309. Esempi personali e statistiche

 

Molti dibattiti vertenti sul tema dell'immigrazione o minoranze etniche (Rom) si svolgono sia a livello di social network che di dibattiti politici di piú alto livello attraverso la presentazione di casi personali o particolari a dimostrazione di una determinata problematica. Le repliche spesso avvengono su medesima base, ovvero attraverso la presentazione di casi personali o particolari volti a dimostrare il contrario, in una catena infinita che potremmo chiamare catena dell'irrilevanza (in gergo tecnico fallacia della  generalizzazione indebita: si generalizza qualcosa senza distinzioni, in base alla circostanza che quel qualcosa si è dato in un caso particolare).

 In questi casi risulta sempre utile sottolineare come la statistica sia una disciplina seria, non rientrante nella categoria dell'opinionismo, ovvero una scienza che ha per oggetto lo studio dei fenomeni collettivi suscettibili di misurazione e che si avvale di metodi matematici.

Vale a dire, qualora si vogliano trarre conclusioni generali su una determinata categoria di persone (giovani, vecchi, anziani, stranieri, donne o uomini) risulta fondamentale avvalersi di statistiche condotte scientificamente e ripercorribili nel loro metodo di indagine.

Purtroppo anche i dati statistici possono essere oggetto di interpretazioni arbitrarie, ma una qualsiasi statistica seria (ad esempio condotta dall'Istat )  costituisce pur sempre un passo avanti rispetto alla citazione dell'esempio personale o particolare e  la base per un piú alto livello di discussione.

A mio personale avviso dovrebbe inoltre valere la seguente regola: quanto piú gravi sono le accuse, tanto piú solide dovrebbero  essere le prove a sostegno di esse.

I dibattiti di cui sopra scaturiscono spesso da luoghi comuni:

Il concetto di luogo comune è a mio avviso  strettamente correlato a quello di senso comune, che non ha un significato univoco ed è quindi soggetto a valutazioni diverse. Se gli si attribuisce un significato conoscitivo (intendendolo come un bagaglio di conoscenze, giudizi, convinzioni e principi largamente condivisi anche da chi non ha particolari competenze) può essere valutato in modi opposti.

 Da una parte, il fatto che certe convinzioni e principi appaiano condivisi dalla stragrande maggioranza degli uomini può essere visto come una garanzia della loro validità, quale risultato delle esperienze di vita dei nostri padri e quindi quale preziosa eredità culturale da non dover sottoporre a verifica alcuna – credenza e certezza sono i caratteri salienti del senso comune. Dall’altra, appare chiaro trattarsi di atteggiamento in generale fallace, in quanto il semplice fatto che la maggior parte della gente faccia o pensi  X non lo rende corretto, morale, giustificato o ragionevole. Ora, poichè sarebbe impensabile cominciare a dubitare di tutto, intendo operare una distinzione tra senso comune e luogo comune nei seguenti termini: il senso comune rappresenta, solitamente, i cosiddetti valori, vale a dire dei principi molto generali, universalmente riconosciuti come validi, quali solidarietà, fratellanza, giustizia, che effettivamente nascono sia dall’esperienza sia dalla considerazione razionale che l’uomo senza di essi, quale animale sociale, sarebbe forse condannato all’estinzione, in quanto trattasi dei pilastri della vita in comune.

Con luogo comune intendo invece un’opinione su un tema molto più concreto e circoscritto, la cui diffusione, ricorrenza o familiarità ne determinano l’ovvietà o l’immediata riconoscibilità. Nel contesto della nostra vita socio-politica è quindi importante soffermarsi sulla manipolazione del luogo comune, o sulla sua creazione ad hoc al fine di creare consenso e quindi elettorato. Nella propaganda politica, ma anche nel messaggio pubblicitario, è fondamentale che l’elettore si riconosca nel messaggio lanciato, che lo slogan rispecchi il suo modo di pensare o quello che egli già dà automaticamente per assodato. Un esempio di luogo comune spesso ricorrente è la paura per lo straniero, per la diversa cultura, come tale volta a minare i propri interessi. Il luogo comune rappresenta quindi una scorciatoia cognitiva, nel senso che esso non viene sottoposto a verifica e risulta spesso immune anche all’evidenza. Rappresenta l’opposto del metodo di indagine razionale e/o scientifico.

