è criminale). Un modo spiccio per evitare di entrare nel dettaglio appoggiandosi alla più sterile metafisica (almeno nell’accezione peggiorativa del termine): si attribuisce all’interlocutore una visione “mariana” del corpo umano e al contempo ci si appella ad astratti principi di libertà e autodeterminazione, che possono significare, detti così, tutto e niente. Mi riferisco alle questioni liberalizzazione/"regolamentazione"  della prostituzione (approfondimento al Nr. 355) e utero in affitto o gpa a seconda della valenza politico sociale che si intende dare (al quale ricorrono sia etero che omosessuali), per giustificare le quali ho visto mettere in ballo praticamente tutto, dal frequentissimo argomento del “pomodoro” a paralleli del tutto inadeguati e mistificanti con la legge 194/"aborto" o il divorzio o l'eutanasia (più in basso entro nel dettaglio).

A me  inquieta che si scambino le lotte femministe degli anni sessanta e settanta con il concetto neoliberista della sessualità oggetto di  libero mercato e intesa come libertà oppure  vendita/affitto degli organi - oggetto di libero mercato -  come libertà. Ricordo che la libertà del mercato sessuale un tempo in Italia era organizzata perfettamente, c'erano i bordelli con tanto di "impresari", massimo della legalizzazione ( esistevano prima del femminismo e non sono certo una "conquista" di esso ), e che la lotta per la libertà sessuale non ha significato lottare per poter lavorare in un bordello   ma lottare per essere libere di fare sesso con chi si vuole senza stigma sociale, ovvero uscire dal classico SCHEMA o stereotipo di donna puttana da una parte e donna santa dall'altra (la donna puttana del bordello e la prostituzione al patriarcato è andata sempre benissimo, come il bordello stesso, strumento privilegiato di controllo delle donne e della loro sessualità, e infatti è stata durissima la lotta per chiudere i bordelli - si leggano gli atti del tempo, esilaranti in molte parti ) che doveva essere ben distinta dalla moglie pura, quella che il sesso lo fa solo per figliare o assecondare  i desideri del marito. Oggi invece di puntare all'implementazione delle pari opportunità nel senso piu ampio del termine (che uniche permettono di parlare di libertà di scelta vera e propria) si cerca di far nuovamente intendere (retrocessione culturale e pure analfabetismo funzionale, incapace di tenere conto dei dati a disposizione su un fenomeno***)  che libertà è  libertà di mettere il proprio corpo su un libero mercato o vendere/affittare un organo su un libero mercato ( sono d'accordo solo se senza compenso e come con i reni, facendo mia uno a uno  la posizione di Cristina Gramolini, oppure qualora vengano realmente soddisfatti criteri come evidenziati più in basso). La questione del semplice "rimborso spese" può inoltre celare e di fatto si cela (date le cifre di cui si parla) un commercio a tutti gli effetti. Ricordo inoltre che l'emancipazione della donna e quindi la sua libertà spesso coincide (o ha coinciso storicamente)  con l'emancipazione economica, senza la quale è davvero difficile fare libere scelte. Stesso dicasi per il diritto all'istruzione.
Sull'approccio storico del femminismo alla prostituzione propongo questa bella sintesi: http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/devianza/acri/cap4.htm


