345. Freedamned

di Umberto Simoncelli


La Storia della Civiltà Umana è un susseguirsi di guerre frammiste a brevi periodi di pace armata: la nostra perciò è una cultura di guerra piuttosto che una cultura di pace.
Il bisogno-dovere di affiliazione è figlio di questa cultura, dove l’immediata qualifica d’amico o nemico è una priorità che salva la vita. La Società guarda da sempre con diffidenza i “non affiliati”, i diversi, perché non sa identificarli né come pericolo né come risorsa e l’istinto di autoconservazione induce i più a considerarli nemici fino a prova contraria. Gli stessi “non affiliati” sono parzialmente vittime di questa non-logica subliminale, non sempre hanno la lucidità per riconoscerla, ne soffrono, e rispondono alla diffidenza con ostilità generando una perversa catalizzazione dell’intolleranza.
Impariamo precocemente che, in qualsiasi aspetto della nostra vita, indipendentemente da ogni variabile socio-economica, l’affiliazione paga sempre, anche se, ovviamente, con discontinuità.


A scuola ci saranno proposti gli artisti e i filosofi che di volta in volta rispecchiano il mutevole senso comune, e non tarderemo ad accorgerci che coloro che, più o meno consapevolmente, hanno rifuggito ogni affiliazione e ogni “incasellamento culturale” non hanno nell’Olimpo il posto che meritano (Miguel de Unamuno, Jorge L. Borges, Louis Ferdinand Celine, Walt Whitman, Anatole France, ).


I primi a essere ricordati sono i martiri di una causa, subito dopo vengono gli eroi e i campioni di qualche corrente di pensiero. Nulla a che vedere con l’idea Foscoliana dell’immortalità attraverso le opere; la qualità è una voce superflua, non infrequentemente imbarazzante. Accade così che chi é artefice, promotore e anche solo fruitore di nuove correnti di pensiero, vero depositario dell’originalità e della creatività, viva, misconosciuto, una vita infelice e sia destinato, nella migliore delle ipotesi, a un’occasionale e fortuita “riscoperta”.

Da adulti realizzeremo con costernazione che la possibilità di far carriera è pesantemente condizionata dalle nostre scelte politiche e confessionali: se ben classificabili saremo alternativamente osannati o vituperati, ma sarà sufficiente avere la giusta pazienza e determinazione che verrà il nostro momento che, naturalmente, sarà quello in cui i nostri mentori deterranno il potere. Questo induce molti a capitolare, talvolta per un malinteso senso dell’amore verso le proprie famiglie, altre volte per mero sfinimento L’esperienza quotidiana del “resistente”, invece, continuerà a essere un susseguirsi d’incontri problematici con gruppi chiusi che sopravvivono nell’autoreferenzialità. Da chi finge di dimenticare che la primogenitura del conformismo è l’idea del “politically correct”, i non affiliati saranno additati come reazionari e, inascoltati, non avranno accesso ai media, dove, al contrario, ci sarà una pletora di uomini e donne compiacenti, spesso con la caratura di giullari di corte.


Né avranno costoro, i diversi, il beneficio della reciproca solidarietà perché i freedamned amano, sciaguratamente, la solitudine.

 

344. Nuove parole per l'autismo

E' necessario creare nuove parole per capire l'autismo e quindi capire il mondo

di David Vagni

Oggi mentre andavo a lavoro con il treno e riflettevo su una presentazione che farò nel pomeriggio riguardo lo sviluppo morale nell'autismo, ho avuto un momento di Eureka. Nulla di eccezionale, nulla che già non sapessi implicitamente, ma le diverse conoscenze ed idee hanno fatto click unendosi in un quadro coerente e spiegabile a parole.

Le persone hanno paura di quello che non conoscono e spesso considerano l'autismo un mistero ed i comportamenti autistici incomprensibili, bizzarri, alieni.

La realtà è che le persone autistiche violano l'aspettativa riguardo la personalità delle persone.

A. 

Da scienziato mi capita spesso di avere a che fare con concetti come intelligenza, empatia, morale, ansia, etc. tutti concetti tratti dal linguaggio comune o ormai entrati nel linguaggio comune e legati a delle idee, esempi, "mappe mentali". 

