357. Libertà personale e libertà del mercato

 Questo è un cantiere aperto, che viene continuamente aggiornato e rivisto. Al momento vi sono due aggiornamenti, del 30 aprile 2017 e del 23 gennaio 2018.

Aggiornamento del 23 gennaio 2018

Sistema prostituente. Perché non é una questione meramente individuale, come le libfemm e il patriarcato neoliberista vorrebbero far credere. Una traduzione da Beatriz Gimeno.

"Sono più vecchia, la parola puttana non mi spaventa, non mi rende morbosa, non mi sembra fica, o sexy. Ho superato la fase giovanile di spaventare i conservatori raccontando le gesta sessuali. Non voglio rendermi moderna, o fica, raccontando le mie pratiche sessuali, che sono molto strane (oops, l'ho già detto), perché penso che non sia rilevante.
Sono una donna adulta e femminista, non più di chiunque altra, ma né meno di nessuna. E vorrei che potessimo parlare della prostituzione senza dire cose semplici e complicando la questione come merita. Questo è, tra le altre cose, senza fare appello sempre e quasi esclusivamente all'esperienza individuale. Perché questo è quello che facciamo di solito quando parliamo di qualsiasi altra istituzione politica, lasciamo da parte, o lasciamo per un altro dibattito, l'esperienza individuale. Almeno questo è ciò che fanno le persone che credono che i problemi politici dovrebbero essere affrontati dal sociale e strutturale, e non dall'individuo, come vuole il neoliberismo e come facciamo quando parliamo di prostituzione.
Non è che il personale non abbia importanza, ovviamente è importante; e ancora più in un'esperienza come questa, così dura, così connotata. Ma non potremmo parlare di nessuna istituzione (nè di politica) se facessimo unicamente appello all'esperienza personale di ognuna delle milioni di donne che nel mondo sono puttane; che lo sono in tutti i paesi, nei paesi ricchi e poveri, in situazioni terribili nella maggioranza e altre in situazioni migliori; essendo stata ingannate, ridotte in schiavitù, sfruttate o avendolo scelto nelle loro limitate opzioni. Ogni volta che parliamo di altri diritti, di altre istituzioni politiche o sociali, di altre lotte, abbiamo in testa un'idea del bene comune e di trasformazione sociale, questo è il femminismo. Ma nella prostituzione non solo non possiamo discuterne, ma al contrario, sembra che fuggiamo da quel dibattito per affrontare i casi particolari delle une contro le altre ("l'ho scelto e mi piace", "l'ho vissuto come un inferno "); o recriminare alle altre che non parlano della questione perché non sono puttane, mentre sembra che pagarne una ti permetta di parlare della questione perché ti dà una profonda conoscenza della materia. Secondo questo i clienti sono i più qualificati per parlare di prostituzione.
La verità è che già lo stesso dibattito è parziale perché le prostitute non hanno in assoluto un' unica opinione sulla prostituzione; ma quello che succede è che solo poche hanno accesso alla parola pubblica. Di solito quelle che si trovano in una situazione migliore, quelle che sono pagate dall'industria per dire qualsiasi cosa, quelle che possono scegliere, quelle che dicono quello che cercano i media o i programmi televisivi, quelle che coincidono con la deriva mercantilista della vita che viene promosso dal sistema. La maggior parte non ha questo privilegio e se alzano la voce vengono messe a tacere. L'unica voce ammessa è quella delle puttane felici, non quelle che mettono in discussione il sistema di prostituzione. Poi c'è la voce di quelle che non sono puttane. Quindi la stessa cosa: io invece penso che dell'istituzione della prostituzione possanoo parlare tutte le donne, come del matrimonio, dell'amore romantico, dell' allattamento al seno o del lavoro domestico. Perché sono istituzioni politiche che riguardano tutte noi.
La prostituzione è praticamente l'unica istituzione patriarcale che non possiamo politicizzare per il dibattito; per qualcosa sarà. La prostituzione, insieme al matrimonio, è un'istituzione creata per regolare l'accesso degli uomini al corpo delle donne in modo ordinato. A tale scopo servono le istituzioni, a organizzare i comportamenti sociali ed evitare la violenza. La prostituzione mette gli uomini in un posto e le donne in un altro; È il nostro corpo che è l'oggetto della regolazione, non quello degli uomini. È il nostro corpo quello a cui accedono pagando. E questo ha un significato concreto e ha anche effetti molto specifici: materiali e soggettivi. Il bene comune in discussione qui è quello dell'uguaglianza tra uomini e donne. Perché, ancora, è quell'idea di uguaglianza che noi femministe abbiamo in mente quando parliamo di amore romantico, sesso, matrimonio, maternità, ecc .; discutiamo tutte e pensiamo a cosa fare con questi problemi in modo che, alla fine, possiamo muoverci verso una maggiore uguaglianza sociale tra uomini e donne.
Ecco dove ti devi chiedere se la prostituzione come istituzione è un ostacolo all'uguaglianza o è un supporto per essa. È interessante notare che Gabriela Weiner lo sa e lo riconosce nel suo articolo. Riconoscere che una cosa è il dibattito sul personale e un altro dibattito è quello dell'istituzione. Molto bene, siamo d'accordo, vogliamo discutere dell'istituzione. Ammette che questa istituzione reifica ed è perniciosa per l'uguaglianza ... ma da lì non segue, secondo lei, nulla; non c'è una sola proposta per combattere un'istituzione che ostacola il raggiungimento dell'uguaglianza; non una singola proposta che ci permette di andare verso la sua fine. Perché combattiamo tutte le istituzioni patriarcali tranne questa? Le ragioni sono molto complesse e non rientrano in questo articolo, ma qualcosa avrà a che vedere che sia per questo l'interesse di uno degli affari, delle industrie transnazionali, le più grandi che esistano. Un interesse che, a proposito, non diventa mai visibile in quanto tale perché mette sempre le sue dipendenti come schermo. Questo non accade in nessun altro dibattito in cui sia coinvolta una multinazionale, in nessuno. È vero che in tutti i dibattiti politici, i datori di lavoro, i proprietari, le aziende cercano di passare inosservati, ma non li lasciamo. In questo sì, e con la collaborazione di persone che si suppone siano di sinistra. Dovremmo chiedere all'industria del sesso di parlare per proprio conto e tutti sapremmo quali interessi di chi difende. La scomparsa della mano che muove i fili del dibattito pubblico è ciò che lo rende viziato, non si sa mai con chi si sta discutendo.
La proposta di regolamentare i diritti del lavoro e il confronto con altri lavori che Weiner fa, non sappiamo da dove provenga oltre questa esigenza che è un mito. Ci sono molte puttane che non vogliono regolamentare i loro diritti del lavoro e ci sono molte associazioni che non vogliono una cosa del genere. La maggioranza vogliono anche non essere perseguitate, non sfruttate, non detenute, non espulse. In Spagna, la prostituzione non è illegale e chiunque voglia può iscriversi come lavoratora autonoma e accedere agli stessi diritti degli altri lavoratori. Altre non vogliono regolarsi in alcun modo perché vogliono salvare quanto più possibile nel più breve tempo possibile anche, non vogliono pagare le tasse, non vogliono essere controllate. La maggior parte inoltre non vogliono registrarsi come "lavoratrici del sesso" non vogliono dipendere da un datore di lavoro, non vogliono essere in un bordello, non vogliono che questa qualifica penda sulle loro vite per sempre. Regolare è regolare l'attività commerciale in questo caso. In effetti, una sezione sindacale per le lavoratrici del sesso è stata fondata anni fa e nessuna (o quasi nessuna) ha firmato e questo è stato il caso anche in altri paesi. Quei regolamenti che vengono a regolare, in realtà, sono relazioni di sfruttamento; ciò che le normative fanno è rendere la vita più facile per gli imprenditori. Mi sembra che Weiner non abbia parlato con molte puttane (oltre una che ha assunto).
Quasi nessuno dice (nemmeno i sostenitori della prostituzione) che questo è come qualsiasi altro lavoro. Succhiare un cazzo non è lo stsso che passare il mocio. Perché? Perché così è il sesso, quel significato ha nella nostra cultura, è così che l'abbiamo costruito. Se fosse lo stesso, sarebbe anche lo stesso per un capo toccare una tetta o un gomito. E non è lo stesso. Le puttane sono donne come le altre, il sesso significa per loro lo stesso che per qualsiasi altra donna, anche la loro soggettività è in parte costruita lì. Le donne non hanno alcun gene che renda il sesso più piacevole senza desiderio; non più piacevole che a loro. Gli uomini dovrebbero provare a succhiare le fighe di donne che non desidereranno mai. Molti al giorno, anni, dovrebbero provare a dedicarsi ad esso, dovrebbero dimostrare che questa era l'unica opzione quando sono poveri. Mentre hanno altre opzioni e noi no, mi permetto di essere sospettosa e, come femminista, di protestare.
Ci sono molte professioni femminilizzate, sì. E come femministe, lo denunciamo. Analizziamo perché sono femminilizzati e stiamo provando afare che non lo siano, non solo di offrire più o meno diritti alle donne. E la verità è che quasi tutte queste professioni possono essere pensate come reversibili, eccetto la prostituzione. Se potessimo mettere gli uomini nella situazione della maggioranza delle donne nella prostituzione, è possibile che il patriarcato non esisterebbe. Il patriarcato è un patriarcato sessuale, la sessualità è una frontiera per uomini e donne. La prostituzione non è reversibile perché l'ideologia che la sostiene è il confine che mette gli uomini da una parte e le donne dall'altra: soggetto / oggetto; il patriarcato è colui che decide quali corpi hanno più valore di altri, quali sono mercificabili e quali no.
Noi vogliamo politicizzare la prostituzione e staccarla dalle esperienze personali, come facciamo con i problemi polítici. Perchè non ci chiediamo quale sia il ruolo che gioca nella disuguaglianza, perché è stato creata, perché è mantenuta? Perché non ci chiediamo perché il suo uso non smette di crescere quanto più le donne sono uguali e più libere? Perché non ci chiediamo se il fatto di normalizzare e legittimare la prostituzione ha o non ha qualche tipo di conseguenza nella considerazione sociale delle donne? Ci sono già molti studi su questo. O se questo ha qualche conseguenza nel modo in cui gli uomini imparano a relazionarsi con le donne? Possiamo o non possiamo analizzare quale ruolo gioca nell'espansione della prostituzione che dietro di essa ci sia la seconda attività transnazionale in importanza? Possiamo parlare di come costruire la sessualità maschile e la mascolinità nel suo insieme e vedere come si rapporta alla prostituzione? Possiamo chiederci quale ruolo gioca la prostituzione nella disuguaglianza globale quando la Banca Mondiale raccomanda ai paesi poveri di dedicare le donne a questo come un modo per ridurre il loro debito? Ciò ha conseguenze sulla situazione delle donne e delle ragazze in quei paesi? Possiamo chiederci perché ascoltiamo solo quelle che dicono di essere a loro agio, ma perché non soffriamo con coloro che raccontano esperienze terribili? Cosa ci succede da bloccare l'empatia con queste? Se pensiamo con distacco vediamo che la parola "putana" è così connotato dal punto di vista della trasgressione sessuale (e questo è percepito come positivo in un mondo iper-sessualizzato) che questa connotazione blocca gran parte della nostra capacità di empatia. Abbiamo visto la gente che salva rifugiati, ma non abbiamo mai visto nessuno entrare nei bordelli per chiedere come stanno le donne. Qualcosa ci succede con questo dibattito. Quello che voglio è discutere la prostituzione da una prospettiva sociale e politica, e non personale e neoliberista."

