325. Il bene relativo

Sul numero attuale di Mente & Cervello troverete un bellissimo articolo (“il bene relativo”)  vertente sul quesito che si pongono anche i ricercatori nel campo della neuroetica: l’osservazione del cervello può aiutare a definire una morale innata? Esistono norme saldamente radicate nel cervello umano? Il dibattito è ancora aperto e si è lungi dall’avere risposte definitive, ma ci ha fatto molto piacere avere alcune conferme su  riflessioni precedenti ( N. 43 del sito FL nella parte finale “fondamento dell’etica”). Riportiamo qui a seguito i passaggi dell’articolo che  troviamo piu interessanti:

(…) Senza dubbio ci sono pilastri su cui si fonda ogni società, per esempio il divieto di uccidere truffare o rubare: si tratta di proibizioni essenziali per una comunità funzionante, ma sono anche naturali? (…) Chiaramente è tutt’altro che banale cercare di fissare i confini fra una morale acquisita attraverso la socialità e una morale innata. Filosofi e teologi hanno ritenuto per secoli che le regole dell’etica ci fossero state date da Dio (…) Il principio della reciprocità è considerato ancora oggi universale da molti pensatori etici, eppure ciò dipende probabilmente solo dalla sua grande astrattezza. Rimane imprecisato quali concrete richieste sotto forma di prescrizione quotidiane ne derivino.  In problemi così concreti come quelli che hanno a che fare con la possibilità di mangiare animali, ed eventualmente quali, o di quali forme della sessualità si possono praticare, oggi domina un relativismo etico probabilmente unico nella storia (…) Ci sono innanzitutto due indizi relativamente forti del fatto che potremmo avere già alla nascita una determinata proprietà o comportamento: un indizio è se qualcosa di paragonabile possa essere riscontrato anche in altri animali, e l’altro è se questo qualcosa compaia in modo uniforme anche in altre culture. In verità anche altri mammiferi mostrano manifestazioni di sdegno morale simili a quelle dell’uomo. Tuttavia qui ci si riferisce solo a situazioni nelle quali l’uomo stesso può trovarsi carente, e non si trova alcuna traccia di connessioni universalmente valide. Nel confronto interculturale sorprende che principi che appaiono universali come quello di partecipazione o di reciprocità vengano espressi e vissuti in modi cosi diversi (…).

In conclusione facciamo un piccolo test e cerchiamo di stabilire, senza lasciarci condizionare dai nostri istinti viscerali, quanto ci sembrino (im)morali le azioni descritte di seguito. Pronti? Essere infedeli. Fare donazioni alle vittime di terremoti. Uccidere un bambino. Risparmiare corrente. Esportare armi. Viaggiare senza biglietto. Essere vegetariani. Tradire un segreto. Mentire a un amico.

Va bene, è stato facile. Ma che ne dite di del fatto di mangiare carne? Di rivelare le azioni illegali compiute dai servizi segreti? Di scegliere un’interruzione di gravidanza di fronte alla possibilità di avere un bambino disabile? Di fornire armi all’Iraq? Di mentire a un amico per proteggerlo da se stesso?

E’ chiaro che il giudizio su un’azione dipende fortemente dal contesto, si tratti della situazione personale (nel caso di una menzogna), del fine perseguito (nel caso di un tradimento) o del contesto politico (nel caso delle armi). Questi pochi esempi dimostrano che spesso non c’è alcuna soluzione moralmente corretta: dobbiamo sempre decidere come se fosse la prima volta, prendendo la decisione che giudichiamo più favorevole e ponderando i costi etici della nostra scelta (…)

Questa disciplina ci insegna però almeno una cosa: nemmeno il bene e il male hanno avuto origine nel nostro cervello, ma solo la nostra capacità di percepirlo. L’uomo è nato per avere una morale, non per avere una morale ben precisa.


 



 

324. Il cervello plastico

IL CERVELLO PLASTICO di Jan H. Robertson

qui a seguito riportiamo alcuni passi che costituiscono una meravigliosa integrazione della posizione del genetista Barbujani sul tema INTELLIGENZA  (e anche una conferma).

(pag. 181)

(…) Ecco la prova concreta che quanto impariamo da bambini scolpisce fisicamente il nostro cervello e ne condiziona radicalmente il funzionamento. Questo risultato è tanto più soprendente se si considera che le donne istruite, il cui cervello era così diverso da quello delle donne analfabete, avevano soltanto quattro anni di istruzione alle spalle. Immaginate dunque quale sarebbe il divario dopo quindici o vent’anni di studio (…)

(pag. 196 – 200)