Ora, io sono d’accordo con le adozioni omosessuali ed etero (quando i bambini non si comprano o vendono al maggior offerente), sono favorevole all'eutanasia (quando nessuno mi paga per togliermi la vita: magari potrei decidere di farlo in "piena libertà" e su base contrattuale per ottenere un qualche premio e far ereditare i miei figli laddove per il sistema sanitario ne conseguirebbe comunque un risparmio), sono favorevole alla 194/aborto se nessuno mi paga per indurmi ad abortire (magari un ex compagno che subordina contrattualmente l'importo all’interruzione di gravidanza e io accetto in “piena libertà” contrattuale di abortire dietro compenso; al contrario lo stato dovrebbe rimuovere ogni ostacolo in direzione libera scelta, come previsto nell'ottimo testo di legge della 194) , sono favorevole al matrimonio (quando il marito o la moglie non si acquistano – infatti i matrimoni degli stranieri con europei stipulati per denaro per avere la cittadinanza non sono ammessi , pure se gli europei in piena libertà  accettano del denaro in cambio e vorrebbero magari metterlo a contratto per la validità del matrimonio), non accetterei che contrattualmente qualcuno potesse lavorare senza protezioni adeguate in una miniera o senza giorni di riposo o ferie  nonostante lo desideri e lo firmi in "autonomia e autodeterminazione",  non vieto la prostituzione (che significherebbe colpire le donne, criminalizzarle e stigmatizzarle,  attraverso assurde multe o peggio ancora: in Italia infatti non è vietata e nessuno la vuole vietare. La prostituzione è già legale, e i cosiddetti pro-legalizzazione, mentendo spudoratamente, mirano di fatto solo a depenalizzare il reato di sfruttamento e induzione: ad esempio in Italia è possibile affittare un appartamento a una sex worker a prezzi di mercato, ma non come in Germania una stanza a 150 Euro al giorno in uno dei grandi bordelli che stanno nascendo come i funghi con  immensi guadagni dei proprietari. Proprio di recente un bel documentario a Presa Diretta, link a fondo pagina,  laddove alcune/i "pro-legalizzazione" hanno in rete diffamato persino le vittime, ex prostitute, designate in vario modo come bigotte e bigotti pure gli intervistatori), a prescindere dal fatto che per qualche donna possa essere davvero una scelta consapevole (nessuno lo nega),  ma impedisco che si crei un sistema prostituente neoliberista che di fatto (attraverso la tassazione in Italia ahimè già in atto -  lo  stato a diventare pappone  lucrando pure sul corpo della donna - e un sistema di "supporto" attraverso la depenalizzazione del reato di sfruttamento,  che si concretizza come in Germania in "impresari" papponi che gestiscono in vario modo le case di piacere - si veda l'esempio citato sotto del Paradise -  contribuendo anche all'aumento della tratta) la consideri un lavoro non a rischio come un altro (pericolo evidenziato anche nel rapporto EU del 2014 dove i Paesi Bassi, esempio classico di depenalizzazione del reato di sfruttamento e induzione, compaiono come la prima destinazione delle vittime della tratta di esseri umani)  anzichè puntare alle pari opportunita in senso ampio (da cui effettiva libertà di scelta). E sono favorevole alla donazione di un rene in quanto la regolamentazione attuale non prevedendone  il commercio, ovvero la libertà di mercato,  esclude lo sfruttamento dei più disgraziati di questo pianeta, garantendo al contempo la libertà individuale e la scelta personale di donare a chi ne ha bisogno. E infatti una legge stringente e non fantoccio simile a quella che regolamenta la donazione del rene mi troverebbe d'accordo per quanto riguarda la questione gpa.

Humpty Dumpty entra in scena quando volutamente si opera confusione tra  vita privata e  vita del mercato, tra libertà individuale o personale nelle piu svariate forme e libertà del mercato nelle piu svariate forme. I confini possono non essere sempre netti ma il trucco consiste nell'identificare 1:1 libertà del mercato e libertà inerente alla sfera privata. Altro trucco, far intendere che l'interlocutore consideri "vile" il denaro di per sè (farla passare per una questione morale di stampo vetero-comunista) laddove a dibattito sono solo le eventuali conseguenze di determinate politiche di mercato.