(Traduzione di Francesca Sanfelice) Beatriz Gimeno

 

 aggiornamento del 30 aprile 2017

 

Parole chiave del femminismo neoliberista

La confusione tra libertà personale e libertà del mercato.

 

(di Anastasia V.)

“I have a dream: un futuro di assoluta promiscuità sessuale. Uno dei presupposti della futura società liberata. Una sessualità completamente svincolata da approcci “istituzionali”, anarchica, senza freni, senza regole, detassonomizzata. Godere al di là del bene e del male. Gelosia, matrimoni, rigidi nuclei familiari, fedeltà, eteronormatività, obbligo produttivo e riproduttivo nella società consumistica diserotizzante i corpi …faranno parte dei libri di storia. Sarò già morta, ma va bene lo stesso” (anonimo)

Questo articolo è una sorta di cantiere aperto, che raccoglie diversi contributi e verrà continuamente aggiornato sulla base di nuovi input che prenderò di volta in volta in considerazione. Il tema centrale è costituito dalla risignificazione in ottica neoliberista delle prospettive femministe. Tale risignificazione – non molto diversamente da quanto avviene nel renzismo (che parla di vecchia sinistra nello stesso  modo in cui oggi si parla di veterofemminismo) – opera mediaticamente attraverso proposte che spingono verso una sempre più ampia libertà dei mercati, confusa ad arte con la libertà personale. Questo processo, contrapposto al “vecchio” e in nome della "modernità",  è particolarmente evidente nella forte spinta verso la depenalizzazione del reato di induzione e sfruttamento a sfondo sessuale. La prostituzione infatti in Italia è già legale (1) - al punto che la Cassazione ha di recente confermato l'obbligo relativo al versamento delle tasse (stato pappone di fatto) - ma il target è renderla  un “lavoro come un altro” affinchè  la figura classica del pappone e della pappona (2) acquisisca una sua dignità e legalità (4) nel senso di libero imprenditore (sistema tedesco, neozelandese e affini, i cui esiti sono tristemente noti). Vale a dire, si auspica anche in questo caso la figura di un datore di lavoro o comunque di terzi che possano trarre un utile da detta attività (che non sono panettieri, commercialisti, generici tassisti, normali padroni di casa, parenti che offrono la prestazione in casi particolari, come talora si desidera dare ad intendere). Tale retorica viene portata avanti sia attraverso la disinformazione e mistificazione (ad esempio "decriminalizzare le prostitute!", la cui attività in Italia è legale, si vedano i dettagli a piè pagina. La non validità di contratti relativi dipende anche dalla difficoltà, di fatto, in un’aula di tribunale di valutare la qualità della prestazione o l’avvenuta prestazione con relativi risarcimenti) sia attraverso svariati cavalli di battaglia che paradossalmente vengono talora infarciti di  A per anarchia: la finta trasgressione per ottenere l’effetto bandwagon anche tra le fasce più tradizionalmente a sinistra e da contrapporre ai leghisti che parimenti spingono in tale direzione (Salvini di recente come promessa elettorale). Se prima in ogni talk show vedevamo persone che pregavano di pagare le tasse, dopo le conferme su detto obbligo si nota invece una certa tendenza ad  evitare le telecamere. Il vero obiettivo era un altro. Per taluni  la riapertura dei bordelli e per altri i daspo contro prostitute straniere non sono altro che un modo di risolvere questioni di “decoro urbano”. Vale a dire i modelli di quei bigotti di svedesi, norvergesi, finlandesi o francesi (punizione del cliente) possono funzionare solo in presenza di stati che garantiscano effettive possibilità di scelta alle donne coinvolte, garantendo diritti e tutela alle donne straniere che oggi non a caso costituiscono il grande bacino dei sistemi prostituenti. Essere costrette alla clandestinità, il terrore di essere espulse, l’impossibilità quindi di avere accesso al lavoro fanno parte del circolo vizioso. Per quanto riguarda la locuzione sex work, risignificazione neoliberista della più antica oppressione del mondo, questa non rimanda ad altro che alla diserotizzazione del corpo femminile, entrato pure esso nel normale ciclo produttivo, nella catena di montaggio. In un modo o nell’altro le donne non devono godere, o comunque il godimento è secondario, esser devono produrre piacere ad altri o riprodursi (la sopravvissuta Rachel Moran nello splendido testo “stupro a pagamento” chiarisce bene anche molti meccanismi di autodifesa delle donne coinvolte in questi processi). Fino ad arrivare al noto “eh ma esistono persone che lo fanno volentieri!”( e infatti qualche testimonial si trova sempre, come per i voucher o altri sistemi di oggettivo sfruttamento) : questo non cancella il sistema,  basato ieri (si leggano gli atti al tempo della legge Merlin, sulle donne che popolavano le “case chiuse”) come oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, su estrema indigenza e neppure la valenza culturale del tutto in termini femministi, dal momento che il femminismo non è semplice accettazione dello status quo ma presa di coscienza e contestazione dei paradigmi  e modelli maschilisti dominanti. Posso non voler proibire il concorso di Miss Italia e Miss Universo, e le participazioni volontarie appunto, ma di certo e quanto meno devo analizzare criticamente il suo significato all’interno di un sistema patriarcale e maschilista, il modo in cui esso induce a collaborare con esso. Vale anche per chi si presta volontariamente alla pubblicità sessista e avanti con esempi simili. “Nessuno le costringe” non è una risposta sufficiente, infatti la storia non è costellata di donne che si sono adeguate ai ruoli con una pistola puntata alla testa, anzi. E la colpa non può essere imputata nemmeno alle donne stesse (si legga il manifesto redstockings). Tutti i grandi successi avuti fino al giorno d’oggi non si sono certo avuti sulla base della considerazione di una pistola o meno puntata alla testa. Ma attraverso processi di informazione, autocoscienza e creazione di condizioni materiali idonee.