Se dico che una persona è intelligente, mi aspetto un comportamento intelligente in ogni situazione e contesto. Se dico che una persona è ansiosa, mi aspetto che sia ritirata, timida, introversa, etc. Se dico che una persona è empatica, mi aspetto che spenda la sua vita aiutando gli altri, che sia buona, espansiva e che abbia facilità a comprendere gli altri.

Questa generalizzazione deriva da due fenomeni principalmente:

1. Se abbiamo un termine per descrivere un insieme di fenomeni collegati, nella nostra mente quei fenomeni diventano ancora più collegati generando degli stereotipi.

2. Se osserviamo un comportamento in una persona tendiamo ad attribuire quel comportamento a caratteristiche insite nella persona stessa piuttosto che a indizi contestuali, questo è molto comune ed è chiamato l'errore fondamentale di attribuzione.

Ora cosa succede quando questi due fenomeni interagiscono:

succede che se osserviamo una persona ad esempio essere ritirata e parlare poco, possiamo attribuire (2) quel fenomeno alla timidezza e quindi aspettarci un comportamento "timido" (1) anche rispetto ad altri aspetti della timidezza (inibizione fisica, tendenza ad un comportamento passivo e sottomesso, etc.).

B.

 Ma perché si creano questi "stereotipi"? Questi stereotipi si creano perché funzionano e semplificano il mondo aiutandoci a predire il comportamento delle persone. Se osservo una "serie" di comportamenti timidi di una persona in un contesto posso predire che sarà più probabile che quella persona abbia una serie di comportamenti timidi ma diversi in un'altro contesto. Funziona, è semplice, è utile.

Questo lo possiamo vedere facilmente dalla costruzione dei test di personalità. Pensate al Big Five test famosissimo e usatissimo che riduce la personalità umana a 5 fattori:

·         Estroversione

·         Amicalità

·         Coscienziosità

·         Stabilità emotiva

·         Apertura mentale

 

Semplice, rapido, utile.

C.

Cosa succede però nell'autismo?

Le persone autistico violano regolarmente le aspettative rispetto alla correlazione tra diversi processi e diversi aspetti della personalità.

Faccio solo degli esempi:

·         Le capacità di teoria della mente nelle persone tipiche sono svincolate dall'intelligenza, negli ASD sono strettamente legate all'intelligenza verbale.

·         Il giudizio morale nelle persone tipiche è collegato al riconoscimento e alla gestione delle emozioni e all'empatia affettiva. Nelle persone ASD è completamente svincolato dall'empatia affettiva e dall'abilità di riconoscere le emozioni.

·         L'apertura alla cultura e l'apertura all'esperienza sono collegate nelle persone tipiche, mentre nelle persone ASD no.

·         Altruismo e obbedienza sono correlate nelle persone tipiche ma non negli ASD.

·         ...

Ci sono decine di tratti o processi che sono collegati tra loro nella popolazione tipica ma non in quella ASD. Tuttavia è vero anche il contrario, ci sono tratti collegati tra loro negli ASD ma non nelle persone tipiche.

D.

Quindi non si tratta solo dell'osservazione di un comportamento "atipico" in sé che sconvolge le persone, ma nell'impossibilità di comprenderlo in quanto non riducibile ed esplicabile attraverso le categorie di pensiero costruite a partire dalla tipicità.


E. Nominare è dominare.

Un esempio che ormai portiamo avanti da anni è la differenza tra meltdown e tantrum (capricci), la semplice conoscenza della differenza e la possibilità di dare un nome ai comportamenti è in grado di migliorare la comprensione e quindi la qualità della vita delle persone autistiche e di chi gli sta vicino.

Quindi:

forse un enorme passo avanti sia sociale che scientifico potremmo farlo non solo suddividendo i diversi concetti usati nella ricerca e nel linguaggio comune in modo più sottile, ma creando un vocabolario interamente nuovo per descrivere fenomeni e "personalità" insolite in modo da ridurre la paura dell'ignoto, perché forse, in parte, l'autismo è un puzzle perché non abbiamo le parole adatte a descriverlo.