Qualcuno potrà dire: ma ci si vende già ad un marito ricco! E simili amenità. La chiamo in genere etica al ribasso (ad esempio abolire l'articolo 18 sulla base del fatto o argomentazione che non tutti ne godono anzichè estendere le tutele o determinate tutele a tutti, come nella maggior parte degli stati europei), far prostituire tutte a qualsiasi livello (senza neppure le enormi tutele derivanti da un matrimonio in caso di separazione o morte del coniuge ad esempio)  anzichè lottare per limitare il fenomeno. Inoltre ipocrisia e inganno non hanno nulla a che fare con analisi sociologiche strutturali riguardanti sistemi basati su sfruttamento e disuguaglianze economiche, di genere, di potere. Nonchè contesti di violenza, immigrazione, povertà. Sempre nel quadro dell'etica al ribasso inserisco questa obiezione nella quale mi sono talora imbattuta: "perchè allora non vi schierate anche contro la sperimentazione ovviamente volontaria su cavie umane pagate a questo fine? (necessaria e prevista per legge prima della commercializzazione di un qualsiasi farmaco)" (ndr. in Italia è permesso solo un rimborso mi risulta).  Mi pare questa obiezione abbia a che fare con il dilemma del carrello ferroviario o del male minore, il rischio di pochi volontari contro il rischio di milioni di persone che ingerirebbero farmaci non testati. Il dilemma a mio avviso rimane ma la "contropartita" (la salute di milioni di persone) non è paraganabile al caso preso in oggetto (non avere un figlio non comporta un danno alla salute e non è un diritto esigibile nel caso possa comportare danni a terzi). A prescindere dal fatto che forse (da verificare) i volontari abbiano già qualche malattia per la quale sono disposti a sperimentare nuovi farmaci. L'obiezione ulteriore riguardante la "vendita" di spermatozoi oppure ovuli a mio parere è parimenti insussistente in quanto non paragonabile ad una gravidanza di nove mesi con nascita finale di un bambino con tutto quello che questo comporta sia da un punto di vista fisico che psicologico (si veda più in basso l'argomento del "pomodoro"). Se volessimo tradurre il tutto in termini di "carrellologia" vedremmo anche il carrello tranquillamente deviato verso il gruppo di persone anziche verso il singolo. E dal ponte verrebbero spinti mille uomini grassi per salvarne uno.

Io penso semplicemente che non tutto possa essere ridotto a merce e che certi discorsi sulla libertà di mercificarsi costituiscano un passo indietro di secoli, il famoso trucco del nuovo che avanza (irrenzimento di parte del movimento femminista, magari con vestitino pseudoanarchico) come trucco retorico per retrocedere, e tutto questo in un'ottica ben piu ampia di neoliberismo rampante. Altra via, che di certo non è a dibattito, e non dovrebbe meravigliare in ottica neoliberista: offrire a chi si prostituisce, o desideri  lavorare all'interno di un sistema prostituente come quello descritto, o desideri affittare l’utero, un percorso di studi e un lavoro al di fuori del mondo della prostituzione. Non sussiste interesse? Si rifiuta?  Bene, via libera. Si scelga!  A mio avviso questa sarebbe una buona legge, se a tutti costi si volesse legiferare in merito. Ne siamo ben lontani e una simile regolamentazione non sarà mai a dibattito, per ovvi motivi (l’interesse non riguarda la tutela della donna e la sua effettiva libertà di scelta ma il prodotto, la merce di scambio. Le donne continuano per alcuni versi a essere considerate poco più che animali, infatti non vedo tutte queste battaglie per la commercializzazione dei propri reni - possibile darli a terzi solo a titolo gratuito -  in nome di questa fantomatica libertà). Rifiutare di prendere in considerazione questo tipo di proposte significa a mio avviso nutrire il più profondo disprezzo per il concetto di libertà e autodeterminazione, in quanto soltanto l'offerta di tali alternative potrebbe escludere la presenza di costrizione e sfruttamento. Eventuali proposte miranti ad avere come candidate  persone genericamente dotate di reddito e autosufficienti potrebbero essere considerate a mio avviso serie solamente qualora si entri nel dettaglio e nel momento in cui venga accertato che abbiano ad esempio un lavoro a tempo pieno e indeterminato. Una legge non fantoccio è quella regola la donazione dei reni.

Aggiungo, in una società ideale, dove le pari opportunità ampiamente intese fossero raggiunte e quindi anche una concreta libertà di scelta, non avrei problemi a “liberalizzare” ulteriormente alcune cose, difficilmente  qui e ora, visto anche che in alcuni “civilissimi”  paesi come la Germania la tratta pare addirittura aumentata (riporto piu in basso un rapporto EU dove non a caso alla fine si consiglia il modello svedese e gli svedesi, come si sa, sono tra i popoli piu bigotti e liberticidi della terra. Si dice addirittura che il troppo welfare li abbia fatti diventare tristi). La stessa polizia afferma che è più difficile combattere la tratta in quanto i confini tra sfruttamento "legale" e sfruttamento illegale sono diventati labili.