L’analogia con la raccolta dei pomodori. Ovvero come il neoliberismo nega la specificità della violenza o sfruttamento sessuale. Ormai accade non di rado di vedersi confrontate con l'equazione sessualitá = raccolta dei pomodori, delle zucchine, rifare i letti di un albergo, fare la badante. Questa equazione viene portata avanti, come detto,  da chi cerca di depenalizzare il reato di induzione e sfruttamento della prostituzione, ovvero la legalizzazione del datore di lavoro o chi ne trae utili  - pappone o pappona -  ovvero i grandi o piccoli bordelli come in Germania.  La "logica" alla base di questa equazione é la seguente: la fica non é sacra (suona molto ribelle e disinibito, “anarchico” appunto) , quindi puó essere venduta appoggiandosi a un datore di lavoro come un altro. Quali sono le conseguenze di un simile messaggio? 1) Una corsa al ribasso, diritti al ribasso, la coerenza al ribasso. Se come sistema permettiamo lavori sfiancanti e malpagati in un call center, in un campo di pomodori e zucchine, in un albergo, in una casa di riposo, per coerenza (!) dobbiamo permettere anche lo sfruttamento sessuale. Significativo come gli ultrá di questa equazione non facciano mai paragoni con il mestiere o la professione di giornalista, medico, ricercatore, insegnante, operaio specializzato, infermiere, elettricista. Perlomeno ammettono che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di persone che non hanno avuto la possibilitá di scegliere tali professioni, di avere un percorso di studi o avviamento professionale che permettesse loro di accedervi. E infatti oggi i soggetti coinvolti nella tratta (che non é solo una pistola puntata alla testa ma ogni situazione di estrema indigenza, per cui la parola libera scelta o autodeterminazione si trasforma in una pagliacciata neoliberista) sono soprattutto straniere. Non a caso parlo anche di neocolonialismo. Non a caso alcune sopravvissute (3)  sottolineano il carattere marcatamente razzista degli attuali sistemi mercificanti, laddove il cliente anche della tratta classicamente intesa - pistola puntata alla testa -  scompare da ogni dibattito (in media un uomo bianco, etero, occidentale, benestante). Senza contare la consueta deliberata confusione tra libertà del mercato e libertà personale e l'approccio meramente individualistico e non sistemico tipico delle logiche neoliberiste. La differenza tra libertà del mercato e libertà personale (aborto, eutanasia, libera coltivazione di cannabis a uso personale o terapeutico) si può evincere anche da un’analogia con i voucher: per un lungo periodo in tv abbiamo visto testimonial che si dichiaravano felicissimi di essere retribuiti in questo modo. Qualche testimonial si trova sempre e non è difficile metterlo in prima pagina quale campione rappresentativo. La famosa giustizia fondata sul sondaggio, perdippiù ad minchiam, ovvero condotto in modo non scientifico. "Se a me piace essere retribuito così, perché qualcuno dovrebbe impedirmelo? Tenendo conto del fatto che gli altri possono rifiutarsi?" Capirete da voi che tale “libertà di scelta” non influisce soltanto sul soggetto desiderante ma sull’intera società, in quanto crea un sistema dal quale scompaiono, o possono scomparire per tutti, altre forme di retribuzione. Sul mercato non si può parlare di meri desideri individuali: nel momento in cui avvengono transazioni economiche queste incidono sull’intero sistema. Se io decido di intrattenermi con 10 uomini al giorno può essere effettivamente cosa bella e piacevole e una mia legittima scelta, se decido di mettere il mio corpo sul mercato in una qualsiasi forma la “scelta” non riguarda più solo me, ma tutte le donne che potranno essere coinvolte in tale mercato, per motivi che con la libera scelta nulla hanno a che vedere. Idem per la donazione di organi da viventi: una cosa la donazione altra la possibilità di venderli, che trascende il soggetto desiderante. Talora si riscontra anche una sorta di razzismo inverso: il lavoro di prostituta sarebbe più gratificante di quello della badante e permetterebbe di guadagnare di più (discutibile, dato che con l’aumento dell’offerta calano i prezzi come successo in nuova Zelanda (4) o altrove, e si vedano i nuovi bordelli all you can fuck in Germania e Svizzera)  2) La negazione della specificitá della violenza sessuale: se io ti stupro, é vero sí che ti ho costretto a fare qualcosa contro la tua volontá o che non ti piace. Ma non ti piace nella stessa misura in cui non ti piace raccogliere pomodori, zucchine, o rifare i letti. E se ti costringo a rifare un letto o 10 letti in un giorno, certo non rimarrai traumatizzata per questo. Anche se non hai gradito. Questo discorso vale in primis per la prostituzione basata su mancanza di risorse economiche 3) "Risolvere" il problema occupazionale, offrendo nuove e ben piú gravi forme di sfruttamento. 4) Tacciare di incoerenza tutti coloro che ogni giorno si battono per ogni tipo di sfruttamento (e che in ottica anticapitalista auspicherebbero un sistema totalmente diverso) ma che ben riconoscono i gradi e la specificitá della violenza sessuale. Usare uno sfruttamento per negarne un altro. Ricorrere al sempreverde trucco all lives matter per depoliticizzare questioni specifiche. Il metodo di molti hater antianimalisti: "e allora il coltan??!1 e allora le pantofoline indiane??!1 e allora i virus?!" 5) il rovescismo  o risignificazione dello slogan "il corpo è mio e me lo gestisco io", passato da libertà di autodeterminarsi a libertà di auto-oggettificarsi ("il corpo è mio e me lo mercifico io, il mio pappone me lo scelgo io, ad Arcore ci vado da sola").  Libertà è libertà di avere un padrone. Libertà è libertà di avere un prezzo.  Di autoetichettarsi.  Non a caso questa "accezione" è stata spesso invocata (Sgarbi se non erro, tra i tanti) per legittimare il sistema Arcore, tra i molti esempi che si potrebbero citare. Al di là dell'ordinamento giuridico e soluzioni in termini legislativi, va ricordato che il femminismo intende agire soprattutto sulla cultura e non è esattamente la cultura dell'auto-oggettificazione il target, come le mistificazioni neoliberiste vorrebbero dare ad intendere.

Vittimizzazione. Svincolare una donna dal "ruolo" di vittima, “consegnarla” al regno dell’autodeterminazione non significa convincerla che lo status quo possa essere re-interpretato o ri-significato a suo vantaggio (femminismo neoliberista), ma creare le condizioni per cui possa "imbracciare un fucile" contro di esso.  E quindi scegliere. Tutta la querelle sul "victimhood" era nata bene (non siamo fragili per natura, non necessitiamo di un tutor) ma come spesso accade é finita malissimo. Si è tramutata nella accettazione acritica dello status quo, nel cercare di ottenere qualche briciola in più dal sistema patriarcale. In rassegnazione. Pagando pure le tasse. Nella ricerca della istituzionalizzazione e normalizzazione di una industria. Che con l’anarchia pure poco ha a che fare. Magari però con l'anarcopatriarcato. Il discorso è molto pericoloso perchè potrebbe portare anche a legittimare situazioni di violenza domestica, fisica o psicologica: se la donna non si ribella, non denuncia, non scappa, non si lamenta, significa che è autodeterminata. La locuzione sex work in realtà non rappresenta che la normalizzazione e istituzionalizzazione di una gerarchia (difficilmente nel bordello come forza lavoro troviamo un uomo bianco, occidentale, benestante, etero. Lo troviamo solo come cliente. E le donne, ormai quasi tutte straniere dell'est o del continente africano, la "forza lavoro",  vi sarebbero quindi "portate per natura"?) e dello status quo in termini di sfruttamento. Tutto ben diverso dalla "prostituta anarchica" (rara ma esiste) che si pone fuori dal sistema e se ne fa beffe. Come Diogene di Sinope, che si dice vivesse in una botte. Senza tetto per scelta ve ne sono, non per questo istituzionalizzo l'essere senza tetto magari tassando pure l'elemosina ricevuta. Riassumendo, la vittima non scompare in quanto è scomparsa l'oppressione o l'immagine distorta della natura "femminile" ma in quanto si è ri-significato positivamente il suo status.

