329. L' Obiezione dei Custodi


Tratto da “Sulla democrazia” di Robert A. Dahl

“…per capire come ciò può accardere, immaginiamo che il membro di un piccolo gruppo di cittadini dica a voi e agli altri: “come voi anche noi crediamo fermamente nell’intrinseca uguaglianza. Ma non ci limitiamo a essere profondamente devoti al bene comune: sappiamo anche meglio di molti altri come realizzarlo. Dunque siamo molto più adatti della maggioranza della gente a governare. Perciò, se ci assicurate una autorità esclusiva sul governo, metteremo la nostra saggezza e i nostri sforzi al servizio del bene comune; e nel fare ciò terremo in uguale considerazione il bene e gli interessi di ciascuno.

La tesi che il governo dovrebbe essere affidato a persone esperte dedite a governare per il bene comune e superiori agli altri nella conoscenza dei mezzi per raggiungerlo – i Custodi, come li chiamava Platone – è sempre stata la principale avversaria delle idee democratiche. I sostenitori di questa tesi attaccano la democrazia in un punto apparentemente vulnerabile: negano che le persone siano competenti a governarsi da sé …

Delegare certe decisioni subordinate agli esperti non equivale a cedere il controllo finale sulle decisioni più importanti…

Le decisioni personali degli individui non sono equivalenti alle decisioni del governo dello stato …

Governare bene uno stato richiede qualcosa di più della pura conoscenza scientifica. Il governo non è una scienza come la fisica, la chimica o, al limite, la medicina. E questa affermazione è vera per diverse ragioni. Da una parte, praticamente ogni decisione politica importante, che sia personale o di governo, implica dei giudizi etici. Prendere una decisione sui fini che le politiche di governo tenderanno a raggiungere (la giustizia, l’equità, la felicità, la salute, la sopravvivenza, la sicurezza, il benessere, l’uguaglianza e simili) significa formulare un giudizio etico. E i giudizi etici non sono giudizi scientifici nell’accezione corrente. Inoltre, i fini giusti spesso sono in conflitto l’uno con l’altro e le risorse sono limitate…Nel decidere in che misura siamo disposti a sacrificare un fine, un valore o uno scopo per ottenerne un altro, oltrepassiamo per forza la sfera in cui la conoscenza scientifica in senso stretto può soccorrerci. Ma c’è un’altra ragione per cui le decisioni politiche comportano giudizi non strettamente scientifici. Se anche si raggiunge un accordo generale sui fini delle decisioni politiche, resta sempre un margine considerevole di incertezza e conflitto sui mezzi: come raggiungere il fine o le loro possibili conseguenze? quali sono i mezzi migliori per prendersi cura dei poveri, dei disoccupati, dei senza casa? In che modo gli interessi dell’infanzia sono meglio protetti e le condizioni dei bambini possono essere migliorate? Quale fetta del budget è necessaria alla difesa militare, e per quali scopi? E’ impossibile dimostrare, credo, che esista o possa essere creato un gruppo  di esperti in possesso delle conoscenze scientifiche per dare delle risposte univoche a simili domande. Preferiremmo affidare la nostra macchina da riparare a un fisico teorico o a un bravo meccanico? Per governare bene uno stato non basta la conoscenza. Ci vogliono anche l’incorruttibilità, una ferma resistenza alle enormi tentazioni del potere, una dedizione continua e inflessibile al bene pubblico piuttosto che agli interessi personali o del proprio gruppo. Il fatto che gli esperti possano essere qualificati per servire come nostri agenti non significa che siano qualificati a servire come nostri governanti….

Un sostenitore della tesi del Custode dovrà confrontarsi con una miriade di problemi pratici enormi. Come va istituito un tale sistema? Chi scriverà, per cosi dire, la costituzione e chi la metterà in pratica? come verra scelto il primo Custode? Se il sistema dovrà in qualche modo dipendere dal consenso dei governati e non dalla coercizione nuda e cruda, come ottenere il consenso?”

