313. L'Etichetta

Yukio Mishima (1925-70), "Lezioni spirituali per giovani samurai" (1968-69)
 

L'ETICHETTA

Si dice che il kendō inizi e finisca con un inchino, ma dopo il primo inchino, l'unico obiettivo è colpire l'avversario. Questo simboleggia egregiamente la realtà dell'universo virile. Prima del combattimento è necessario osservare una determinata etichetta che rappresenta la premessa dello stesso combattimento. Ma cosa è più importante, l'etichetta o il combattimento? Secondo i principi del kendō prevale la cortesia, l'etichetta. Per quale motivo? Fin dai tempi più antichi, come appare chiaro nei tornei dei cavalieri, è l’etichetta a regolare le contese nell'universo virile. Nell'etichetta è naturalmente insito un codice morale, che si esprime anche nelle norme sportive. Una disciplina sportiva praticata senza il rispetto per le norme non è più tale, diviene qualcosa di spregevole: violarne il codice conduce alla disfatta.

Le buone maniere non presuppongono tuttavia ubbidienza all'altrui volontà. Sebbene l'etichetta sia per un uomo una premessa essenziale, cui deve assolutamente assoggettarsi, si è diffusa ai giorni nostri la strana credenza che un atteggiamento sincero e spontaneo possa giungere più direttamente all'animo di chi ascolta. Soprattutto colui che è ambizioso è invece tenuto a rispettare l'etichetta, più di chiunque altro; se lo farà, potrà persino esibirsi danzando nudo mentre beve il sake, essendosi ormai conquistata la fiducia dell'interlocutore che giudicherà la sua danza come un atto estremamente spontaneo e rassicurante. Questa tattica non funzionerebbe affatto se egli fosse solito comportarsi con sregolatezza. È per questo che esiste un'etichetta, capace di mantenere la dignità dell’uomo, ed è solo lasciando trasparire da essa la naturalezza, l'immediata spontaneità della natura umana, che si accresce il proprio potere sul prossimo.

Il modo, ad esempio, in cui attualmente ci si esprime per telefono è semplicemente stupefacente: persino nella scelta delle parole si è diffusa in Giappone un'assoluta mancanza di delicatezza verso i sentimenti altrui. Il linguaggio è, in tutte le sue sfumature, l'asse portante dell'etichetta e, immaginando che l'etichetta sia una porta, un linguaggio appropriato e meticolosamente adattato all’interlocutore assolve le funzione dell'olio con cui si ungono le serrature. Ma nei tempi moderni esse cigolano troppo, poiché nessuno si preoccupa ormai di oliarle.

È assolutamente errato supporre che gli altri possano comprendere i nostri sentimenti profondi. L'animo umano conserva sempre una parte ignota anche all'amico più intimo e più a lungo frequentato. Le parole sono il ponte che ci unisce agli altri esseri umani, ma deve essere un ponte completo, provvisto di parapetto e di gibōshu. Tutto ciò è fornito dall'etichetta. E proprio per questo l’esercito è saldamente diretto da una rigida etichetta, ne è pervaso, ma l'etichetta non giova soltanto all'esercizio della vita militare: un comportamento dettato da una buona educazione contribuisce a esaltare la virilità negli uomini.

Se nelle nostre azioni non fossimo mai tesi verso un obiettivo di conquista, non avremmo alcuna necessità di comportarci secondo l'etichetta. O se ci ribellassimo alla società e decidessimo d'isolarci completamente rifiutando ogni rapporto con gli altri esseri umani, sarebbero persino superflui i ringraziamenti e i saluti. Invece gli studenti che partecipano a dimostrazioni politiche e si oppongono al governo, benché si ribellino al potere, esigono nei rapporti reciproci un rigoroso rispetto delle differenze gerarchiche tra studenti di classi superiori e inferiori. Apprendono infatti spontaneamente che, ovunque agisce il desiderio di potere, s'impone un'etichetta, un codice di comportamento, seguendo il quale si accresce la propria autorità.

Lo schieramento dei riformisti non è dunque diverso da quello dei conservatori nell'esigere con assoluto rigore il rispetto di determinate norme di comportamento. Persino illustri scienziati che sono soliti criticare ferocemente il governo, impongono nei laboratori un severo rispetto di certe norme cerimoniali agli allievi. I loro assistenti di certo non sospettano a qual punto la trascuratezza nel preparare il tè per i superiori possa influire negativamente sulla carriera. Si può dedurre da questo che il mondo virile ha molte affinità con lo sport. Ci si disputa la vittoria seguendo determinate regole, che servono a velare il latente, radicale antagonismo tra i partecipanti. [...]