Bigottismo. Spesso le abolizioniste vengono definite bigotte. In questo modo si cerca di deviare l’attenzione dalla valenza sistemica attraverso banalissimi attacchi ad hominem, ai quali, dato il livello, si può rispondere in un unico modo: meglio suore che finte puttane (molte professorine col culo al caldo amano entrare in scena in questo modo, suona molto anarchico dire che si è puttane, in ottica da tredicenne). Inoltre sono proprio le libfemm ad avere una visione romantica e idealizzata del meretricio, laddove l' istituzionalizzazione e statalizzazione attraverso il bordello, la tassazione e il "datore di lavoro" non rappresentano altro che la vittoria della gerarchia, sociale ed economica, proprio quella che si dice di voler combattere. Altro che anarchia. Ricordo volentieri che la rivoluzione sessuale è stata portata avanti dal "veterofemminismo" anni 60 e 70 e non da quella pagliacciata funzionale al sistema  che è diventata la corrente “sex positive”.

Paternalismo o sul "sovradeterminare". Torniamo ai  voucher. Potrete trovare diverse persone contente di averli ricevuti, altre che avrebbero preferito diverse forme di retribuzione, altre ancora che in generale hanno condannato l'intero sistema considerato di sfruttamento. Per caritá, legittimo avere diverse opinioni. Ma di certo sembrerebbe strano se qualcuno, che prenda in considerazione solo il primo gruppo, dicesse al terzo che si é paternalisti (o si sovradetermina) verso i lavoratori retribuiti con voucher. E che per questo il sistema dovrebbe permanere. Si possono sempre rifiutare! Oppure immaginate che qualcuno prenda come campione rappresentativo dei senza tetto Diogene di Sinope, e dica a chi vuole offrire case (non botti, non cartoni) di essere paternalista, dato che ci sono alcuni Diogene (ed é vero) che sanno quello che fanno. E allora la filosofia? E allora il brivido della libertá? Facciamo invece pagare una tassa su botti e cartoni, per garantire la libertá di tutti. Vi sembrerebbe strano vero? Potremmo continuare, e continuereste a meravigliarvi. Immaginate qualcuno che che voglia vendere il proprio rene e protesta perchè non si rispetta il suo desiderio commerciale e la sua "autodeterminazione" nel volerlo fare: direste che no, questo incide su tutti, ha a che vedere con la libertà del mercato - che trascende il soggetto desiderante -  distinta da quella personale, che riguarda solo noi.  Provate a prendere come base una qualsiasi forma di sfruttamento sessuale della donna e l'argomento del paternalismo verrá accettato senza battere ciglio. L'ottica sistemica completamente ignorata. E nessuno si meraviglierá. Le magie del patriarcato neoliberista.

Stigma . E concludiamo con lo stigma: in linea generale é quasi sempre l'oppressione a creare la discriminazione e non la discriminazione a generare oppressione. Perche? perche non si parla mai di idee iperuraniche ma di precisi meccanismi di potere. Un nero non é oppresso perché nero, un nativo non é oppresso perché si veste diversamente e ha diverse tradizioni. I neri sono stati prelevati e schiavizzati non perché l'uomo bianco in due secondi ebbe l'intuizione che nero é inferiore. L'uomo bianco necessitava dell'animale forza lavoro. A giustificazione di questa forma di potere si sono costruite le "razze" (splendida sul tema Colette Guillaumin). Poi arrivó l'abolizionismo. Perché le prostitute sono stigmatizzate? Per colpa delle "comari di paese"? Non proprio, non sono loro a parlare di quale donna sia piú chiavabile al miglior prezzo. Ma il cliente ovvero il patriarcato. Che deve mantenere la dicotomia santa per i figli puttana per il piacere. Controllando i corpi. Per non parlare delle prostitute straniere "ogni tanto vado con le nere ...sono stato anche con altre prostitute ma con le nere mi diverto di piú, é come fare un safari. Mi sembra di andare a caccia. Mi sembra di cacciare degli animali grandi e grossi. Poi sono tutte uguali, vai nel mucchio, non hai il problema della scelta. Poi loro per i soldi fanno tutto, con loro ti senti una potenza" (Dal Lago e Quadrelli, 2003, p. 231). Lo stigma si elimina con l'eliminazione dei SISTEMI di sfruttamento che quasi sempre sono di natura economica. E con la creazione di sistemi nuovi, che permettano di scegliere davvero, per non trasformare il concetto di autodeterminazione in una pagliacciata neoliberista, oltre che patriarcale e neocolonialista. Il pappone o la pappona come nuovo imprenditore dalla faccia pulita per risolvere il problema occupazionale in una infinita corsa al ribasso.Oggi per autodeterminazione si intende esclusivamente il non avere una pistola puntata alla testa, in un attimo si è cancellato tutto il discorso sul condizionamento sociale, cardine del femminismo, dato che il patriarcato si può reggere solo sul consenso "volontario" delle donne.

Abolizionismo quindi non significa proibire, ma creare le condizioni affinchè siano eliminati i gap socio-economici culturali che impediscono la libera scelta, che truccano da libera scelta l'oppressione, e avere l'obiettivo di una società radicalmente nuova e antigerarchica.

Effetto zio Roy e femminismo pop neoliberista. Oggi si sente parlare di "tanti femminismi", "per fortuna ci sono tanti femminismi", da contrapporre a quello "misandrico" e "punitivo". Cito: "come il padrone di schiavi del passato si serviva di Tom, il nero da cortile, per tenere a bada i neri dei campi, lo stesso padrone di schiavi oggi ha a sua disposizione i moderni zii Tom, gli zii Tom del ventesimo secolo, per tenere sotto controllo voi e me .. il movimento dei Black Muslims spaventò cosi tanto l'uomo bianco da fargli dire: 'grazie a dio abbiamo lo zio Roy e lo zio Whitney e lo zio A. Philip e lo Zio ..' (...) perciò non li chiamo più zii Tom ma invece Zii Roy.". Ecco, il femminismo liberalpop è lo zio Roy.

Alcune fonti:

(1) https://www.laleggepertutti.it/148101_quando-la-prostituzione-e-legale  (a parte qualche sporadica ordinanza ad effetto)

(2)  le pappone http://www.repubblica.it/cronaca/2010/09/10/news/la_tratta_delle_transessuali_business_da_20_milioni_al_mese-6925727/

(3) http://www.resistenzafemminista.it/vednita-carter-sopravvissuta-e-attivista-minnesota-usa-la-prostituzione-e-una-questione-razziale/

(4) http://www.resistenzafemminista.it/sabrina-sopravvissuta-alla-prostituzione-della-nuova-zelanda-la-decriminalizzazione-ha-fallito-la-soluzione-e-il-modello-nordico/ (situazione in Nuova Zelanda)

https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2014/06/26/sex-positive/

http://www.resistenzafemminista.it/precarieta-femminile-nel-patriarcato-neoliberista/

http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A7-2014-0071+0+DOC+XML+V0//IT   (il modello nordico consigliato in sede EU)

http://www.resistenzafemminista.it/amnesty-non-ha-voluto-ascoltare/  (Amnesty e la legittimanzione dello sfruttamento sessuale)

http://www.resistenzafemminista.it/donne-immigrazione-e-prostituzione-in-europa-non-si-tratta-di-sex-work-di-anna-zobnina/

https://www.theguardian.com/commentisfree/2015/oct/22/pimp-amnesty-prostitution-policy-sex-trade-decriminalise-brothel-keepers

 

 

 



 

 

 

 

356. La tirannia della bellezza

di Alessandro Rossi

Kalòs kai agathòs, dicevano i Greci. Ovvero “bello e buono”, per sottolineare come la bellezza fosse la forma esteriore di tutte le virtù morali, il perfetto connubio tra etica ed estetica. Gli eroi greci, così come le divinità, ma anche semplici uomini e donne di alto profilo morale venivano rappresentati da figure attraenti e armoniose. Era inconcepibile immaginare che un animo valoroso potesse avere un aspetto orribile. Al contrario Tersite, personaggio negativo, codardo e di incredibile bruttezza, incarnava l’antitesi della kalokagathia.