Una volta create queste nuove parole potremmo renderci conto che non riguardano solo le persone autistiche, ma molte altre persone, e che le categorie che usiamo per descriverle spesso sono profezie che si autoavverano create dalla società.

 
tratto da:

http://www.spazioasperger.it/forum/discussion/6639/e-necessario-creare-nuove-parole-per-capire-l-autismo-e-quindi-capire-il-mondo/p1

 

 

343. Sul tatto

di Occhi di Barbalbero

(Luca Scarano)


Su Mente e Cervello di Novembre ho tanto apprezzato gli approfondimenti sul senso del tatto. Da recuperare, come recita uno degli articoli, in un mondo dominato dalla vista.

Curioso tuttavia che non si sia parlato della meditazione buddhista, più in generale dello yoga. Inteso non solo come stile di vita, ma proprio come pratica specifica e non necessariamente religiosa.


Perché in effetti la stragrande, per non dire quasi totalità delle pratiche yoga, è un'esperienza di tipo termo-tattile (per definirla alla maniera dei neurologi). Come si evince anche dall'articolo "Il senso ritrovato" di Retzbach, il senso del tatto è composto da vari recettori, tra cui quelli adibiti a sentire la pressione o la distensione e quelli termici. Non solo, ma l'organismo umano è capace di provare sensazioni termo-tattili "interne" al suo stesso corpo.


Ora, epurate per così dire, di tutti gli aspetti mistici esoterici e in generale spirituali, le pratiche yoga puntano dritte sulla coltivazione di queste sensazioni, a volte dette anche della interocezione oppure della propriocezione. Non è un caso che allo yogin è richiesto di "allenarsi" in un luogo silenzioso, spoglio, volendo anche lontano da odori forti e provocanti, pulito, ma soprattutto di chiudere gli occhi. Tutta la tradizione yogica si basa sul fondamento che le nostre percezioni (i sensi) sono illusorie sulla realtà, a partire dalla vista. L'articolo sopra citato ce ne da una conferma scientifica, il tatto, lasciato "solo a se stesso" è il senso meno facilmente ingannabile.


Se avete dei dubbi sulle potenzialità, come dire, pacificanti, rasserenanti, causate dalla "riscoperta" (intesa come piena attenzione) del tatto, basta fare un semplice e veloce esperimento. Anche senza fare alcun asana (le note posizioni hatha yoga) ne praticare alcun prana yama (respiro indotto nel corpo), si può usare la semplice immaginazione. Provate a immaginare per qualche minuto di essere un feto nell'utero (che non vede, non sente, non assapora, non odora) e vi renderete conto del senso immediato di pace che proverete. Singolare che il feto sviluppa prima di tutto il senso del tatto e vive per lungo tempo esclusivamente con esso. Singolare, inoltre, come alcune delle esperienze di "assorbimento" più intense inducano a volte le persone a dire di avere in qualche modo "ricordato di essere prima di nascere".

Ci si potrebbe chiedere perché invece si "promuove" lo yoga come esperienza del respiro. In effetti è solo una questione di traduzioni, che ha dato luogo a questa confusione della causa con l'effetto. Il testo fondamentale delle pratiche yoga, per tradizione ritenuto uno dei pochissimi che riporta fedelmente le parole del Buddha, è l'anapana sati sutta. Tradotto come canzone della consapevolezza del respiro. In realtà il respiro è la causa, il mezzo che si usa. Anapana è invece l'effetto: si tratta di una parola composta che vuol dire "esce" (ana) ed "entra" (pana). Si riferisce all'aria che esce espirando ed entra inspirando, all'interno del corpo. Nelle traduzioni classiche si usano i termini più eleganti inspiro, espiro, invece che entra ed esce. Tuttavia questo distoglie il focus, che invece è il concentrarsi (sati, essere attento a) non sull'atto di inspirare ed espirare ma sulle sensazioni corporee al passaggio dell'aria nel nostro corpo. Si tratta perciò di una esperienza sensoriale prettamente termo-tattile, eventualmente stimolata da "posizioni" oppure dal respiro "indotto" invece che spontaneo (nelle pratiche più antiche il respiro è spontaneo e si sta seduti camminando, semplicemente).


Recita la "canzone": esce è io sono attento quando esce, entra e io sono attento quando entra.