(Nota di Silvia: e qui arriviamo ad una bellissima pagina che riprende un passo che cito spesso di Amy Guttmann)

“…Se ai cittadini è richiesto di essere competenti, non occorreranno istituzioni politiche e sociali che li aiutino in questo? Indubbiamente. Offrire opportunità di crearsi una conoscenza chiara delle questioni pubbliche non è solo parte della definizione di democrazia, ne è un requisito fondamentale. Niente di ciò che ho detto implica per forza che una maggioranza di cittadini non possa sbagliare. E’ possibile e, infatti, accade. Ecco perché i sostenitori della democrazia hanno sempre assegnato un grande valore all’istruzione. Un’educazione civica non comporta solo l’istruzione scolastica, ma anche la pubblica discussione, la ricerca di un accordo, il dibattito, la controversia, la pronta disponibilità di informazioni affidabili e altre istituzioni proprie di una società libera….Dunque, se le istituzioni destinate all’educazione civica sono deboli, resta una sola soluzione soddisfacente. Esse devono essere rafforzate…forse le istituzioni destinate alll’educazione dei cittadini create nei paesi democratici durante il XIX e il XX secolo non sono più adeguate. Se è cosi, i paesi democratici devono crearne di nuove per supplire alle carenze delle vecchie”

328. Neuroscienze e Diritti Umani

Su Mente & Cervello di maggio 2015 uno splendido articolo, raccomandato l’acquisto della rivista, ancora meglio un abbonamento). A seguito un estratto.


Articolo di Daniela Ovadia

(…) Il rapporto sempre più stretto tra le neuroscienze e i diritti umani è stato al centro dell’ultimo congresso internazionale di neuroetica che si è tenuto a Washington alla fine del 2014, di fronte a una platea costituita in prevalenza da scienziati, ma anche da un simposio organizzato recentemente dalla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Zurigo, alla presenza di numerosi giuristi e di Andras Sajo, un giudice della Corte per i diritti umani di Strasburgo. (…) Quando sono stati elaborati, tra il XVIII e il XIX secolo, e anche nelle successive modifiche, giuristi e filosofi non si sono posti il problema dell’impatto che la scienza avrebbe potuto avere

(…) Prendiamo un diritto umano di base, uno di quelli che non sembrano discutibili, come il diritto all’educazione (…) Tutti i bambini dovrebbero poter accedere a una formazione adeguata, ma chi ne determina l’adeguatezza? Quando il diritto all’istruzione è stato stabilito, la maggior parte delle persone aveva un’idea ben precisa di ciò che intendeva con questo termine. Oggi però gli studi sull’apprendimento dimostrano che la realtà è molto più variegata. Prendiamo i disturbi dell’apprendimento (…) In sostanza alcune condizioni che oggi definiamo come disturbi potrebbero essere semplici varianti della norma che vengono alla luce perché tutto il nostro sistema educativo è costruito per i cervelli dlla maggioranza e non di questa minoranza che usa strategie diverse. In che modo ciò impatta sul diritto all’educazione è presto detto: se una persona ha un disturbo o una malattia, allora il diritto all’educazione prevede che le vengano forniti ausili perché possa ottenere il massimo dal sistema scolastico così come è concepito, spiega il giudice Sajo. Ma se la sua è una semplice variante del comportamento umano, è il sistema scolastico che deve cambiare nel suo complesso, per adattarsi al maggior numero possibile di varianti del comportamento (…). Le nostre scuole, così profondamente caratterizzate da una comunicazione basta su lettura e scrittura, potrebbero quindi essere obbligate a cambiare e ad aprirsi a modalità di comunicazione e apprendimento diverse, per esempio visive o uditive. (…)