 

http://www.vercellioggi.it/dett_news.asp?titolo=LA_LETTERA:_SILVIA_MOLE’_SU_GIUDIZIE_E_PREGIUDIZI_-_Il_caso_Rom_solo_la_punta_di_un_iceberg&titolo=LA_LETTERA:_SILVIA_MOLE’_SU_GIUDIZIE_E_PREGIUDIZI_-_Il_caso_Rom_solo_la_punta_di_un_iceberg&id=59581

 

 

 

 

 

 

 

308. Satira e Diffamazione

Di Maurizio Cassi


“La satira è una forma di espressione come un'altra, che si può usare per trasmettere informazioni e suscitare stati d'animo. Invocare la sospensione della responsabilità su di essa equivale a costruire un recinto dove la gente è libera di pestare chiunque senza pagare alcuna penale.

 Questo corrisponde a un rovesciamento della funzione storica della satira, che di solito è usata da chi non ha potere per denunciare gli abusi di chi ce l'ha, al contempo sbeffeggiandolo; ma se passa il principio del libero insulto in libero stato finirà per chiamarsi satira il pestaggio mediatico già oggi sistematicamente praticato da chi, avendocelo il potere, mette in campo gran copia di mezzi per ridicolizzare gli avversari che, pur non essendo potenti, gli si oppongono. Magari perché porta i calzini azzurri (giudice Mesiano, se non ricordo male) o esce di casa in tenuta non propriamente elegante (Boccassini).

 Le famose "provocazioni", che oggi vanno tanto di moda con l'alibi di infrangere la presunta dittatura del politically correct. Usare la satira per diffondere cose non vere può essere ancora più grave del farlo con i mezzi ortodossi, perché spesso il lettore di satira accorda davvero una sospensione del proprio senso critico all'autore, inconsciamente desiderando che la risata che costui gli strappa sia autentica. E siccome gli esperti queste cose le sanno, se ne approfittano alla grande. E quindi sì, secondo me la satira deve sottostare alle stesse regole delle altre forme di informazione. L'autore, se davvero vuole essere irriverente, si accolli anche i rischi che ne conseguono, altrimenti siamo capaci tutti di denunciare le malefatte del mondo al riparo di un porto franco.”

Una breve nota a margine: il web si presta facilmente alla trasformazione della satira in mera diffamazione, laddove vengono spesso imbastiti   in modo “casalingo” fotomontaggi di vario genere o schizzi volgari e rudimentali il cui unico fine è quello di polarizzare le emozioni, facendo leva sugli istinti piu bassi della natura umana (impossibile non pensare alle vignette divulgate  sul ministro Kyenge), laddove i social ben si prestano, in questa forma, ad ogni tipo di vendetta personale e quindi diffamazione fine a se stessa. Potrete ben notare come alcune pagine vivano esattamente ed unicamente di tali “contenuti”, spesso approfittando dell’anonimità. In questo contesto si assiste di frequente al fenomeno del cyberbullismo, caratterizzato da attacchi continui, ripetuti e sistematici attraverso la rete allo scopo di minare la reputazione o intimidire.

 
Per approfondire consiglio questo splendido articolo della dottoressa Giulia Milizia (***)