E ancora: con il corpo dentro il corpo, con le sensazioni dentro le sensazioni.

Questo spiega, tra l'altro, perché un'intuizione vecchia di oltre 2600 anni costituisca ancora oggi una delle pratiche corporee più praticate del mondo

 

 

342. I linguaggi del vivente


Qui a seguito un mio articolo pubblicato dal giornale Vercelli Oggi (***)

Sabato 7 novembre si è tenuto a Vercelli  un nuovo straordinario convegno dedicato alle neuroscienze, organizzato dall’Ordine dei Medici di Vercelli, e presieduto dal dott. Piergiorgio Fossale insieme al prof.  Michele di Francesco (ordinario di Logica e Filosofia della Scienza e rettore dello Iuss) :  11 eventi dal 2004 (anno in cui intervenne anche il noto neuroscienziato Antonio Damasio) fino a oggi che hanno fatto di Vercelli una meta obbligata  per gli appassionati in tutt’Italia di scienza e filosofia,  sia  per l’ approccio interdisciplinare ai vari temi di volta in volta presi in considerazione sia per  il coinvolgimento dei maggiori filosofi e scienziati contemporanei. Emozioni, intelligenza, libero arbitrio alcuni dei temi  cardine delle passate edizioni fino ad arrivare al filo conduttore dell’appuntamento di quest’anno : “il linguaggio dei viventi”.  Forse per la prima volta seduti intorno allo stesso tavolo esperti di fisiologia vegetale e di cognizione animale, neurologi e filosofi a indagare  le forme di comunicazione di tutti i  viventi,  inseriti nella catena evolutiva e analizzati nelle loro specificità. Il dott. Fossale introduce i lavori con un’affermazione che sarebbe di per sé degna di trattazione a  parte: “una comunità priva di cultura non è solidale, la cultura rende le persone migliori”: l’intera portata di questo concetto sarà ancora più evidente attraverso  l’ultimo intervento della giornata vertente su violenza e linguaggio. Nella fase introduttiva  si rinvia anche alla necessità, in un’era dove la rete può offrire tutto e il contrario di tutto, di possedere conoscenze adeguate al fine di esprimere opinioni fondate, ovvero alla necessità di acquisire capacità di discernimento e riuscire quindi a comprendere correttamente i fenomeni e la realtà che ci circondano. Il prof. Di Francesco evidenzia come anche grazie alle neuroscienze si sia oggi superata la rigida contrapposizione tra indagine umanistica e indagine scientifica (si pensi ad esempio alla neuroestetica).

Il primo interessantissimo intervento è quello del prof. Pierdomenico Perata, esperto di fisiologia vegetale, il quale spiega come le piante, nonostante non abbiano un cervello, siano dotate di forme di intelligenza e arrivino persino ad ingannare gli animali al fine di perseguire  esigenze di prosecuzione della propria specie. Le piante, per il fatto di non possedere come gli animali una faccia, ci coinvolgono meno da un punto di vista emotivo e cognitivo: in mezzo a un enorme campo pieno di erba la nostra attenzione verrà catturata ad esempio solamente dalla presenza, per quanto visivamente e proporzionalmente “irrilevante”, di un leone. Vale a dire, il mondo vegetale viene percepito come insignificante, per il fatto di essere troppo distante dal modo propriamente umano di esprimersi e comportarsi. Eppure anche le piante “sentono” e il professor Perata opera dei paralleli in base ai nostri cinque sensi. La vista:  le piante discriminano i colori e possiedono fotoricettori responsabili della sensibilità alla luce (fototropismo). Le piante  comprendono la differenza tra un tipo di ombra artificiale oppure “naturale” (ombra causata da un’altra pianta) attraverso il tipo di luce filtrata e in questo ultimo caso viene innescata una sorta di competizione che stimola  alla crescita verso l’alto. Il tatto:  Le piante percepiscono “presenze” tanto da arrivare in taluni casi a imprigionare insetti, riconoscono le superfici (tigmotropismo, vale a dire il movimento delle piante in risposta a uno stimolo tattile, come nei rampicanti) e reagiscono anche a stimoli come l’essere toccate da una mano  e questi stimoli possono influire sul prosperare o meno della pianta stessa. L’olfatto:  quando ad esempio una larva mangia una foglia è possibile che venga lanciato un allarme di tipo olfattivo (che rappresenta quindi una efficace forma di comunicazione) affinchè altre piante attivino sostanze tossiche e repellenti per gli insetti. Il gusto: l’allelopatia è un fenomeno che interviene nella competizione interspecifica e intraspecifica tra piante e in base al quale una pianta rilascia nel terreno sostanze che inibiscono la crescita e lo sviluppo di piante concorrenti, addirittura impedendo al genoma di altre specie di esprimersi.  L’udito: vi sono segni di sensibilità ancora da confermare. Il prof. Perata parla anche delle forme di comunicazione tra piante e animali con relativi “inganni”. Vi sono piante che producono semi che per aspetto e odore somigliano agli escrementi di antilope e sono  in grado di ingannare gli scarabei stercorari ignari di tutto ciò  che si nutrono di escrementi. Il fine è quello di indurre gli scarabei alla dispersione dei  semi in ambienti più lontani al fine di “colonizzare” , come specie, nuove aree. Potremmo quindi davvero dire che alcune esortazioni  metaforiche a  “non vegetare” andrebbero completamente riviste …