(…) Una bassa scolarizzazione inibisce l’intelligenza e limita l’intelletto dei bambini per tutta la vita (…) In altre parole, la loro intelligenza viene compromessa, in quanto le sinapsi del loro cervello non vengono plasmate come accadrebbe se ci fossero insegnanti validi ed esperti (…) Alcuni eminenti accademici ritengono che l’intelligenza sia quasi interamente dovuta a fattori genetici. Questa ipotesi, tuttavia, non va d’accordo con un quoziente intellettivo che cresce o diminuisce a seconda del tipo di stimolazione con cui il cervello infantile viene sottoposto. Va comunque notato che le interazioni tra geni e l’ambiente sono di natura così complessa che quest’evidenza non è esaustiva del fatto che l’ambiente esterno abbia un effetto dominante sull’intelligenza.  Un test critico sull’importanza dell’esperienza e dell’ambiente consisterebbe nel togliere bambini a famiglie povere  - di basso stato socio-economico (SES) – e farli adottare da famiglie di alto SES e viceversa. Questo studio  è stato effettivamente condotto in Francia e ha fornito la prova decisiva della tesi che l’intelligenza è condizionata dall’ambiente (…) In altre parole, l’ambiente aveva un effetto sull’intelligenza altrettanto importante, se paragonato all’eredita biologica. Questo è esattamente il tipo di previsione che deriva dall’ipotesi di un cervello plasmabile dalla scultura dell’esperienza.

Naturalmente il parametro di SES è un indicatore molto grossolano del grado di stimolazione da parte dell’ambiente familiare. Alcune famiglie molto povere offrono ai loro bambini un ambiente estremamente stimolante e intuitivamente sono molto attenti alla qualità dell’input cerebrale. All’opposto, molte famiglie benestanti spesso sono del tutto insensibili all’appetito sinaptico del cervello dei loro figli. In quest’ottica, i risultati dello studio francese sulle adozioni sono assai significativi, e lo sarebbero stati ancor più se i ricercatori avessero potuto studiare la qualità delle interazioni e della stimolazione in queste famiglie.  Dove ciò è stato possibile, sono state messe in luce influenze dell’ambiente sull’intelligenza ancora maggiori rispetto ai risultati ottenuti misurando solo il paramentro SES (…) La difficoltà nel determinare quanto un particolare comportamento sia influenzato dai geni è che ogni singolo effetto può essere misurato solo in un particolare ambiente (…)

Dunque, quando oggetto di studio è la complessità del comportamento umano, è impossibile quantificare con assoluta certezza l’influenza genetica: una qualsiasi stima percentuale è soggetta ad un errore dovuto al particolare ambiente entro cui gli effetti di natura genetica vengono misurati. Ciò vale anche per il gene dell’intelligenza IGF2R: se questo sia responsabile per il 10 per cento o per il 90 per cento della variabilità dell’intelligenza nei diversi individui non può essere stabilito come una costante universale, in quanto il risultato dipende dall’ambiente in cui vengono effettuate le misurazioni (…)

Rilevante invece è l’enorme potenziale del cervello umano esposto alla scultura da parte dell’esperienza e dell’insegnamento,  e non esiste un veto facilmente individuabile di natura genetica alle nostre aspettative su ciò che la scultura cerebrale può ottenere.  I governi, le società, le scuole e i genitori possono fare davvero molto per influenzare il cervello dei bambini.

(pag. 42)

(…) L’ovvia domanda è: i musicisti che si sono esercitati più assiduamente sono quelli con l’area cerebrale dedicata alla mano sinistra più sviluppata? La risposta è no. Ciò che ha determinato le dimensioni di quell’area cerebrale è l’età a cui hanno iniziato a suonare il loro strumento (…)

n.d. r. Una delle piu recenti e interessanti ricerche sul cervello plastico

http://www.lescienze.it/news/2013/05/10/news/gemelli_identici_cervello_diverso_plasticit_ippocampo-1649766/



http://www.scienzainrete.it/files/i_forconi_della_genetica.pdf



 

 

 

323. Superamento dell'utilitarismo


Reputiamo  di fondamentale importanza il contenuto di questo estratto da un saggio di Amartya Sen “La libertà individuale come impegno sociale”. Ci si trova spesso confrontati con questo tema senza riuscire a dare risposte soddisfacenti. Amartya Sen  parte qui dalla critica dell’utilitarismo, pur non negandone del tutto taluni risvolti storici positivi.

“…La tradizione utilitarista sottolinea non tanto la libertà di raggiungere risultati, quanto piuttosto i risultati conseguiti. Inoltre, essa valuta questi risultati in termini di condizione soggettiva, quale il piacere o il desiderio (“utilità”) …Un diverso tipo di difficoltà riguarda le distorsioni che si generano quando le condizioni soggettive del piacere e del desiderio si adeguano a situazioni di persistente diseguaglianza. Intendo dire che in circostanze di diseguaglianza e iniquità di vecchia data, i diseredati possono essere indotti a considerare il proprio destino come praticamente inevitabile, da sopportarsi con rassegnazione.

Essi imparano ad adattare di conseguenza desideri e piaceri, perché non ha molto senso  continuare a struggersi per quanto non sembra loro realizzabile e le cui prospettive essi non hanno mai avuto motivo di considerare attentamente. Il calcolo utilitaristico è in realtà profondamente distorto nel caso di coloro che, essendo cronicamente in condizione di privazione, non hanno l’ardire di desiderare di più di quanto già non posseggono e gioiscono per quanto possono dei propri piccoli sollievi, perché le privazioni appaiono loro meno acute usando il distorto paramentro dei piaceri e dei desideri.