Questo corto circuito mentale che ci porta ad associare istintivamente il bello al buono (e viceversa il brutto al cattivo) è giunto sino a noi nella forma di un bias cognitivo chiamato effetto alone (halo effect).
L’effetto alone è la propensione ad attribuire qualità immaginarie a ciò che viene percepito come attraente, e a farlo per nessun’altra ragione se non una congenita tendenza a subire il fascino carismatico della bellezza, che come una fonte di luce radiosa estende un’aurea nobilitante tutt’intorno a sé.
Quando vediamo una persona attraente, senza avere alcuna informazione su di lei, siamo più facilmente portati a pensare che sia intelligente, simpatica, brillante e amichevole rispetto ad una persona dall’aspetto meno piacevole, indipendentemente dal sesso e dall’età.
In uno dei tanti esperimenti a riguardo, una giovane ragazza carina e ben vestita e una donna meno attraente fingevano di essere in evidente difficoltà a trasportare un bagaglio su per una scalinata. Gli sconosciuti si mostravano prontamente disponibili ad aiutare la prima, mentre la seconda veniva praticamente ignorata.

In fondo che c’è di male ad avere una predilezione per la bellezza? Un po’ di male c’è, perché l’effetto alone innesca un giudizio a priori che guida i nostri comportamenti, in positivo o in negativo, nei confronti della persona che lo ha generato. Questo tipo di condizionamento avviene ogni giorno in modo del tutto inconsapevole.

Neonati di bell’aspetto nei loro primi giorni di vita crescono più sani e lasciano in minor tempo l’ospedale perché le ostetriche dedicano loro cure più attente e per un tempo prolungato.
Gli insegnanti tendono a dare voti più alti agli studenti attraenti rispetto ai loro compagni e in caso di comportamenti negativi tendono a valutarli in modo meno severo.
La bellezza nel mondo del lavoro fa guadagnare mediamente più soldi, fa percepire gli impiegati come più competenti e produttivi, fa ottenere un maggior numero di vendite.

La tirannia della bellezza riesce a permeare ogni strato della nostra società, tirando i fili di comportamenti le cui motivazioni sfuggono ad un controllo consapevole.

La bellezza nel tempo ha cambiato veste, mutando di continuo attraverso contesti storici e culturali, ma la sua celebrazione non è mai stata messa in discussione. I canoni estetici sono un prodotto del tessuto socioculturale, ma la capacità di riconoscere una qualche forma di bellezza e la tendenza ad assumerla come indicatore di qualità diffuse è un prodotto della psicologia umana, profondamente radicato nella nostra natura biologica.

L’origine della bellezza: perché ci piace quello che ci piace?

Se ci chiediamo perché il bello esercita un potere così forte su di noi verrebbe da rispondere semplicemente che la bellezza piace. In questo modo, però, si sta solo spostando il punto della questione. Per quale motivo dovrebbe piacere? Perché un bell’aspetto è irrilevante per un ragno, un topo, uno scimpanzé, ma è fondamentale per noi?
Se l’evoluzione ha modellato gli istinti, le pulsioni e le preferenze dell’animale uomo in modo da favorire le caratteristiche che meglio promuovevano la sua fitness, allora questo irrefrenabile amore per la bellezza deve essere funzionale a qualcosa. In altre parole significa che un nostro antenato con una spiccata preferenza per la bellezza doveva avere più chances di sopravvivere e riprodursi rispetto ad un altro che fosse stato indifferente.

Oltre alla nota teoria Darwiniana della selezione naturale, ce n’è un’altra da lui formulata che ha faticato un po’ di più ad affermarsi a causa delle resistenze culturali dell’epoca.
E’ la teoria della selezione sessuale.
La teoria afferma che la pressione selettiva esercitata dall’ambiente non è l’unica forza in gioco a determinare le caratteristiche migliori per la sopravvivenza. Anche la scelta del partner con cui accoppiarsi può influenzare in modo significativo quali tratti verranno mantenuti ed eventualmente amplificati, di generazione in generazione, e quali invece saranno destinati ad estinguersi.

Tale scelta però non può essere arbitraria, poiché deve fare i conti con l’effettiva qualità del partner potenziale, in termini di salute, resistenza, capacità riproduttiva, abilità nel procacciarsi le risorse, etc… Un uomo che fosse stato attratto dall’ittero della pelle (la colorazione giallastra sintomo di insufficienza epatica) avrebbe generato con tutta probabilità una prole esposta a patologie del fegato e nel giro di poche generazioni la fitness totale della sua discendenza sarebbe scesa a zero, portando ad estinzione quella preferenza.

La selezione sessuale diventa così teatro di una guerra dei sessi che vede da una parte chi ha interesse a fare una scelta oculata per evitare di accoppiarsi con un partner scadente e mettere al mondo figli con un corredo genetico peggiore del proprio, e dall’altra chi deve fare di tutto per mettere in evidenza le proprie qualità. A questa corsa agli armamenti partecipano anche tutti coloro i quali, sprovvisti di un pool genico “vincente”, cercano di ingannare l’altro sesso facendogli credere di essere un buon partito.

Se gli animali se ne andassero in giro con una specie di certificato che attestasse in modo inequivocabile il loro valore assoluto in termini evoluzionistici, ciascuno sarebbe consapevole del proprio potenziale e di quello del partner, e potrebbe decidere senza difficoltà secondo semplici leggi di mercato.
Decisamente poco poetico, certo, ma estremamente efficace.
Dal momento però che le qualità legate all’effettiva fitness di un individuo sono nascoste, le specie hanno evoluto degli indicatori in grado di dare una misurazione esteriore di quel valore.

Il caso più emblematico, perché facilmente riconoscibile anche ai nostri occhi, è quello della coda del pavone. Il pavone maschio sfoggia una coda di eccezionale bellezza, adornata di colori vivaci e dei caratteristici grandi occhi che sembrano voler catturare lo sguardo. E in effetti lo fanno. Nella stagione degli accoppiamenti i maschi si riuniscono in una specie di arena chiamata lek, in cui si danno battaglia a suon di sfilate, ostentando colori e dimensioni, facendo la ruota e ingaggiando danze seducenti: una specie di Mister Pavone.
L’uccello vedova del paradiso fa qualcosa di simile, ma si contraddistingue per avere un “piumaggio nuziale”, ovvero penne della coda incredibilmente lunghe il cui unico scopo è quello di attrarre le femmine nel periodo degli amori. Modificando la lunghezza delle penne, attraverso l’applicazione di penne artificiali, è stato misurato che i maschi con le penne (finte) più lunghe erano quelli che si procuravano più femmine.
Molte specie di rane invece hanno puntato sul canto. Quel fastidioso gracidio che possiamo udire nella stagione estiva è in realtà un soave richiamo d’amore, la cui maggiore intensità o profondità di tono è per la rana femmina quello che per un uomo è un corpo da urlo.
Ma cosa hanno di speciale la coda del pavone, le penne dell’uccello vedova o il canto della rana? Per quale motivo proprio queste caratteristiche si sono imposte come attrattive, e non altre?
In molti casi perché si tratta di ornamenti costosi, difficili da produrre e quindi da contraffare. E per ostentare qualcosa di così antieconomico ed effimero è necessario poterselo permettere.
Del resto un uomo che va in giro in Ferrari e regala alla sua donna un diamante è molto più probabile che sia un miliardario, piuttosto che un ladro, un truffatore o un semplice impiegato. Questo, con parole diverse, è il Principio dell’handicap.

Gli animali, dunque, hanno evoluto canoni estetici differenti di specie in specie, ma accomunati da un senso innato per la bellezza, intesa come insieme di ornamenti e indicatori sessuali.

Torniamo a noi. Se una donna con un elevato potere riproduttivo si distingue per avere un rapporto vita-fianchi pronunciato, gli uomini dovrebbero essere attratti dalla tipica forma “a clessidra”.
Se i capelli lucidi, una pelle priva di imperfezioni, uno sguardo luminoso e denti bianchi indicano un individuo femminile giovane, sano, resistente a malattie e parassiti, allora gli uomini dovrebbero sviluppare una preferenza per questi indicatori più che per altri.
Allo stesso modo, se tratti mascolini accentuati come la forma del viso più squadrata, una mascella pronunciata, una muscolatura evidente, una postura alta e slanciata indicano un uomo che incarna doti di forza, resistenza e salute, allora le donne dovrebbero trovare più attraenti queste caratteristiche in quanto predittive della capacità maschile di offrire protezione e allevare con successo i figli.

Le caratteristiche estetiche che troviamo attraenti sono un certificato attendibile che indica la presenza di “buoni geni”, secondo la teoria sviluppata da Ronald Fisher.
In sintesi, un bell’aspetto è la campagna pubblicitaria che i geni di qualità fanno di se stessi.