L’evanescente confine tra satira e diffamazione

Di recente i reati di diffamazione, soprattutto nella sua forma aggravata della diffamazione a mezzo stampa, sono stati oggetto di molte e contrastanti discussioni sia in dottrina che in giurisprudenza. In questa sede, però, non m’intendo occupare della controversa riforma del reato a mezzo stampa, ma di un altro aspetto più curioso e meno conosciuto.
Mentre si discute sempre della tutela del diritto di cronaca (57-58bis cp), non si disserta a sufficienza della libertà artistica e di espressione ex art. 21, 33, 111 Cost., tanto da farla sembrare, a mio modesto parere, un diritto di nicchia.
Anni fa suscitò grande scalpore la causa intentata da un politico contro un noto vignettista, reo, a suo dire, di averlo diffamato con una serie di vignette, evidenzianti alcuni suoi presunti vizi e difetti legati alla sua attività ed alle sue opinioni politiche. La stampa ed i vari giornali satirici (v. “Striscia la notizia”) dedicarono ampi servizi al caso, perché era stata lesa la libertà d’espressione dell’artista, che, poi, fu assolto poiché le vignette erano espressione della satira politica, che, perciò non è sanzionabile ex art.51 cp.
Questo è stato uno dei primi casi recenti in cui la giurisprudenza si è trovata ad affrontare la sottile linea di demarcazione tra satira, umorismo e diffamazione.
 In genere umorismo e satira possono essere usati anche come sinonimi, poiché la satira indica un componimento poetico composito (v. Devoto) in cui si fa dello humor su alcuni aspetti e difetti umani, della società, della politica etc., cioè si tratta di un’opera che “..mira all’ironia sino al sarcasmo e comunque all’irrisione di chi esercita un pubblico potere, in tal misura esasperando la polemica intorno alle opinioni ed ai comportamenti..”, esercitando così il c.d. diritto di satira o libertà di espressione artistica “..in quanto opera una rappresentazione intuitivamente simbolica che, in particolare una vignetta, propone quale metafora caricaturale..” (v.Cass.Pen. sez.V n.13563/98, caso Vauro).  
Come si diceva mentre per l’individuazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è facile individuare l’area di azione della scriminante sopra descritta e quella di perfezionamento del reato, in quanto la legge prevede dei parametri rigorosi e tassativi, è molto difficile, invece, individuare quando un poemetto, una fotografia od un’altra qualsiasi forma di arte figurativa possa rientrare nel campo della satira o in quello penalmente sanzionato, poiché non sono state individuate delle regole inequivocabili e precise.
Giova fare un piccolo excursus storico sulla vicenda. La satira e le raffigurazioni allegoriche sono state utilizzate sin dall’antichità per ironizzare su questo o quell’aspetto della vita, intesa nella sua accezione più ampia, o della politica (v. ex multis “L’asino d’oro” di Apuleio, il “Satyrikon” di Petronio, le pitture delle case di Pompei etc.).
È bene ricordare che anche gli umoristi antichi non avevano sorte facile come, talvolta i loro successori moderni, in quanto a causa delle loro opere ironiche ebbero non pochi guai. Per quanto riguarda le opere scritte celebri sono i guai subiti dal Boccaccio, dal Macchiavelli e dal Casanova, solo per fare qualche celebre nome, quest’ultimo perseguitato anche dall’inquisizione veneziana. Nel redigere la mia tesi di laurea (Giulia Milizia, Processi dell’inquisizione senese nel XVIII secolo, inedita) poi, mi sono imbattuta nel personaggio storico, che ispirò il protagonista di un celebre film di Alberto Sordi “Il Marchese del Grillo”, nobile di origine genovese che subì alcuni processi nel 1727 circa, per altro, per aver scritto e distribuito alcuni libelli anticlericali. Bisogna ricordare che tra i nobili, gli intellettuali, addirittura alcuni sacerdoti, era di moda scrivere piccoli poemi satirici sul clero ed il Papa; gli autori venivano processati dalle inquisizioni quali eretici, bestemmiatori e detentori di scritti sacrileghi.
A Siena la diffusione di tali scritti, grazie anche alla presenza nel territorio di truppe spagnole e francesi, nonché per “l’importazione forzata” di coloni tedeschi per rinvigorire l’agricoltura toscana, operata sotto il regno di Leopoldo dei Medici, era un reato discretamente diffuso, così da creare una sottocategoria di reati contro il clero (allora molto corrotto). Tali reati però non erano mai puniti con la morte ed a Siena la pena era alquanto blanda e per lo più si riduceva all’abiura forzata, nonché, raramente, alla messa alla gogna, cioè nel costringere il reo a stare nella pubblica piazza nei dì di festa con le braccia bloccate in un giogo con una candela in testa od in mano ed un cartello indicante il reato commesso.
 Tra i pittori si ricordino le allegorie del Botticelli, le caricature del Brueghel, del Durer o le più celebri allegorie del Goya che, nel ciclo degli “Alienati” ironizza sui vizi e virtù del suo tempo e della corte spagnola.
Anche Michelangelo e Caravaggio, per citare ex multis alcuni celebri casi, ebbero a che fare con la censura del tempo. Il primo fu censurato perché le sue opere nella Cappella Sistina, raffiguranti nudi (poi in gran parte celati da artisti successivi, detti in senso spregiativo e denigratorio mutandoni) furono censurate ed il pittore fu costretto a velarle, senza però togliersi una piccola soddisfazione, vendicativa, raffigurare il Card. Soderini, committente dell’opera, nudo e divorato da un demone nell’inferno. Caravaggio, poi, subì un processo per diffamazione per aver scritto poemetti licenziosi sul suo biografo Giovanni Baglione, apostrofato con termini tutt’altro che edificanti (v. Sì alla diffamazione a mezzo d’opera d’arte, “Muse al vetriolo” equiparate alla stampa”, condannato il pittore che sbeffeggiò i critici ritraendoli di Vincenzo Pezzella in Diritto e Giustizia n.44 del 4/12/04, ed. Giuffrè, pagg.46ss).