Per quanto mi riguarda, ho la ferma certezza che la bellezza virile sia esaltata proprio dall'autocontrollo e dalle norme di comportamento, così come è piacevole un uomo elegantemente abbigliato con un kimono da cerimonia perfettamente inamidato. Un anno, al culmine dell'estate, mi recai al Ryu kan, una famosa palestra di arti marziali di Kumamoto, dove mi esercitai al kendō con alcuni giovani. Conservo un indelebile ricordo di uno di loro, un giovane dell'ultimo corso che, grondante di sudore, s'inginocchiò con il busto perfettamente eretto verso un piccolo altare e con voce squillante comandò agli altri: « Saluto! ». Suscitò in me un’impressione di freschezza, come se in quell'istante si fosse lacerata la cortina di paura che mi opprimeva. Mi parve che quello fosse un esempio perfetto di come un cerimoniale possa rendere affascinanti i giovani, molto più affascinanti di coloro che vivono in un modo sregolato e confuso.

Yukio Mishima (1925-70), "Lezioni spirituali per giovani samurai" (1968-69), Feltrinelli, Milano 2006, pp. 19-22

312. Filosofia Bene Comune

VERCELLI CROCEVIA DEL PENSIERO – FILOSOFIA BENE COMUNE

(da Vercelli Oggi)

Vercelli è di fatto diventata una meta obbligata per chiunque desideri confrontarsi con il pensiero del nostro tempo nella sua più ampia accezione: filosofia, scienza, arte, musica, poesia, letteratura. Un luogo che viene scelto sempre più spesso come sede privilegiata di convegni di altissimo livello con relatori  internazionalmente noti, convegni che spesso si svolgono sullo sfondo di paesaggi architettonici unici, che ne costituiscono quindi la più degna integrazione e cornice. Modi e luoghi dell’eccellenza.

Ed è infatti nella magnifica “Cripta” dell’Abbazia di S. Andrea che si è svolto – dal 27 al 29 novembre -  il Convegno Nazionale 2014 della Società Filosofica Italiana (SFI), organizzato dal presidente della sezione Torino/Vercelli Leslie Cameron Curry,  laddove il filo conduttore è stato: Filosofia Bene Comune. Moltissimi i relatori che si sono alternati nel dibattito (*) offrendo al pubblico un’occasione unica per immergersi in quella disciplina che da moltissimi secoli continua ad affascinarci conservando intatta la sua forza, la sua immaginazione, la sua potenza creatrice nell’offrirci sempre nuove e più ampie prospettive sul mondo e sulla società in cui viviamo, nello stimolare le nostre capacità critiche e di comprensione relativamente a noi stessi,  noi stessi e gli altri, e dando centralità alle eterne domande che accompagnano questo  nostro viaggio.

Non sorprende quindi che la filosofia sia da considerarsi un bene comune, ovvero una disciplina che giova all’intera comunità, e che in quanto tale dovrebbe essere accessibile a tutti. Un bene universalmente fruibile, in quanto, come aria e acqua condizione essenziale, strumento irrinunciabile per lo sviluppo dell’intero genere umano. Da qui tutta una serie di considerazioni concrete relativamente all’insegnamento della filosofia nelle scuole pubbliche, a ventilate riduzioni di ore e a quell’ampliamento agli istituti tecnici che io stessa caldamente sosterrei , in quanto essa, anche quale strumento di critical thinking,  non può rimanere un privilegio esclusivo degli studenti liceali o di specialisti del settore. Particolare rilevanza assume qui anche il concetto irrinunciabile di interdisciplinarietà, ben sottolineato nel convengo dal prof. Francesco Coniglione, sulla base del quale uno scienziato oggi non può più “appaltare” la riflessione etica sul proprio operato ai filosofi cosi come i filosofi non possono esimersi dalla continua interazione con il mondo della scienza, che come la storia insegna può ripercuotersi in maniera rilevante anche sulla nostra concezione del mondo. E qui ben si inserisce anche la riflessione del prof. Maurizio Pagano sull’importantissimo concetto di intercultura, ovvero tutta quella riflessione filosofica di base che ci mette in grado di affrontare in modo dettagliato e non superficiale i rapporti tra le culture, il fenomeno dei flussi migratori e l’origine stessa dei conflitti tra di esse.