Ma se da una parte vi sono indicatori, dall’altra ci deve essere un sistema di rilevamento in grado di misurarli. Un circuito semplice, immediato, efficace, che traduca questi segnali in un impulso capace di scuoterci e motivarci per tradurre l’informazione in obiettivi. Ci vuole una vocina interna che, non appena si presentino indicatori di buoni geni, ci dica “guarda là che magnifico esemplare per riprodursi!”, e magari inneschi anche una buona dose di neurotrasmettitori per farci provare quel senso di ebrezza, quell’euforia, quel desiderio irrefrenabile di avere un corpo così bello. Per farci sentire le farfalle nello stomaco.
La nostra naturale predisposizione ad apprezzare la bellezza quando la vediamo è esattamente il radar interno che riconosce informazioni sui buoni geni e guida verso di essi i nostri comportamenti.

Oggetti che seducono: se è bello vale di più

Quando dobbiamo acquistare una macchina, un cellulare o un frigorifero dovremmo prendere in considerazione le caratteristiche tecniche dell’oggetto in rapporto a cosa ci serve e quanto ci possiamo permettere. Ma è davvero così?
A giudicare dagli sforzi che le marche dei settori più disparati investono nel tentativo di fabbricare un prodotto attraente appare evidente che la logica della bellezza abbia invaso anche le decisioni di acquisto.

Nella scelta di un paio di sci, uno spremiagrumi, un orologio da polso o un tablet, le persone mostrano la stessa ricerca estetica che contraddistingue la preferenza per un partner di bell’aspetto. Ci innamoriamo di linee armoniose e profili sinuosi che appartengono ad oggetti, e lo facciamo per la stessa ragione per cui ci colpisce uno sguardo ammiccante.

Sembrerebbe che la nostra naturale tendenza a riconoscere gli ornamenti sessuali in quanto indicatori di qualità si sia estesa a tutto ciò che vediamo, compresi i prodotti di consumo ai quali riconosciamo un valore superiore per il solo fatto di apparire attraenti ai nostri occhi.

Progettazione e design, utilizzo di materiali rari o preziosi, lavorazione artigianale, sono tutti elementi che come conseguenza diretta innalzano il costo di produzione. Un maggior costo determina un prezzo più alto, e quindi riduce i potenziali destinatari, che per il solo fatto di sentirsi appartenenti ad una elite percepiscono l’oggetto come più desiderabile.
Prodotti le cui caratteristiche aumentino significativamente i costi di fabbricazione e di conseguenza riducano la platea di potenziali acquirenti incarnano esattamente il Principio dell’handicap biologico.

Il prezzo di un prodotto condiziona sensibilmente la nostra percezione sul suo effettivo valore. In un esperimento i soggetti dovevano degustare alcuni vini e stilare una classifica delle loro preferenze. Il vino da 45 $ era molto più apprezzato di quello da 5 $, anche se in realtà si trattava dello stesso vino, cui erano state applicate etichette di prezzo diverse, mentre quello da 90 $ era considerato decisamente il migliore.
Ma ripetuto l’esperimento togliendo qualsiasi riferimento al prezzo o al produttore, il vino che era piaciuto di più si è rivelato essere quello più economico in assoluto.
In sostanza persone comuni, che dovrebbero giudicare un prodotto esclusivamente secondo il gusto personale, subiscono il potere del valore economico come rivelatore di una qualità solamente presunta.

Quando acquistiamo uno smartphone, un’auto o una cucina utilizziamo la bellezza delle forme ed il dispendio di energie per produrle come fattori di conversione del valore intrinseco dell’oggetto. In pratica, se i dettagli della carrozzeria di un’auto, o la consistenza dei materiali con cui sono assemblati gli interni riescono a sedurre i nostri sensi e a proiettare un’immagine legata al lusso, siamo portati automaticamente a interpretare tale percezione come certificazione di qualità invisibili.
Abbiamo esteso una regola biologica ad una proprietà tecnica.

Insomma, sembra proprio che non possiamo evitare di giudicare un libro dalla copertina, che sia un prodotto, una persona, o un animale.

Il koala e il pipistrello: l’effetto alone sugli animali

Qual è il tuo animale preferito? Di fronte a questa domanda generalmente l’elenco dei candidati è abbastanza ristretto: il leone, la tigre, l’aquila, il delfino, il cavallo, il lupo, il panda, il cane, il pesciolino Nemo.

Nell’immaginario collettivo gli animali simbolo sono predatori fieri e veloci, creature nobili e armoniose nei movimenti, oppure menti raffinate che di diritto hanno guadagnato un posto privilegiato ai nostri occhi, nella misura in cui ci riconosciamo in loro.
Il modo in cui costruiamo categorie fittizie all’interno delle quali diversificare gli animali secondo presunte caratteristiche deriva dallo scorgere anche in natura un’estetica che incarna qualità antropomorfe.

Il cavallo e l’aquila sono simbolo di libertà, ma non lo sono l’asino o la cornacchia.
Il cervo e la tigre sono simbolo di eleganza, ma non lo sono la mucca o la iena.
Il leone e lo squalo sono simbolo di forza, ma non lo sono l’ippopotamo o l’elefante.

L’effetto alone esteso agli animali produce gli stessi pregiudizi che riempiono il mondo del lavoro e delle relazioni. Le conseguenze in questo caso hanno a che fare con la nostra visione di un mondo animale diviso in caste, dove i livelli superiori sono occupati dagli animali che maggiormente colpiscono la nostra sensibilità estetica, e ai quali, per questo motivo, risulta più facile attribuire una maggiore capacità di cognizione ed emozione.
Le ripercussioni etiche di questo atteggiamento sono importanti poiché determinano chi è intoccabile e chi sacrificabile.
Uccidere un cane per molti sembra assai diverso dall’uccidere un polipo, ma è arduo definire tale apparente divario secondo criteri che non siano puramente estetici.

Perfino nella scelta degli animali da compagnia, laddove le caratteristiche ricercate si legano esclusivamente all’affettività e alla possibilità di stabilire un rapporto empatico con l’animale, siamo inevitabilmente condizionati dall’immagine che abbiamo di fronte, e tendiamo a razionalizzare i nostri motivi di scelta secondo logiche fragili, nel tentativo di dimostrare a noi stessi che un cane o un gatto sono migliori amici dell’uomo rispetto ad una capra, nonostante tale demarcazione, in assenza di differenze rilevanti sul piano cognitivo, comunicativo e della docilità, sia del tutto arbitraria.

Se i cuccioli di foca avessero l’aspetto di pipistrelli o ragni giganti, le raccolte firme in loro difesa sortirebbero gli stessi risultati?

L’estetica del male: il fascino dell’antieroe

Parlando di bellezza però non bisogna considerare solo i canoni classici di armonia ed eleganza delle linee. L’ideale di bellezza ha costituito un punto di riferimento talmente centrale nella nostra psicologia da essere sublimato in un più generico senso estetico per la forma in tutte le sue declinazioni, comprese le espressioni di comportamento.

Culture di ogni epoca e contesto celebrano con modalità analoghe eroi ed antieroi, figure antitetiche nelle modalità espressive, ma accomunate da una resa quasi pittorica che le delinea come perfette, nel bene o nel male.

Eroi ed antieroi seducono perché utilizzano un’estetica che fa presa su una nostra capacità di percepire tale perfezione ed esserne affascinati, indipendentemente dai valori di riferimento. Il cattivo seduce perché è eccezionale in quello che fa, riesce a raggiungere i suoi obiettivi nonostante difficoltà e colpi di scena, determina il suo destino e cuce su di sé un profilo coerente e senza sbavature rispetto al personaggio che incarna, tanto quanto il buono. Non è cosa fa ma come lo fa. E’ forma e non contenuto.

Non è una questione di etica. Un cattivo mediocre, sgraziato, che riesce a farla franca in modo maldestro o con l’aiuto della fortuna non riesce a conquistare l’immaginario perché il suo modo di agire è brutto quanto un goal realizzato con un brutto gesto atletico. L’antieroe, al contrario, può essere diabolico e crudele, ma risulta affascinante se il suo modo di incarnare il male è esteticamente ineccepibile.

Nel film “I soliti sospetti” il protagonista inganna tutti: polizia, compagni criminali, presunti amici e spettatore. L’inganno è agli antipodi rispetto ai valori classici, è l’atto più meschino che si possa concepire, ma nella sua forma è straordinario perché eseguito in modo perfetto. Kevin Spacey, che interpreta il personaggio di “Verbal” Kint, un falso storpio, inetto, pusillanime, fifone, inutile ed insignificante, alla fine del film appare enorme come un dio per essere riuscito a tessere l’inganno perfetto. In un’epica metamorfosi finale l’insulso Verbal prende la forma del Re degli ingannatori: “La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste“. E lo spettatore non può fare a meno di subire il fascino dell’estetica del male.