 Da questo rapido e necessario excursus storico si può facilmente comprendere come, pur non essendoci più l’inquisizione, le muse siano state tutt’altro che ben auguranti e foriere di fortune per alcuni artisti anche in tempi moderni.
Infatti non esistendo una disciplina codificata in materia ci si chiedeva quale normativa occorresse applicare se quella della diffamazione tout court o quella della forma aggravata del mezzo stampa.
Dopo una serie di sentenze, che prendevano atto che la satira è diversa dalla stampa, quindi non le possono essere applicati gli stessi parametri, in primis quello della verità, si giunse ad una prima sentenza storica: la Cass.Pen. sez.V n.2118/00.
In essa si affermava che sì alla satira non si può applicare il metro della verità, ma è soggetta al limite della continenza”..poiché rappresenta, comunque, una forma di critica caratterizzata da particolari mezzi espressivi.Ne consegue che come ogni critica non sfugge al limite della correttezza..”onde per cui non si potrà invocare la scriminante ex art.51cp qualora si attribuiscano “..condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, o la deformazione dell’immagine..” susciti disprezzo o dileggio (Cass.pen. Sez.V n.2128/00), “..anche se si adoperino vignette o caricature o si voglia fare della satira o dell’ironia” (Cass.pen. Sez.V. n.2885/92 e Cass.civ. Sez.III n14485/00).
Infatti la giurisprudenza costante prevede, come trait de union, per tutti i tipi di diffamazione l’obbligo di rispettare il diritto all’identità personale, al rispetto del decoro, del pudore e dell’onore del soggetto, tenendo conto delle circostanze di tempo, luogo e modalità dell’offesa (v. ex multis Cass.pen. Sez.V nn 5757/81, 5258/85, 8282/85, 5559/92,849/93 etc.)
Perché il reato si perfezioni è sufficiente che le caratteristiche del soggetto sottoposto a satira siano anche semplicemente tratteggiate, abbiano un contenuto allusivo così che siano comprensive anche dall’uomo medio (v. Cas. Pen. Sez.V nn10372/99 e 9839/98), essendo sufficiente individuare anche in via induttiva la persona bersaglio di un’ironia pungente, sia essa concretizzata in una fotografia od in una vignetta od in un quadro e similia (v. Cass.pen. Sez.V 8220/92).
Inoltre in base ad un orientamento recente e costante della dottrina e della giurisprudenza per lesione del pudore, dell’onore etc. di una data persona è da valutarsi non in base alle credenze della società, dell’epoca in cui l’offeso vive, ma in base a ciò che questo ultimo ritiene e percepisce come lesivo della sua personalità, intesa nella sua accezione più lata.
Quindi non si può considerare diffamazione una vignetta sul politico x che ironizzi su un suo atteggiamento, sul quale lo stesso ironizzi; invece è da considerare lesiva dell’onore di una donna, notoriamente casta, ritratta in un momento di stanchezza in una posa ambiguamente lasciva oppure nel descrivere, con toni sferzanti, come obeso un soggetto che in passato ha sofferto di disturbi alimentari oppure suscettibile sul punto in questione. Il tutto verrà lasciato alla libertà d’interpretazione e/o giudizio dell’autorità adita, essendo richiesto un dolo generico per il perfezionamento del reato de quo.
Perciò, letta in quest’ottica, la recente sentenza della Cass. Pen. n.42375/04, che condannava per diffamazione aggravata dal mezzo stampa il pittore e critico Gianni Pisani, non è poi tanto rivoluzionaria. Ciò che è rivoluzionario è che sia stato equiparata la diffamazione a mezzo quadro a quella a mezzo stampa.
Bisogna, per correttezza, ricordare che il Pisani, ex direttore dell’Accademia delle Belle arti di Napoli aveva realizzato, dopo il suo licenziamento, una mostra con una serie di quadri in cui ironizzava pesantemente attribuendo vizi e difetti ad alcuni suoi ex colleghi, tra cui Maria Teresa Penta ( “La vedova allegra”) ed Armando De Stefano (“Il Papa nero più stronzetto nero”), esplicando tali caricature, la cui satira poteva essere ravvisabile solo dagli interessati e dai loro colleghi di lavoro, in un libretto illustrativo delle singole opere. Di conseguenza l’ampia portata, raggiunta dall’offesa, tramite la stampa della suddetta brochure, seppur non si facesse il nome di nessuno degli interessati, nonché l’ampia somiglianza dei soggetti del quadro agli offesi, nonché altri elementi che rimandavano chiaramente ad attribuite abitudini più o meno edificanti dei diffamati, connotavano i suddetti quadri come diffamatori.
Penso che si sarebbe giunti ugualmente a questa conclusione, per i motivi sinora esplicati, in quanto il quadro, come forma di astrazione artistica, suscettibile di raggiungere una moltitudine di persone, trasformando in caricature lati, presumibilmente tutt’altro che edificanti dei soggetti ritratti, esponendoli al pubblico dileggio, possa essere equiparato ad un poemetto satirico od ad un giornale.
Quindi anche i reati di diffamazione a mezzo di opera artistica, figurativa o meno, trovano una loro normativa regolante grazie alla sussunzione, in via analogica, sotto la disciplina dei reati a mezzo stampa ex artt.595, comma 3 e 57-58 bis cp.
In ogni caso spetterà al giudice di volta in volta valutare se si tratti di diffamazione generica od aggravata, anche se si è dimostrato che in definitiva il confine tra satira e diffamazione non è poi così evanescente come in passato, ma, bensì, delineato con estrema precisione. 