Desidero brevemente entrare nel merito anche del famoso e frequentissimo “argomento del pomodoro” (la prostituzione è un lavoro come un altro, magari più “faticoso”, come la raccolta dei pomodori, approfondimento al n. 355), citando liberamente un mio contatto (Giulia):  

Mi viene in mente solo l'ovvio, ovvero che il lavoro umile e pesante consiste comunque nel pagare per un prodotto, non nell' alienare il proprio corpo e la propria sessualità (che sono elementi importanti per l'identità personale) dedicandoli al piacere altrui, annullando se stesse. Il proprio corpo e la propria sessualità non dovrebbero fungere da prodotto come i pomodori o come il lavoro di una cameriera. Questo perché riguardano ambiti propri dell'identità intima e personale dell'essere umano. Quando si parla di cose come corpo e sesso, è solo l'autodeterminazione veramente libera (NON  CONDIZIONATA dai soldi e situazioni esterne come difficoltà e degrado, ma solo dal proprio piacere) a dover contare. Se persino ambiti così importanti per l'individuo e la sua formazione vengono considerati prodotti che chi ha soldi ha diritto di comprare, facciamo un passo contro i diritti umani. Perché quelli per me sono considerabili come ambiti dove denaro, potere e classi sociali non dovrebbero entrare, solo regno del singolo e della sua formazione e crescita personale come individuo. Altrimenti sarebbe come sacrificare la libertà a godere e vivere liberamente il proprio corpo e la propria sessualità di alcune categorie, per vari motivi poste nella condizione di vendersi e che in alcuni casi arrivano persino a ritenere una fortuna di poter vendere al piacere altrui quello che dovrebbe far parte della propria individualità come persona libera, autodeterminata e con dei diritti base. Corpo e sessualità sono campi speciali (non a caso lo stupro, nonostante non comporti necessariamente danni fisici o ferite è punito molto severamente, più di un fenomeno di capolarato, non a caso toccare una donna - magari sul posto di lavoro - ai genitali non è equivalente a toccarle un braccio o un piede e può comportare, oggi, gravi sanzioni: il mancato riconoscimento di questa fondamentale particolarità può portare a gravissimi casi di minimizzazione e quindi giustificazione dei frequenti casi di cronaca e nel rapporto EU riportato a fine pagina vengono citati i legami tra mancato riconoscimento e discriminazione di genere), e non sono merce, sono tra quelle cose che si considerano basilari se vogliamo identificare l'individuo e i suoi diritti umani. E non a caso i diritti non sono in vendita e non sono soggetti alle leggi di mercato.  Se ne può parlare, ma fare paragoni con il cogliere pomodori vuol dire non provare nemmeno a capire cosa vuol dire vendere il proprio corpo e la propria sessualità affinché chi è più fortunato ne faccia ciò che preferisce. Qui risponderebbero come i pappagalli :" eh ma chi lo fa perché le piace?? " e giù a ripetere le stesse cose... Che se a una minoranza piace non cambia le cose né possiamo guardare ad un fenomeno economico fatto nella stragrande maggioranza dei casi  di violenza e ingiustizie immaginando prostitute felici, inoltre non si spiega perché sono quasi tutte donne e straniere in situazioni di degrado se è una scelta come un'altra ecc.  Ormai il copione si scrive da solo. I soliti pappagalli seguendo questo schema potrebbero quindi ancora aggiungere "eh beh ... ma anche nella raccolta del pomodoro esiste lo sfruttamento!!11! ". Certo, ma lo sfruttamento consiste nel lavorare magari 14 ore al giorno per due euro l'ora e non nel tipo di lavoro che si viene chiamati a fare, laddove la prostituzione (come da rapporto EU) può condurre di per sè a danni psicologici permanenti anche ad attività terminata.