Belli e impossibili: i modelli irraggiungibili dei media

I media da sempre hanno compreso l’importanza di utilizzare la bellezza come lasciapassare per veicolare qualsiasi tipo di messaggio in modo più veloce, persuasivo ed efficace.
In TV, sui cartelloni pubblicitari, nelle riviste di gossip, fino alla pornografia campeggiano donne incantevoli con fisici statuari, uomini affascinanti ed elegantissimi, ragazze supersexy e maschi muscolosi. Qualsiasi sia il prodotto da vendere o l’evento da sponsorizzare, la bellezza è un catalizzatore naturale e irresistibile, anche in ambiti in cui l’aspetto estetico dovrebbe essere del tutto irrilevante.
Il solo fatto di associare un prodotto ad un modello di desiderabilità conferisce al prodotto stesso un valore più alto, come se tale desiderabilità si trasferisse dalla persona all’oggetto.

Tale meccanismo è amplificato dall’adozione sempre più spasmodica di modelli di riferimento irraggiungibili nella loro perfezione estetica. L’abuso del fotoritocco ha costruito una dimensione ideale di persone che di fatto non esistono, ma sono percepite come se potessimo incontrarle ogni giorno in autobus o al supermercato.
L’esplosione dell’immagine attraverso i social media, gli smartphone e internet ha causato un’esposizione martellante a questo tipo di bellezza artefatta. Nonostante chiunque sia consapevole di trovarsi di fronte ad un’estetica non rappresentativa della realtà, è praticamente impossibile impedire ai sensi di rimanerne impressionati. Gli occhi registrano le immagini e le trasferiscono al cervello, il quale le memorizza, le organizza in categorie e crea una rappresentazione del mondo. Un mondo che però non è fedele alla realtà quotidiana, ma ad una pseudorealtà mediatica.
E’ qui che si innesca un processo pericoloso. La nostra naturale necessità di utilizzare categorie generali per formulare giudizi ci porta a fabbricare stereotipi, che in linea di massima sono una discreta approssimazione del mondo che ci circonda. Quando ci troviamo a dover prendere delle decisioni sulla base di una grande quantità di informazioni ricorriamo a macrocategorie stereotipate che abbiamo memorizzato, in modo da semplificare la situazione che abbiamo di fronte, sostituendola con un modello noto. Questo meccanismo prende il nome di euristica della rappresentatività, ed è una scorciatoia estremamente utile per evitare di rimanere paralizzati dalla complessità di informazioni che altrimenti dovremmo valutare una per una.

Ma cosa accade se gli stereotipi cui facciamo riferimento e con i quali confrontiamo le situazioni reali sono fasulli? Cosa accade se le persone si rifanno ad un modello che viene presentato come punto d’arrivo, ma è di fatto inarrivabile?
L’euristica della rappresentatività va in tilt e fallisce poiché si scontra con stereotipi che in realtà non sono rappresentativi, ma si collocano agli estremi di una ipotetica distribuzione normale.
In pratica quello che accade è che le nostre medie di riferimento sono tutte sballate: pensiamo che il mondo sia pieno di donne e uomini perfetti e tendiamo a veder sfigurare chiunque nel confronto, compresi noi stessi.
Il divario tra il modello e la realtà dei fatti alimenta un senso di inadeguatezza tanto più vertiginoso quanto più lontani si spingono i parametri di bellezza.
Gli psicologi Kenrick e Gutierrez hanno condotto alcuni studi su questo fenomeno e ne hanno misurato gli effetti. Soggetti maschili esposti ad immagini di donne eccezionalmente belle, come potrebbero essere le migliaia che vediamo ogni giorno su alcuni profili Instagram, valutavano sotto la media l’aspetto di donne altrimenti considerate normali. In più, si dichiaravano meno coinvolti nella relazione con l’attuale compagna di quanto dicevano se non venivano mostrate loro le immagini attraenti.

Sulle donne l’esposizione ai modelli di bellezza ha effetti differenti, in quanto non fa leva sull’attrattiva maschile, ma ancora una volta su quella femminile. Le donne sono sensibili al fascino delle altre donne e la loro autostima è spesso conseguenza diretta del confronto con quei modelli.
In tutto questo proliferare di modelli artefatti e punti di riferimento fuori portata, va notata l’ironia di come sia gli uomini che le donne valutino se stessi utilizzando il modello sbagliato.
Gli uomini dal canto loro si rifanno ad un modello di atleticità maschile (quello sulle copertine di Men’s Health, per intenderci) che per le donne è eccessivo.
Le donne, d’altra parte, hanno interiorizzato un ideale di magrezza e forme perfette piuttosto lontano da ciò che gli uomini considerano effettivamente appetibile.
Entrambi vivono una frustrazione prodotta dall’impossibilità di raggiungere un modello di desiderabilità che è solo presunto, ma è sbagliato.

Considerando dunque il potere pervasivo della bellezza viene da chiedersi: quanto siamo realmente influenzati dal senso estetico in tutte le sue declinazioni, quando si tratta di scegliere un partner, prediligere un individuo piuttosto che un altro nelle amicizie, sul lavoro, o magari nelle scelte di consumo?
Gli esseri umani sono creature complesse, i cui variegati comportamenti sono difficili da inquadrare all’interno di dinamiche dettate semplicemente dalla biologia. L’inclinazione alla bellezza, tuttavia, è un richiamo naturale potente e ci rende facili vittime del suo fascino al punto da manipolare inconsciamente le nostre scelte e fabbricare false motivazioni razionali a posteriori.

La prossima volta che troveremo interessante una bella donna o irresistibile un’automobile dovremmo chiederci: quanto sono liberi questi giudizi e quanto invece sono semplicemente il frutto della tirannia della bellezza?

 

Bibliografia e approfondimenti

Uomini, donne e code di pavone – Geoffrey Miller
La regine rossa – Matt Ridley

Sull’halo effect nella vita quotidiana

Che cos’è l’effetto alone
Good-Looking People Make More Money
Effetto Alone: quando la mente ci inganna
Effetto Alone: la mente è un mistero
Attractive students get higher grades

Sull’esposizione ai modelli di bellezza nei media

Why I hate beauty
The Science of Beauty
Beware of Beauty Overload

Sulla bellezza in biologia

The Handicap Principle
Sexual selection
Aesthetic evolution by mate choice: Darwin’s really dangerous idea

Sulla percezione della bellezza negli animali

Why you want to save the whales, but not the crickets
The Cute Factor: Why We’re Obsessed with Pictures of Babies and Animals

https://lascimmiachepensa.wordpress.com/2016/07/29/la-tirannia-della-bellezza/

 

 

355. Sul negazionismo della schiavitù femminile legalizzata

Lunedì 5 settembre 2016 è andato in onda su Presa Diretta (Rai 3) un reportage sulle conseguenze della “regolarizzazione” (principalmente si tratta della depenalizzazione del reato di favoreggiamento) della prostituzione in Germania, che vede coinvolte nella maggior parte dei casi ragazze straniere. In realtà nulla di nuovo, il tutto corrisponde anche al rapporto EU 2014 sul tema, e a un reportage di Internazionale pubblicato nel marzo 2015. Quello che sconcerta è un certo negazionismo sul tema, portato avanti anche da qualche movimento femminile mirante al mantenimento dello status quo patriarcale. Tale negazionismo si spinge fino alla ridicolizzazione e denigrazione delle ex sex worker fatte passare per bigotte (alla pari di chi offre loro voce e supporto) oppure come martiri create a tavolino e strumento del complotto globale organizzato da chi lotta contro lo sfruttamento sessuale. A dibattito sono anche i modelli nordici (da me auspicati, in quanto notoriamente le società del nord Europa sono le più bigotte e inique del mondo) quale soluzione. Se da una parte può essere legittimo discutere sulle alternative più valide, che potrebbero anche non poggiare esclusivamente sui modelli nordici - il dibattito sul tema è sempre benvenuto e auspicabile - dall’altra appare aberrante la negazione della nuova schiavitù legalizzata nel cuore della civilissima Europa. Qui a seguito riporto volentieri tre articoli (lunghi, in quanto la questione è complessa) che ben illustrano come lo spirito patriarcale cerchi alleati, e di fatto li abbia trovati, anche tra donne. Che altre donne fossero contro le ribelli del proprio tempo è del resto cosa nota, e bisognerebbe aprire un capitolo a parte su quelle preferenze adattative (concetto ben illustrato da Martha Nussbaum e Amartya Sen) che possono portare vittime di ogni genere ad allearsi con i propri oppressori. Per quanto riguarda la denigrazione di coloro che lottano contro tale sfruttamento la tecnica impiegata è spesso quella della pepita di letame, ovvero la ricerca ossessiva di singoli episodi di cronaca (cherry picking) fatti assurgere a campione rappresentativo di coloro che lottano contro le nuove e forse anche più violente forme di schiavitù. Il metodo Salvini.