(***)
http://www.diritto.it/articoli/penale/milizia.html
 

307. Fallacia del cavallo di Troia

di Umberto Simoncelli

 

Io la chiamo “ La fallacia del cavallo di Troia”.

Si tratta di uno stragemma che, più o meno consapevolmente, viene usato per la ricerca del consenso: si convoglia l’attenzione ( e il consenso) su un incontestabile fatto principale a cui, surrettiziamente, si allega un fatto accessorio, molto più opinabile ma molto più centrale negli intendimenti del proponente, che viene trascinato passivamente nella scia della prima affermazione.

Alcuni giorni or sono stato invitato da alcuni amici a sottoscrivere l’adesione al comitato “ No ai tumori e alle discariche” . Ora, si da il caso che io sia sempre e comunque contrario ai “tumori” , per quanto la mia “contrarietà” possa essere ininfluente ma che, in merito alle discariche, ritenga che il discorso si faccia più complesso e articolato, perché, in linea di massima, osservo che nessuno è contrario a uno stile di vita forsennato che produce (e, nella fattispecie ha già prodotto) “ rifiuti” , ma che ciascuno è contrario al loro smaltimento in siti di raccolta che insistono sul proprio territorio.

In questo ci vedo, politicamente, una mentalità tardo coloniale che , inconsciamente, aspira ad eliminare le proprie scorie in terreno altrui ( inevitabilmente nel terreno di qualcuno più povero e meno potente di noi) , allo stesso modo in cui aspira a detenere il potere economico ma a delegare ad altri popoli e ad altri territori l’onere di produzioni inquinanti ed economicamente poco gratificanti.

Sono consapevole che, di fatto si tratta di una declinazione della fallacia della “falsa dicotomia” in quanto presuppone che non si possa altro che essere favorevoli o contrari ad entrambe le istanze in blocco, ma, a causa della ricorrenza, dell’ insidiosità, e dell’ impatto sociale di questa fallacia, le riserverei la dignità di un nome tutto suo.

306. Fallacie Causali



Consigliamo  vivamente la lettura di “Cattive argomentazioni: come riconoscerle” di Francesco F. Calemi e Michele Paolini Paoletti (Carocci Editore). Con grande piacere abbiamo notato, dopo l'acquisto,  di essere presenti, come sito Fallacie Logiche, nella bibliografia.

Ne riportiamo un breve estratto riguardante le Fallacie Causali.