Un mirabile esempio, da manuale, del pericolosissimo argomento del pomodoro (variante dell'indifferenziata: stupri, prostituzione e lavoro in fabbrica mescolati insieme) lo troviamo in un articolo di Federica Bianchi comparso sull'Espresso del 4 marzo ("In difesa della gestazione per altri"): "...in questi posti una madre surrogata non sta messa peggio (anzi!) di una signora delle pulizie (ripetutamente maltrattata e sottopagat), di un operaio in fabbrica o magari di una studentessa universitaria (recenti i casi di giovani donne regolarmente violentate e poi uccise impunemente nella tanto sbandierata India). Dunque il problema non è la Gpa in se ma lo sono la mentalità e le leggi del paese in tutte le sue espressioni ...". L'autrice dimentica che il fenomeno della prostituzione è molto esteso anche in Europa e che in alcuni paesi, come evidenziato, la liberalizzazione ha addirittura peggiorato la situazione. Paesi civilissimi come Germania e Olanda dove la tratta è addirittura aumentata. Sempre nello stesso articolo si trova un altro appeal to emotion da manuale: "..che una madre senza utero o una coppia di uomini debba accettare il fatto che la natura abbia deciso per loro ...": certamente un argomento che compare in ambienti religiosi e quindi destinato a far presa sugli anticlericali di professione (quelli del "se lo dice il Papa è falso se lo dice Odifreddi è giusto", sempre a prescindere), ma nelle discussioni serie a dibattito sono i limiti della nostra libertà quando comincia a ledere direttamente o indirettamente  quelli altrui. E non le possibilità offerte da scienza e tecnologia. Bello e giusto poter trapiantare un rene a chi ne ha bisogno attraverso un donatore, meno bello se i più disgraziati del mondo o del nostro stesso paese vengono indotti a venderli per campare. Da cui una regolamentazione in cui il mercato viene tenuto da parte pur preservando la libertà individuale o personale. Vale a dire scienza a favore dell'umanità e non contro di essa. Ma la scienza è neutra, sta a noi farne l'utilizzo migliore.

Da quanto esposto si può capire perchè molti movimenti femministi anche in Italia condividano le mie posizioni. Ricordo volentieri che i movimenti femministi della storia, o grandi femministe della storia, a partire da Mary Wollstonecraft, o le suffragette, trovarono accaniti oppositori nelle donne stesse. Oggi viviamo tutte sui diritti ottenuti grazie all'impegno di quelle donne coraggiose che seppero e vollero sottolineare le mistificazioni del proprio tempo. Purtroppo i sistemi prostituenti escono da una finestra e sono sempre pronti a entrarne da un altra.

Si veda anche il N. 323 soprattutto nella seconda parte, fondamentale per comprendere alcune considerazioni di base. Amartya Sen e il concetto di libertà individuale come impegno sociale.

Il miglior articolo che ho sinora letto sul tema "utero in affitto" è a mio avviso quello di Sonia Caporossi in quanto pone le giuste domande: 
http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=125446&typeb=0&utero-in-affitto-diritto-e-desiderio-una-posizione-filosofica


Opinioni  al riguardo sono benvenute nel  gruppo FB di Fallacie Logiche.

la posizione di Cristina Gramolini:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12/06/utero-in-affitto-quando-la-liberta-viene-confusa-con-liberalizzazione/2282998/

*** rapporto EU (da leggere per INTERO al fine di avere un quadro complessivo) in cui viene consigliato il modello svedese come lotta alla prostituzione. "I Paesi Bassi sono la prima destinazione delle vittime della tratta di esseri umani". Fondamentale leggere  tutti i dati per non avere un approccio (pseudo) metafisico alla questione (il ragno baconiano che si tesse la tela da solo). Trovo del tutto comprensibile che le associazioni dei sex workers attacchino in modo anche veemente il contenuto di tale relazione, in quanto il modello svedese di fatto porta all'impedimento dell'esercizio dell'attività (colpendo gli acquirenti che a loro volta rendono possibile la tratta ...)  e se ne può parlare. Quello che non è ammissibile è pero la minimizzazione se non negazione dei fenomeni indicati (qualche firmatario lo si trova sempre, come nel campo del negazionismo dei cambiamenti climatici di natura antropica) e il non voler riconoscere che forme di liberalizzazione come in Germania e Olanda hanno addirittura aumentato la tratta, oltre a non aver migliorato la situazione delle prostitute.

http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A7-2014-0071+0+DOC+XML+V0//IT

sotto un estratto da un Dossier di "Internazionale" del 2015.