Segue l’intervento del prof. Giorgio Vallortigara, neuroscienziato autore di molti testi tra i quali significativa in questo contesto è la menzione di  “Cervello di gallina”,  volto ad abbattere molti stereotipi ancora diffusi sull’intelligenza di tali animali.  E’ ormai un dato acquisito che il cervello degli animali possiede fin dalla nascita diverse nozioni di fisica elementare, da cui ad esempio la capacità di orientarsi nello spazio,  una intuitiva comprensione del numero e della casualità, un cervello che rende anche possibile, in taluni casi,  la costruzione di strumenti e la soluzione di  problemi di natura logica, vale a dire anche gli animali non umani sono dotati di pensiero, apprendono a contatto con l’ambiente circostante, per tentativi ed errori,  e non rispondono solo a leggi di mero innatismo.  Parlando di alcuni meccanismi di base o della fisica “ingenua” (osservati  nei pulcini ma anche nei bambini) Vallortigara afferma che gli  animali sono dotati a suo avviso di pre-requisiti alla comprensione della natura, quello che Kant considerava “a priori”, una sorta di conoscenza necessaria che si è impressa nel corso dell’evoluzione biologica nel genoma rendendo possibili i processi di apprendimento e la comprensione del mondo naturale. Per quanto riguarda la soluzione di problemi logici, cui accennavo sopra, Vallortigara porta alcuni significativi esempi osservati  nei primati ma anche corvi (costruzione di strumenti o particolari espedienti per raggiungere ad esempio fonti di cibo), cosa che lo porta a parlare di evoluzione convergente, ovvero cervelli strutturalmente  diversi che giungono ciò nonostante a prestazioni simili. Entrando nel merito delle funzioni linguistiche Vallortigara sottolinea come la specificità umana consista nella capacità di costruire attraverso il linguaggio verbale complesse narrazioni, che,  aggiungerei io, hanno permesso di tramandare attraverso le generazioni una immensa mole di dati e quindi la cultura specificamente umana. Una forma di comunicazione quindi estremamente potente e creativa. Interagendo con il pubblico Vallortigara accenna a un dibattito oggi molto acceso riguardante lo sviluppo negli umani del linguaggio: secondo alcuni studiosi la funzione linguistica emergerebbe in modo per cosi dire spontaneo una volta raggiunta una certa complessità cerebrale e quindi mentale. Secondo altri (e per questa ipotesi propende   Vallortigara) sarebbe il risultato di specifici adattamenti e quindi relativamente indifferente alle qualità mentali complessive di una specie. In questa ottica evolutiva secondo Vallortigara risulta poco sensato parlare in termini di “mancanze” di una specie rispetto ad un'altra.