“(…) Iniziamo dalla fallacia cum hoc, ergo propter hoc: come il nome indica, tale fallacia si basa sull’inferire che l’evento A è la causa dell’evento B sulla base del fatto che A e B accadono nello stesso momento (o accadono regolarmente nello stesso momento). Si consideri il seguente dialogo tratto da una puntata dei Simpson nella quale il sindaco di Springfield istituisce una squadra anti-orsi (nonostante l’opinione dei più ravveduti cittadini, i quali ritengono tale provvedimento inutile visto che a Springfield non vivono orsi):

Homer: ah, neanche un orso in vista. La pattuglia-orsi sta funzionando a meraviglia!

Lisa: questo è un ragionamento capzioso papà …secondo la tua logica questo sasso potrebbe tener lontano le tigri.

Homer: oh, e come funziona?

Lisa: non funziona. E’ solo uno stupido sasso. Comunque non vedo nessuna tigre, e tu?

Homer: Lisa, voglio comprare il tuo sasso.

La scena si commenta da sé. Il semplice fatto che l’istituzione della pattuglia-orsi coincida col mancato avvistamento di orsi a Springfield non implica che la prima tenga effettivamente alla larga gli orsi: di orsi, a Springfield, non ce ne erano da ben prima! (…) una forma invera del cum hoc, ergo propter hoc è la fallacia dell’appello alla coincidenza data dal sostenere che una serie di eventi di un certo tipo siano dovuti alla pura coincidenza quando in realtà l’evidenza rende plausibile pensare il contrario (…)

Proseguiamo il nostro discorso sulle fallacie causali richiamando una famosa striscia dei Peanuts nella quale il buon Charlie Brown confessa a Lucy un suo profondo timore:

Charlie Brown: penso di avere paura di essere felice.

Lucy: come puoi avere paura di una cosa del genere?

Charlie Brown: perché quando diventi felice c’è sempre qualcosa che va storto.

L’angoscia di Charlie Brown potrebbe non derivare da un mero errore logico, benché in ciò che egli dice ve ne sia certamente uno: la fallacia post hoc, ergo propter hoc, che segue lo schema:

B avviene dopo A

Dunque A causa B

(…) la correlazione non è causazione.

(…) Presupporre senza evidenza che un dato evento abbia un’unica causa è commettere la fallacia dell’ipersemplificazione causale (…) di converso, se un dato evento ha una sola causa, o un insieme ben determinato di cause, fornire spiegazioni causali dello stesso aggiungendo surrettiziamente ulteriori cause significa commettere la fallacia della moltiplicazione causale (…) Ulteriore fallacia è quella della confusione tra la causa prossima e la causa remota. Tutti ricordiamo la canzone per bambini che recita “per fare un tavolo ci vuole il legno”. In essa si ripercorre una fantomatica catena causale che, in un primo momento, termina in un fiore, ma che poi riprende per portare ad un esito ameno:

Per fare un fiore ci vuole un ramo, per fare il ramo ci vuole l’albero, per fare l’albero ci vuole il bosco, per fare il bosco ci vuole il monte, per fare il monte ci vuole la terra, per fare la terra ci vuole un fiore, per fare tutto ci vuole un fiore.

Ovviamente la canzoncina non ha reali pretese di verità ma sua struttura regressiva ci porta a sollevare un quesito di non poco conto: quando è lecito fermarsi nel ripercorrere la catena causale che porta alla realizzazione di un dato effetto? Non esiste una risposta univoca a questo interrogativo (…) ma ci sono casi eclatanti (…)

Vedi cosa hai fatto? Se tu non avessi invitato tua madre a cena non avremo litigato e io non sarei uscito di casa pieno di rabbia, non avrei guidato furioso, avrei rispettato lo stop e non avrei fracassato la macchina. E’ tutta colpa tua!

(…) Anche se Anna può avere in qualche modo svolto la funzione di causa remota, è Mario il solo colpevole dell’incidente

La prossima fallacia (…) il cecchino texano (…) questo tipo di errore argomentativo è indicativo della nostra insita tendenza a ricercare significati: se vogliamo ricercare il senso di una certa condizione, facciamo di tutto per ritrovarlo anche nei casi in cui, come canta Vasco Rossi, tale condizione un senso non ce l’ha (E’ proprio il meccanismo del cecchino texano d’altra parte che agisce in quanti credono che gli oroscopi ci azzeccano o in quanti credono nelle cosiddette profezie di Nostradamus (…)

 

 

 

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