 

 

("Z")

http://www.ilpost.it/2016/02/11/la-stepchild-adoption-esiste-gia/

  Documentario a Presa Diretta (2016)

http://www.raiplay.it/video/2016/09/Case-chiuse-d56ce6de-4aa5-433b-b286-2998a68bf91d.html

 

 

 

 

351. La ragione dello sragionare

Intervista pubblicata sulla Rivista Internazionale FIGURE DELL'IMMAGINARIO (***)















(***)

http://www.figuredellimmaginario.altervista.org/

350. La fallacia della borsa di tolfa

di Sonia Caporossi (***)
 
 
 
Mentre scrivo queste righe è passata solo una settimana dalla sua morte e sei giorni dal suo annuncio al mondo. Lunedì scorso, mentre il Duca Bianco forse stava ancora volando in cielo per cercare vita su Marte insieme al maggiore Tom, annunciavo al popolo dei social network che durante la puntata serale di Moonstone, la trasmissione di musica alternativa che conduco fra alterne vicende dal 2008 su Radio Centro Musica in qualità di musicologa, avrei tenuto uno special sulle canzoni di David Robert Jones. In arte David Bowie. Quella sera le statistiche di connessione web e FM alla radio sembravano impazzite. Un popolo intero di appassionati stava seguendo la scansione della playlist ragionata che non avevo avuto la minima difficoltà a preparare, per la grande quantità di canzoni capolavoro che Mr. Jones ha saputo produrre in cinquant’anni di carriera e 25 album ufficiali, che diventano 52 se contiamo i live e le raccolte.
 
Lunedì scorso all’annuncio sui giornali della sua morte, per qualche ora, il mondo s’è fermato. In quelle stesse ore c’è stato chi, di fronte all’isterismo collettivo di coloro che manifestavano il proprio dolore scompostamente, come se fosse morto un amico, un fratello, un amore, non ha perduto occasione per stigmatizzare le scene oggettivamente pietose di mancata elaborazione del lutto a cui su internet si stava assistendo. Tuttavia, per far questo, chi aveva in uggia il presunto fanatismo altrui cadeva nella più patente petitio principii, perché per negare validità al mito, si doveva negare per partito preso, ovvero anapoditticamente e pregiudizialmente, per postulato assiomatico, che Bowie fosse mai stato un grande artista: e solo negare che Bowie fosse stato un grande artista permetteva di denigrare il mito, non ridimensionabile altrimenti.
 
Capisco l’astio anticonsumistico e francofortiano contro i mitologemi. Capisco l’avversione all’iconismo capitalistico. Anch’io mal sopporto i miti in quanto tali, per costituzione e forma, per una spontanea avversione nei confronti dell’adorazione acritica e smaccata che sempre essi inducono, per l’adesione irrazionale ad un’imago, per la fiera delle res gestae Divi Titii,  per la frequente deficienza e ridicolaggine in spirito dei cosiddetti “fan” che si strappano i capelli. Ma di fronte alla negazione pura e semplice che un grande artista sia stato tale, se permettete, non ci sto. E vi spiegherò perché, anche se darò in questa sede per scontate, nel lettore, alcune conoscenze filosofiche di fondo. Ma certo, chi segue Critica Impura sarà abituato.
 
La perdita dell’aura imputata all’arte contemporanea da Walter Benjamin nel suo famoso L’opera d’arte nell’era delle riproducibilità tecnica fa da pendant al “dissolvimento” dell’arte di hegeliana memoria (dissolvimento è esattamente il termine che usa Hegel); ma questo, lungi dal significarne la morte, ne esprime una diversa modalità contenutistica e formale, anche quanto alla fruizione, come si evince nel caso della fotografia e della litografia, del resto; forme d’arte fin dal loro sorgere peculiari in quanto riproducibili tecnicamente all’infinito, e che oggi nessuno si piccherebbe di dichiarare carenti d’artisticità in quanto tali. David Bowie appartiene alla vasta categoria di coloro che si aggirano nella dimensione della riproducibilità tecnica della propria arte, quella stessa che fa perdere l’aura originariamente sacrale al pezzo artistico sottraendogli l’unicità; quella stessa che consente però la reduplicazione dell’oggetto d’arte per una più capillare fruizione su scala planetaria. Come dire che l’arte da una parte ha perso in alone antropologico, dall’altra ha acquistato in spessore estetico – sociale. Ecco allora la stampa dei dischi in migliaia di copie, ecco le tournée, ecco il raggiungimento di ogni angolo del pianeta per il tramite delle proprie note e della propria immagine. David Bowie è un artista che ha prodotto arte e ne ha consentito, anzi ne ha auspicato e sobillato la riproducibilità.
 