Le neuroscienze possono rafforzare le battaglie in corso per l’applicazione di altri tipi di diritti umani, come quello alla sicurezza alimentare (…) Gli Stati Uniti hanno fama di essere un paese ricco e pieno di opportunità, ma le statistiche dicono che nel 2014 il 21,6 per cento dei bambini ha sofferto di insicurezza alimentare, cioè ha mangiato solo saltuariamente oppure ha avuto accesso solo a cibo povero dal punto di vista nutrizionale e le ricerche sullo sviluppo cerebrale ci dicono che la malnutrizione in età precoce è associata ad altri fattori di stress psicosociale e a una cattiva salute nell’età adulta. Tra gli effetti negativi vi sono anche deficit delle competenze sociali, disturbi dello sviluppo del linguaggio, dell’autocontrollo emotivo e delle abilità di problem solving (…)Secondo la Chilton e altri esperti di diritto ci sono gli estremi per agire legalmente contro lo Stato che non garantisce l’accesso al cibo di qualità a tutta la sua popolazione, sulla base del diritto universale all’alimentazione. Ogni anno negli Stati Uniti si spendono miliardi di dollari in psicofarmaci e farmaci per i deficit di attenzione nell’infanzia, per non parlare della depressione adolescenziale, ma che ruolo ha la cattiva o insufficiente alimentazione in tutto ciò? A mio avviso ci sono tutti gli estremi per dire che le politiche alimentari negli Stati Uniti violano la Convenzione dei diritti del bambino dell’ONU del 1989, che stabilisce tra l’altro che il minore, in ragione della sua immaturità fisica e mentale, ha diritto a particolari protezioni prima e dopo la nascita al fine di raggiungere, come recita la Convenzione stessa, il più elevato livello possibile di salute. Secondo la Chilton non è un caso che solo tre paesi, nel mondo, non abbiano ratificato questa Dichiarazione: la Somalia, il Sudan del Sud e, appunto, gli Stati Uniti. E la sua speranza è che le prove scientifiche a sostegno dell’utilità di determinate politiche sociali riescano a convincere i deputati della destra statunitense ad abbandonare le loro campagne contro qualsiasi forma di aiuto economico alle famiglie più povere.

(…) L’amore dei genitori deve diventare un diritto umano riconosciuto come quello al cibo. E’ infatti una condizione essenziale per avere successo nella vita, come dimostra uno studio del 2012 condotto dalla Washington University School of Medicine a St. Louis. I colleghi hanno studiato lo sviluppo dell’ippocampo in 92 bambini, scoprendo che quelli accuditi amorevolmente nelle fasi precoci dell’esistenza hanno un ippocampo più grande degli altri. L’ippocampo è un’area essenziale per la memoria e l’apprendimento, e anche se il volume non è necessariamente correlato alla funzione un ippocampo più piccolo e atrofico può spiegare le difficoltà di apprendimento dei bambini poco amati (…) Se dovessimo tenere in conto quanto dicono le neuroscienze, bisognerebbe cambiare la modalità di gestione delle adozioni, conclude provocatoriamente Lia

 

 

327. Dire quello che si pensa

di LORENZO LEONE

E’ un luogo comune. Non lo ritrovo fra quelli di cui Bloy fa l’esegesi e dunque ci provo io a offrirne un’interpretazione. Ci sono arrivato mentre leggevo una notiziola su Corriere.it. Tale Belloli, presidente della Lega calcio dilettanti, ha detto: «Basta dare quattro soldi a queste quattro lesbiche!». Parlava del calcio femminile, che è, credo, disciplina olimpica, ma che in un paese di calciofili (pingui, semianalfabeti e teledipendenti) non deve riscuotere un grande apprezzamento. Tutto questo valga come premessa ché il succo viene ora. Fra i commenti dei soliti fenomenali lettori leggo: «Qualcuno che dice quello che pensa…». Ecco, giustappunto, il mio luogo comune.

Ora, dire quello che si pensa significa, per chi lo rivendica per sé o per gli altri, dire una qualunque sciocchezza, anzi, dire la peggiore delle sciocchezze e, contemporaneamente, pretendere di farla franca. Va da sé che l’apprezzamento per questa clamorosa mancanza di peli sulla lingua vale soprattutto per sé e per gli amici: non sia mai che a dire quello che pensa sia un avversario, il vicino di casa, un connaisseur. Allora è mancanza di riguardo, è sgarbataggine, ingiuria, diffamazione.

Ho detto che Bloy non parla di questo luogo comune; tuttavia ritrovo qualcosa nel capitoletto intitolato «Les pensées de derrière la tête [I pensieri dietro la testa]». La riserva mentale è un po’ il pendant del dire quello che si pensa. La riserva mentale, infatti, concede a Tizio o a Caio di tacere i pensieri troppo sfacciati («de
devant la tête», dice Bloy), i pensieri di facciata («pensées de façade»), e, contemporaneamente, di farsi i fatti propri. (P. S. Il traduttore italiano per le Paoline, il bravo Auletta, traducendo «Les pensées de derrière la tête» con «La riserva mentale», si perde tutti i calembour di Bloy).