Pure,  è stata volta l’attenzione sulla diffusione, in un certo grado,  di  un’immagine distorta della disciplina filosofica, come esposto dal prof. Claudio Ciancio, nel senso di attività inutile o peggio ancora chiacchera da talk show, ovvero la difficoltà a riconoscere in essa un bene comune. Il prof. Giovanni Boniolo con un intervento leggermente e intelligentemente provocatorio ha sottolineato come la filosofia debba anche servire a risolvere problemi, a fornire risposte concrete ai problemi della società in cui ci troviamo a vivere, e come questo di fatto già accada:  importante che i filosofi siano disposti a “sporcarsi le mani”, ovvero ad affrontare non soltanto questioni puramente teoretiche ma anche ad entrare nel vivo dei dibattiti contemporanei  (uguale che si tratti di bioetica, ecologia, economia, lavoro o altro) diventando promotore di sviluppo ed entrando nei processi decisionali.

Sul tema bene comune è stato rilevantissimo anche il contributo del prof. Ugo Mattei su genealogia e fenomenologia dei beni comuni, e il suo rilevare come anche il diritto sia stato eccessivamente professionalizzato (a scapito di una più ampia fruibilità) a seguito del declino della percezione sociale di giustizia. Di enorme interesse anche la sua riflessione sulla rottura di quel compromesso che rendeva possibile al potere statale controllare adeguatamente i poteri economici.

Quale appassionata di logica e teoria dell’argomentazione, nonché curatrice di un sito vertente su questo tema,  non ho potuto non apprezzare particolarmente anche l’intervento della prof. Mariangela Ariotti sulla scrittura filosofica, nel corso del quale è stato citato Chaim Perelman e soprattutto,  sulla base dei dialoghi galileiani,  si è preso riferimento al tema delle fallacie logiche, cosi importante per rilevare le trappole argomentative alle quali ogni giorno siamo sottoposti attraverso i media e anche il mondo della politica.
Purtroppo impossibile riassumere in questa sede, seppur brevemente, tutti gli interventi. Ma a dimostrazione dell’ampio orizzonte preso in considerazione dalla disciplina filosofica citerò anche il tema cibo, molto attuale in ottica Expo, magnificamente affrontato dal dott. Renato Lavarini: il tema dell'alimentazione è socialmente uno tra quelli più alla moda e più critici tanto nella vita quotidiana quanto nel mondo della comunicazione e della formazione. I filosofi non hanno mai frequentato in maniera completa e complessa tale tema che trova maggiore attenzione negli ultimi 25/30 anni. La proposta filosofica è quella di considerare il tema dell'alimentazione in un'accezione etica distinguendo al suo interno due verbi "mangiare" e "nutrirsi" laddove nutrirsi è una delle modalità attraverso cui si determina la posizione dell'individuo nel mondo, il suo rapporto con l'altro, mentre mangiare determina l'uso del mondo da parte dell'individuo.

 
“ti estì?”

Lunga vita alla filosofia!

Silvia Molè

(*) tutti i relatori:

http://www.sfi.it/222/240/news/convegno-nazionale-sfi-2014---vercelli-filosofia-bene-comune-programma---locandina.html


articolo pubblicato su Vercelli Oggi:

http://www.vercellioggi.it/dett_news.asp?id=59755




311. Bias eiettivo e processo antropodecentrativo



(di Roberto Marchesini, etologo e filosofo***)

(…) Molto spesso si assume la prospettiva antropocentrica come inevitabile e non emendabile e quindi come giustificazione complessiva dell’antropocentrismo. In altre parole, si dice,  essendo l’essere umano immerso nella propria dimensione antropocentrata non è possibile evitare la deriva antropocentrica. Questa riflessione, che peraltro si propone come conclusiva sulla questione, è comprensibile, ma dovrebbe essere posta in forma interrogativa e non assertiva: Dovremmo chiederci: 1) può l’essere umano andare oltre o mettere in mora la sua prospettiva filogenetica? 2) fino a che punto l’essere umano può emendare la prospettiva antropocentrata? La mia risposta al primo quesito è un si con riserva, vale a dire che si tratta di un’operazione non scontata e sempre parziale. Non so dire fino a che punto si può emendare ma di certo non lo si può fare completamente. Per questo, preferisco parlare di un processo antropodecentrativo piuttosto che di un rifiuto in toto della prospettiva antropocentrata, attraverso diverse coordinate decentrative come il contro intuizionismo scientifico e come l’empatia biocentrica.  Assumere una posizionalità antropodecentrata significa non rifiutare la propria prospettiva ma assegnarle un dominio di validità. Per far questo occorre fare ginnastica emendativa, implicita nel lavoro dell’etologo, abituandosi a guardare l’umano come una delle tante immersioni nel mondo. Come l’egocentrismo non rappresenta una trappola mortale e conclusiva nel processo evolutivo del sé, ma può essere più o meno superato attraverso l’esercizio empatico, allo stesso modo l’antropocentrismo ingenuo può essere emendato in virtù di operazioni decentrative.  Se prendiamo altre espressioni della prospettiva antropocentrata, per esempio la tendenza ad animare i fenomeni naturali o a leggere eventi causali come attratti dalla cosiddetta fisica ingenua ci rendiamo conto che, attraverso la prassi contro intuitiva, la scienza è stata in grado di fornirci quadri descrittivi ed esplicativi sempre meno antropocentrati. In fondo il geocentrismo tolemaico, la teoria del flogisto, il creazionismo fissista sono esempi di epistemiche maggiormente antropocentrate rispetto ai corrispettivi paradigmi inaugurati da Copernico, Lavoisier, Darwin. L’etologia è la scienza che consente all’essere umano di incontrare le alterità animali nella loro espressione comportamentale nella percezione come nella comunicazione, nella motivazione come  nella cognizione – e questo esercizio conoscitivo non solo consente di acquisire dati importanti sulle peculiarità dei non umani, ma altresì da luogo a una palestra di antropodecentrismo perché ci abitua a considerare il punto di vista dell’uomo come relativo, ovvero non metrico né sussuntivo delle possibilità. Pertanto possiamo dire che le forme di specismo che esitano dall’antropocentrismo ingenuo non possono cercare una giustificazione nella dimensione biologica, altrimenti ci troveremmo a rifiutare altre forme di superamento dell’intuizionismo filogenetico, come per l’appunto gran parte della teorizzazione scientifica. Non è sufficiente essere uomini per essere condannati all’antropocentrismo.