È chiaro che ci si può scontrare sul mero giudizio di valore, sulla questione esteriore, per dir la verità, dei gusti musicali personali, sulla sopportazione o meno dei suoi modi, della sua figura, dei suoi atteggiamenti, financo della sua voce (un timbro che riusciva ad alternare l’aspetto nasale al canto di gola e di diaframma, con una modulazione e un vibrato di tutto rispetto).
 
Si può, insomma, dire tutto, per carità.
 
Eppure, dire che Bowie non è un grande artista perché appartiene all’industria culturale in quanto industria, ovvero in quanto è oggetto di mercificazione e consumismo a partire dal supporto fisico del disco per finire alla sua icona in quanto riproducibile fisicamente nei poster, nelle interviste, sui giornali, in TV e nei video musicali, è come dire che l’Ulisse di Joyce non è arte perché viene stampato e venduto in milioni di esemplari, o che Joyce non sia un grande artista perché ha prodotto libri riproducibili, la sua immagine con gli occhialetti è dappertutto e viene molto amato da una schiera di lettori. A volte, insomma, si confonde il prodotto, ovvero l’oggetto che rappresenta il supporto della fruizione artistica, con l’arte vera e propria che c’è dietro. E certo, dietro questa incomprensione di fondo c’è una profonda volontà di stigmatizzazione dell’assolutizzazione altrui, quella forma di assolutizzazione di cui parlavo prima, che infastidisce anche me perché reca le impronte del mitologismo acritico e della sacralizzazione indebita. Ma attenzione.
 
L’Assoluto sta in ogni assoluto, anche nell’assoluta negazione che valga un assoluto, e in ogni sintassi logica che si ponga in forma di universale affermativa o negativa. L’assoluto, per questo motivo, io personalmente non l’ho mai stigmatizzato: ho sempre pensato che se esiste il concetto, servirà a qualche cosa. Allo stesso modo, se è pur vero, con Lotman, che non esiste in natura alcunché che possa considerarsi estraneo ad essa, e che, con Wittgenstein, “se al mondo vi fosse una sola cosa allora non ci sarebbe nessuna cosa”, anche relativizzare, del resto, è un assoluto qualora venga posto in forma universale. Come non sottolineare, piuttosto, la contraddizione insita nel fatto che negare un’assolutizzazione in modo assoluto è un’assolutizzazione a sua volta?
 
Come si vede, dall’assoluto non ci si libera. Il voler paventare un proprio uscire dal coro negando assolutamente l’assolutizzazione altrui non è altro che assolutizzare stoltamente a sua volta e per questo rientrare nel gregge di coloro che non vogliono stare nel gregge, oppure, con Kerényi e contro Malinowski, nel mitologema di coloro che stigmatizzano i mitologemi. Così come tirare in ballo il materialismo dialettico contro l’iconismo capitalistico di una qualsivoglia mitografia dei tempi odierni, nel 2016 e da una piattaforma social qualsivoglia, che di altro non è espressione che dell’iconismo capitalistico e della mitizzazione immaginifica di se stessi in se et per se, è cosa priva di senso. Che cosa infatti, oggi, non è oggetto di consumo, se anche solo dalle bacheche di facebook non facciamo altro diuturnamente che offrire il consumo di noi stessi?
 