http://appiasnero.blogspot.it/2015/05/dire-quello-che-si-pensa.html

326. Intelligenza e "razze"

di Guido Barbujani

“In un racconto di Jorge Luis Borges ci sono due re in guerra fra loro. Il primo, sconfitto, viene rinchiuso in un labirinto; se ne uscirà vivo, sarà libero. Ci riesce, torna in patria, arma un esercito, muove di nuovo guerra all’altro, lo vince. Dopo di che lo abbandona in mezzo al deserto spiegandogli: “Ecco questo è il mio labirinto; se ne esci vivo sarai libero”. Quale è il test d’intelligenza più difficile: uscire da un labirinto-deserto o da un labirinto-labirinto? La risposta non è banale, anche perché forse la domanda è mal posta: per uscire vivi dal deserto occorrono capacità che a prima vista non c’entrano niente con la logica, la prontezza di ragionamento, l’abilità di apprendere e stabilire collegamenti, insomma, con le caratteristiche che ci fanno pensare di qualcuno: “Com’è intelligente”. Ma l’intelligenza viene spesso definita come la capacità di risolvere problemi, e se è cosi qualunque problema va bene per misurarla, anche quello di salvare la pelle in mezzo al deserto. E poi – si può aggiungere – è intelligente fare quello che ha fatto il secondo re, e cioè sottovalutare così clamorosamente l’avversario? E nell’atteggiamento del primo re, che in sostanza gli dice: “ti piacciono i quiz? Bene, eccone uno semplicissimo, ma lo piazzo in un contesto in cui voglio vedere se riesci a risolverlo”, non ci sono  arguzia e senso del paradosso, due caratteristiche che vanno a braccetto con l’intelligenza? Insomma, ci capita ogni giorno di pensare che il tale è intelligente e il talaltro no, e magari spesso ci azzecchiamo, ma se ci riflettiamo un poco su, i confini di un concetto apparentemente cosi semplice sfumano. Si può essere intelligenti in tanti modi diversi. Se fosse proprio così, l’intelligenza potrebbe essere avvicinata alla bellezza o alla felicità: caratteristiche che sappiamo riconoscere nel prossimo abbastanza bene ma che sfuggono a una valutazione scientifica, cioè quantitativa perché possiamo valutare solo soggettivamente. D’altro canto non c’è dubbio che l’intelligenza, qualunque cosa sia, è un prodotto della nostra mente (…) Insomma, se l’intelligenza dipende almeno in parte da qualcosa che sta nelle nostre cellule, cioè dai nostri geni (…) studiarla scientificamente non è impossibile (…). Attenzione però: una misurazione è scientifica se ripetibile. Due diversi ricercatori che studino la stessa quantità, devono arrivare a misure uguali o molto simili, se non vuol dire che nei loro calcoli ci sono elementi di soggettività che bisogna eliminare, pena sconfinare dalla scienza nella pseudoscienza. E’ per questa ragione che non disponiamo di misure scientifiche della bellezza e della felicità. Ciò che è bello per uno non è detto che sia bello per gli altri (…). Quanto all’intelligenza non c’è da stupirsi se, anche in assenza di una buona definizione, ci abbiano provato in tanti a misurarla: è un tema troppo interessante e troppo importante (…)

Le razze sono tornate di moda nella scienza (…)

I segni zodiacali sono Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, eccetera. Molti non credono all’oroscopo, ma per quelli che ci credono i segni sono dodici e sono quelli. Se qualcuno sostenesse che sono quindici e qualcun altro non riconoscesse Sagittario e Capricorno, l’astrologia non starebbe in piedi nemmeno formalmente. Dal punto di vista formale, lo studio scientifico delle razze è meno credibile dell’astrologia, perché in tre secoli non è riuscito a stabilire né il numero né la definizione delle entità di cui vorrebbe occuparsi.

(…) Fra gli articoli citati come scientifici in The Bell Curve ci sono quelli di John Philippe Rushton (…) sostiene di aver scoperto una relazione inversa fra dimensioni del cervello (che lui, come i craniologi dell’800 considerano una buona misura dell’intelligenza) e dimensioni dei genitali maschili. I neri hanno cervelli piccoli e poco efficienti perché hanno i genitali grandi; viceversa, il quoziente di intelligenza sarebbe massimo negli asiatici, che però dal punto di vista dell’altro parametro non se la cavano granchè bene. Per fortuna c’è chi raggiunge un miracoloso equilibrio tra capacità intellettuale e lunghezza del pene. Indovinate chi? Giusto, bravi: i bianchi (…)

(tratto da “sono razzista ma sto cercando di smettere")

 

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