Il terzo intervento è quello del prof. Stefano Cappa, docente di neuropsicologia, che si sofferma ad indagare in particolar modo le importanti componenti fisiche che oggi sottendono alle funzioni linguistiche e alla percezione del linguaggio, ovvero le basi neurologiche di esso. Un intervento molto ricco e complesso in cui un posto d’onore spetta allo studio delle conseguenze delle malattie o lesioni cerebrali sulle funzioni della mente e sulle funzioni linguistiche. Il metodo principe forse della neuropsicologia a partire dalla famosa osservazione di Broca sulle conseguenze di una lesione cerebrale sul linguaggio articolato. Anche se il prof. Cappa sottolinea come in realtà le diverse modalità del linguaggio non siano localizzate in singole o precise aree cerebrali  e rinvia all’enorme variabilità delle manifestazioni cliniche dell’afasia e a complesse reti neurali coinvolte in aspetti specifici della elaborazione fonologica che rendono  difficile parlare in meri termini di centri dell’espressione  o precise localizzazioni, che non renderebbero conto della complessità del sistema. Si potrebbe quindi dire che lo studio della patologia del linguaggio oggi mantiene un ruolo molto importante nella ricerca sulla neurobiologia del linguaggio, sia come generatore di ipotesi che come base sperimentale di modelli psicolinguistici o neurofisiologici.  Molto interessante è stata ad esempio anche l’analisi delle violazioni sintattiche e relativa attivazione di aree neurali, laddove un soggetto veniva esposto ad una sequenza di parole ben formate da un punto di vista fonologico, potenzialmente compatibili morfologicamente ma messe insieme in modo non conforme alla sintassi della lingua italiana.

 Per quanto riguarda i nostri parenti più stretti, i primati, Cappa afferma che a suo avviso la differenza principale non riguarda per cosi dire la morfologia del cervello (molto simile) quanto piuttosto il tipo di connettività, che nel nostro caso potrebbe aver permesso lo sviluppo del linguaggio verbale.

L’ultimo straordinario intervento è stato quello della prof. Claudia Bianchi, docente di filosofia del linguaggio,  che a mio avviso dovrebbe essere invitata in ogni scuola a relazionare su quello che è stato il fulcro della sua  riflessione: linguaggio e discriminazione sociale. E qui torniamo allo spunto offerto inizialmente dal dott. Fossale su cultura e solidarietà. Bianchi comincia  con l’esporre il lato oscuro del linguaggio, citando La Tempesta di Shakespeare: “Calibano: Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire”.  Il linguaggio  secondo Bianchi ha essenzialmente due dimensioni, una dimensione descrittiva e una dimensione performativa, rappresentando anche uno strumento di gestione e trasformazione sociale nonchè un veicolo di ideologie. Il linguaggio come specchio della società riflette  le disuguaglianze sociali e fenomeni quali il sessismo, il razzismo e l’omofobia e quindi come costitutivo della società può contribuire a creare o rinforzare le disuguaglianze sociali.  I nomi sono mappe di senso e le definizioni e categorizzazioni influenzano ciò che gli altri si aspettano da noi, e come gli altri ci tratteranno: uomo e donna, eterosessuale e omosessuale, bianco e nero, straniero e italiano. Gli epiteti denigratori sono termini che hanno forte valenza emotiva, perloppiu di carattere negativo,  “weapons of verbal abuse” (Richard, 2008) e colpiscono individui e gruppi di individui in virtù della sola appartenenza a quella categoria: negro e nero, frocio e omosessuale, vu cumprà e ambulante, puttana e donna … Se da una parte è sancita per legge la libertà di espressione, dall’altra esistono dei limiti che non riguardano solo la calunnia e simili ma anche il cosiddetto hate speech e infatti in base ad una dichiarazione ONU del 1965 (Art. 4)  gli Stati si impegnano a dichiarare crimini punibili dalla legge ogni diffusione di idee basate sulla superiorità e sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale (…) cosi come ogni aiuto portato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento. Di particolare importanza in questo contesto la complicità e responsabilità di destinatari e ascoltatori: il silenzio o l’astenersi dall’obiettare agli usi degli epiteti può costituire una legittimazione degli usi denigratori. Il danno quindi è a carico non solo dei target ma anche  dei destinatari e ascoltatori casuali.Augurando al team organizzatore del Convegno di Neuroscienze di Vercelli buon lavoro in preparazione del prossimo evento!

Silvia Molè
(***)
http://www.vercellioggi.it/dett_news.asp?id=64958

 

 

 

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