Allo stesso modo, prendersela contro l’industria culturale perché sforna quei veri e propri prodotti di consumo che sono i dischi è fallace se cade nella generalizzazione indebita. Occorre infatti operare i dovuti distinguo; e non si tratta solo dei distinguo necessari a discernere l’arte da ciò che Battiato in Bandiera Bianca definiva “le immondizie musicali”, ma della distinzione fondante in senso estetico che si può formulare in questo modo: il disco è un prodotto di consumo, l’artista è l’uomo che produce l’arte che si fruisce tramite il mezzo da consumare. E dunque, non si vede il problema.
 
Ecco che tutto si riduce semplicemente a una questione di sensibilità musicale o umana; o almeno così sembra. Infatti, se può essere vero, con Kant, che la natura delle persone nel comune fondamento del senso estetico in buona sostanza non differisce, in quanto differisce kantianamente solo il giudizio sul piacevole (il “mi piace”, il “de gustibus”), non il giudizio sul bello (è che ben altra cosa dal semplice “mi piace”); se quindi può essere vero che la dimensione estetica si fonda su un sentire comune, è anche vero che il sentire non rientra nella sfera teoretica, non è quindi oggetto di speculazione o di ragionamento: si sente o non si sente, e basta. Non nella cultura, quindi, ma nella natura che condividiamo occorre cercare l’elemento comune che ci chiama umani. La cultura non c’entra niente: è una questione di mero trasporto sentimentale.
 
Così, per sentimento, ecco le più commoventi manifestazioni d’affetto nei confronti di David Bowie, che sorgono ogni dove come funghi. Ecco la gente riunirsi a Londra, a New York e nella romana Piazza del Popolo, per cantare, pittarsi gli occhi come Ziggy Stardust, ricordare le sue canzoni, la sua bravura, la sua arte, la sua figura. Ecco per esempio che qualcuno si è ingegnato a disegnare la costellazione Bowie, come il fulmine sul volto di Aladdin Sane. Al suo interno ognuno può adottare una stella della galassia annessa e lasciare un proprio ricordo e contributo dedicandogli una canzone del suo repertorio (se volete andarci, cliccate qui).
 
Tutto questo è puro amore della gente nei confronti dell’uomo, lo stesso che si può provare nei confronti di uno scienziato, di un letterato o di un artista che ha dato un contributo duraturo all’umanità e che ci ha accompagnati nei migliori momenti, ma anche nei peggiori, della nostra vita. Il lemma “Mito”, in questi frangenti e per queste persone, non significa niente, perché un mito non è reale. Se insomma, per dirla con Morrissey, “the music that [the DJs, NdA] constantly play IT SAYS NOTHING TO ME ABOUT MY LIFE”, laddove la musica di cui parlano gli Smiths in Panic (1986) si manifesta in forma di consumismo, la musica di Bowie, al contrario, ha detto molto a milioni di persone in tutto il mondo, e per questi milioni di persone non vale il mito, ma l’uomo.
 
Così, anche coloro a cui Bowie non è mai piaciuto, approfittino della sua morte per ascoltare un poco di più i suoi dischi, poi mi sapranno dire. Se non si entusiasmeranno di fronte ad uno che è riuscito in punto di morte a fare arte della propria fine, se non sentiranno un brivido d’angoscia all’ascolto di Blackstar, all’autoconsapevole canto del cigno di un uomo che ha tenuto saldamente nascosta la propria malattia degenerativa e mortale agli occhi del mondo perché voleva lavorare fino al termine dei suoi giorni per donarci il lascito dell’ultima opera d’arte (Blackstar, per inciso, è un capolavoro), non sarà carente la loro cultura musicale o no, ma la natura estetica della loro possibilità di condivisione con gli altri. Quella stessa in base alla quale, sempre secondo Kant, noi “pretendiamo” che il resto del mondo si trovi in accordo e in armonia con noi quando esprimiamo un giudizio estetico su un fatto d’arte.
 
E tuttavia, non ci pensiamo. Il mondo è troppo bello e troppo breve per addolorarsi delle sue brutture, compresa la morte. Del resto, abbiamo imparato da una lunga frequentazione musicale la lezione di David Robert Jones: non ha senso avere paura. Così,
 
Let’s dance,
For fear your grace should fall
Let’s dance,
For fear tonight is all.
 
 
 
(***)

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