La misura dell’utilità può isolare l’etica sociale dalla valutazione dell’intensità della privazione del lavoratore precario, del disoccupato cronico, del coolie sovraccarico di lavoro o della moglie completamente succube, i quali hanno imparato a tenere sotto controllo i propri desideri e a trarre il massimo piacere da gratificazioni minime …Consentitemi di illustrare questo punto facendo riferimento a due dei maggiori insuccessi sociali del mio paese, l’India.  Il primo concerne la disuguaglianza dei sessi …è stato sottolineato come le donne dell’India rurale non provino invidia per la posizione dell’uomo…e non ambiscano a un cambiamento …La vera questione riguarda l’interpretazione e la significatività di questa osservazione empirica. In un senso oggettivo le donne nell’India rurale sono veramente meno libere degli uomini per molti versi, e non vi è nulla nella storia del mondo che stia ad indicare che le donne non apprezzerebbero una maggiore libertà se effettivamente giungessero ad averla (invece di considerarla come impossibile o innaturale). L’assenza di scontenti o di spontanei desideri di mutamento radicale non può eliminare la rilevanza morale di questa diseguaglianza se la libertà individuale – compresa la libertà di valutare la situazione del singolo e la possibilità di cambiarla – viene accettata come un valore fondamentale.

Dunque, mentre i difensori dello status quo trovano conforto a sostegno delle loro tesi in almeno alcune versioni dell’utilitarismo, questa difesa non può essere mantenuta se la libertà individuale diviene veramente un impegno sociale. Poiché sfruttamento e diseguaglianza persistenti spesso prosperano creandosi alleati passivi proprio in coloro che vengono bistrattati e sfruttati, la discrepanza tra argomentazioni basate sull’utilità ed argomentazioni basate sulla libertà può essere netta e ricca di conseguenze. Il secondo esempio riguarda l’analfabetismo …un’argomentazione che viene spesso avanzata è che l’analfabeta indiano non è particolarmente scontento del proprio stato e l’istruzione non rappresenta uno dei desideri più intensi dell’indiano che di essa è privato…ma l’analfabetismo rappresenta una mancanza di libertà, non solo una mancanza della libertà di leggere ma anche una riduzione di tutte le altre libertà che dipendono dalle forme di comunicazione in cui è necessario il possesso delle capacità di leggere e scrivere.

Qui, di nuovo, un’etica sociale che faccia perno sulla libertà ci porta in una direzione piuttosto differente rispetto a quella indicata da calcoli sociali basati sui piaceri o sui desideri.

 

 

 


 

 

 

322. Le persone pazienti

di Giuseppe Prete

 

 Ammiro le persone pazienti

La pazienza una delle virtù più sconosciute all’indole di molti, compresa la mia. La pazienza è, indubbiamente, un esercizio che rafforza tutti coloro che la praticano o quanto meno tentano di coltivarla. Innanzitutto consente di ottenere una diversa percezione del tempo. Infatti è proprio delle persone pazienti conferire al tempo una diversa durata, permettendo agli eventi di fluire secondo il loro naturale corso, senza creare attriti o forzature. L’impazienza, per contro, è “irrispettosa” poiché esige “tutto e subito” con la medesima insistenza con cui un picchio logora il tronco di una pianta: un tipico atteggiamento infantile, che con ostinata recalcitranza violenta i tempi naturali degli accadimenti.

Ma perché si è così impazienti? Una delle ragioni profonde può essere riconducibile all’autoreferenzialismo, per cui il mondo e le persone devono adattarsi ai nostri tempi e alle nostre esigenze, subordinando tutto il resto a queste ultime. Questo tipo di approccio risulta essere una vera e propria lente distorta con cui si interpreta la realtà in quanto non la osserva, cogliendone attentamente le sfumature, bensì ne produce, il più delle volte del tutto inconsciamente, una parallela, inesistente poiché del tutto soggettiva. Questa disfunzione interpretativa è riconducibile anche ad un’insicurezza di fondo. Infatti per ottenere un risultato, in qualunque ambito, bisogna sapere aspettare. Tuttavia, si sa che l’attesa produce quantità di tempo in cui si è inconsapevoli di come andranno le cose, in cui le variabili non sono prevedibili e controllabili, ed è proprio in queste fasi delicate che non bisogna forzare gli eventi ma essere capaci di pazientare: in alcune circostanze prendere iniziative è solo un rischio inutile e dannoso.

Dopotutto, secondo l’etimologia del termine, pazientare significa avere la capacità di “subire”, non per viltà o mancanza di reattività ma per lungimiranza. Un “subire”- ma anche più genericamente “sentire” - che guarda avanti, che prepara e capitalizza i risultati futuri. Un’azione silenziosa e immobile che non si dimena alla ricerca di soluzioni immediate ma sa ponderare e discernere, sostenibile esclusivamente da chi possiede una temprata forza d’animo. E non è un caso che tutte le persone sagge siano anche pazienti. Come suggeriva sapientemente E. De Filippo nella commedia “Napoli milionaria”: “Ha da passà 'a nuttata”.

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