***
(da “Contro i diritti degli animali? Ed. Sonde, pag. 63/64, di cui consiglio vivamente l’ acquisto)

310. Le radici profonde dell'altruismo


Consiglio VIVAMENTE l’acquisto del numero di novembre di Le Scienze, praticamente tutto dedicato alle più recenti scoperte relative all’evoluzione umana. Riporto qui a seguito un breve estratto relativo a “Le radici profonde dell’altruismo”, di Frans de Waal. Aggiungo che a mio parere quanto segue costituisce quello che spesso definisco il “fondamento scientifico delle religioni” . Anche a livello filosofico,  riduttivo e ormai non accettabile uno studio che prescinda dagli aspetti evolutivi.

“Queste tendenze all’aiuto nei primati si sono probabilmente evolute a partire dalle cure materne richieste a tutti i mammiferi. Che siano topi o elefanti, le madri devono rispondere ai segnali di fame, dolore o paura dei piccoli, pena la loro morte. Questa sensibilità (assieme ai processi neurali e ormonali che la supportano) si è poi allargata ad altre relazioni, contribuendo ad aumentare legami emotivi, empatia e collaborazione in contesti sociali più ampi. La cooperazione porta con sé benefici significativi, perciò non sorprende che si sia ampliata in questo modo. Nel regno animale la forma più comune è la cooperazione mutualistica, e la sua ampia diffusione è probabilmente dovuta ai suoi vantaggi immediati, come procurare cibo o difendere dai predatori.

A caratterizzarla è l’impegno comune verso un obiettivo chiaramente vantaggioso per tutti: quando le iene cacciano in branco uno gnu, per esempio, o quando una decina di pellicani si mettono in semicerchio e guidano con le zampe i pesci dove l’acqua è più bassa, e tutti possono riempirsi il becco di prede. Questo tipo di cooperazione si basa su azioni coordinate e vantaggi comuni. A partire da essa si possono sviluppare comportamenti cooperativi più complessi, come la condivisione. Se una iena o un pellicano dovessero monopolizzare l’intero bottino, il sistema crollerebbe.

La sopravvivenza dipende dalla condivisione, il che spiega come mai sia gli uomini sia gli animali siano estremamente sensibili all’equità della spartizione. Gli esperimenti mostrano che scimmie, cani e alcuni uccelli sociali rifiutano una ricompensa inferiore a quella di un compagno impegnato nello stesso compito; scimpanzé ed esseri umani, inoltre possono ridurre la propria quota di una ricompensa comune per evitare la frustrazione dei compagni (***). Dobbiamo il nostro senso di equità a una lunga tradizione di cooperazione mutualistica (…) La vera unicità di noi esseri umani, tuttavia, potrebbe essere il carattere altamente organizzato della nostra cooperazione (…) il potenziale castigo scoraggia gli individui dal tentativo di frodare il sistema (***)"

(***) ndr: ricordo volentieri in questo contesto anche i recenti studi sui ratti, che preferiscono liberare il compagno  in gabbia a una tavoletta di cioccolata, o l’altruismo rilevato nei pipistrelli vampiro con conseguente “punizione” dei “bari”. Ma gli esempio potrebbero essere moltissimi.

 

 

 

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