Il primo articolo è tratto dal sito “consumabili”, il secondo e il terzo dal sito “femminismo antispecista”.

 

CONSUMABILI

Inauguro una sezione opinioni nel mio blog dove pubblicherò traduzioni di articoli di attiviste femministe straniere, pubblicando un post apparso sul blog Feminist current di Meghan Murphy (nella foto, tratta dal suo blog) tradotto da Maria Rossi che ringrazio. Le posizioni delle femministe di orientamento abolizionista, che non vedono favorevolmente, cioè, una depenalizzazione degli "imprenditori" dell'industria del sesso e proprietari dei bordelli, ma desiderano un progressivo superamento del ricorso stesso all'acquisto di sesso a pagamento sono spesso riportate male e semplificate. E' fin troppo facile liquidare il loro punto di vista con l'accusa di moralismo, accusa che peraltro è quella tipica che i capitalisti dell'industria del sesso usano non appena qualcuno osa muovere qualche critica o qualche dubbio che può ostacolare il loro marketing. Eppure si autodefiniscono abolizioniste anche molte donne e ragazze che sono state vittime di tratta o sono state sfruttate nell'industria del sesso e che, una volta fuoriuscite, si battono perché non si debba ripetere all'infinito su altre la violenza che loro stesse hanno vissuto. Accomunare l'abolizionismo femminista con le posizioni moraliste e fanatiche di certi esponenti religiosi o delle ipocrite politiche tipiche del "gendarme di Washington" che criminalizzano le persone prostitute e le vittime di tratta mentre lasciano che il business dei magnaccia prosperi (similmente fanno le ordinanze xenofobe e sul decoro urbano dei nostri sindaci sceriffi) trovo sia una operazione scorretta, qualunque sia la motivazione per cui si sceglie di far ciò e qualunque sia la propria legittima opinione in materia.

Non c’è nessuna guerra femminista contro le sex workers (Meghan Murphy)

Mi sento sempre più scoraggiata da ciò che sembra un fuoco di fila di articoli, scritti da persone che si dichiarano progressiste, che sostengono che le femministe sono il vero nemico delle sex workers. Sembrerebbe che alcune di coloro che si definiscono “attiviste per i diritti delle sex workers” siano determinate a creare rigide divisioni tra donne collocando le donne prostituite in una loro propria categoria e le femministe in una fantomatica guerra moralista contro il sesso.

Un fattore chiave è che molti giornalisti di sinistra o fraintendono o travisano l’approccio abolizionista descrivendolo come moralista, il che li porta a trarre conclusioni infondate basate su equivoci facilmente superabili attraverso una semplice conversazione.

Sono delusa dal fatto che il giornalismo, la sinistra e il movimento femminista siano arrivati a produrre un’ideologia manipolativa allo scopo di promuovere una causa controproducente, ma siamo a questo punto. Vi sono un certo numero di esempi recenti di questa distorsione. Reason, una rivista libertaria on-line, ha recentemente pubblicato un articolo intitolato "The War on Sex Workers" (La guerra contro le sex workers). L'autrice, Melissa Gira Grant, critica la criminalizzazione delle donne prostituite negli USA - un giusto impegno: non c'è dubbio. Ma anziché contestare un sistema iniquo e oppressivo che offre alle donne emarginate poche opzioni di vita al di fuori dell'industria del sesso e poi le criminalizza perché fanno ciò per sopravvivere (fondamentalmente viene criminalizzata la povertà) e contrastare una cultura porno che presenta streapt tease e pornografia come professioni che accrescono il potere e l'autonomia delle donne, Grant accusa le femministe. Ella scrive: <<Non tutte le persone che svolgono un lavoro sessuale sono donne, ma le donne soffrono in modo smisurato lo stigma, la discriminazione e la violenza contro le sex workers. Il risultato è una guerra contro le donne quasi impercettibile, a meno che facciate personalmente parte del mercato del sesso. Questa guerra è condotta e difesa in gran parte da altre donne: da una coalizione di femministe, da conservatori e anche da alcune/i attivisti dei diritti umani che assoggettano le sex workers alla povertà, alla violenza e all'incarcerazione - tutto ciò in nome della difesa dei diritti delle donne>>. Questa "guerra contro le donne" non è impercettibile. Infatti, uno dei caratteri che rende questa "guerra" visibilissima, è il fatto che l'industria del sesso abbia una connotazione di genere. Le donne costituiscono la stragrande maggioranza delle prostitute (secondo le statistiche circa l'80%) e, oltre a ciò, le donne di colore sono sovrarappresentate. A Vancouver, nel famigerato Downtown Eastside della British Columbia, soprannominato "il codice postale più povero", dove almeno 60 donnesono scomparse in circa 20 anni, il 70% delle prostitute sono donne delle PrimeNazioni (= autoctone). Considerando che il popolo delle Prime Nazioni costituisce circa il 2% della popolazione complessiva di Vancouver e il 10% di quella di Downtown Eastside, questo numero è significativo. Non c'è bisogno di appartenere al mercato del sesso per sapere che la prostituzione e la violenza contro le donne che si prostituiscono è il risultato di una combinazione molto efficace di razzismo, povertà e patriarcato. Le femministe sono impegnate da decenni contro queste oppressioni che si intersecano e allora perché gli scrittori progressisti sono così riluttanti a riportare in modo preciso i dibattiti sulla prostituzione? Jacobin, una rivista che viene accreditata come appartenente alla corrente principale del marxismo, si è occupata più volte del tema del lavoro sessuale. Apparentemente la linea favorevole al concetto di <<sesso come lavoro>> ha conquistato così tante pubblicazioni di sinistra, che le discussioni sulla questione rimuovono completamente la prospettiva abolizionista o semplicemente ne travisano gli argomenti. Laura Augustin, per esempio, scrive: << Il turbamento morale che avvolge la prostituzione ed altre forme di sesso commerciale si fonda sull'asserzione che la differenza tra il sesso buono e virtuoso e il sesso cattivo e dannoso sia ovvia>>. Ella concepisce le concezioni dissenzienti come repressive e puritane - tipiche di persone che hanno limitato la loro accettazione del sesso al letto matrimoniale -, una concezione che è l'antitesi di decenni di lavoro femminista che ha decostruito le nozioni di romanticismo e di monogamia e ha collocato saldamente il sesso all'interno di un contesto politico. Augustin confonde ulteriormente le cose, affermando che "non vi è nulla di intrinsecamente maschile nello scambio tra denaro e sesso", come se ciò fosse mai stato sostenuto. "Da chi?" ci si potrebbe chiedere. In effetti questo è ciò che le femministe hanno sostenuto per decenni: che non c'è nulla di "intrinseco" o di "naturale" nel fatto che gli uomini acquistino sesso dalle prostitute, ma si tratta piuttosto di un prodotto della nostra cultura fondata sulla diseguaglianza e sul potere maschile. Ignorando le concezioni femministe sul lavoro sessuale e rimuovendo la connotazione di genere dell'industria [del sesso]; concentrandosi esclusivamente sul lato "lavoro" del lavoro sessuale, si rende un cattivo servizio alle donne e al movimento femminista, così come al lettore di sinistra che si ritrova completamente confuso e con una comprensione imprecisa della realtà del settore e del dibattito. Un altro pezzo di Jacobin prosegue questo progressivo lavoro di lettura della questione della prostituzione attraverso la lente del "lavoro". In questo articolo: "The Problem With (Sex) Work", (" Il Problema con il lavoro sessuale") Peter Frase sostiene che "il problema nel caso del lavoro sessuale non è il sesso, è il lavoro". Questo è un errore che commettono molti uomini socialisti quando tentano di affrontare l'argomento, in quanto assumono che applicare [ad esso] l'analisi del lavoro significhi necessariamente essere un esponente della sinistra. Mentre Frase osserva che ci sono problemi a concludere soddisfatti che il lavoro sessuale costituisca una fonte di autonomia e di espressione di sé, sorvolando sui suoi aspetti meno glamour, perché "non si possono trascurare gli aspetti coercitivi e violenti del sesso", egli glissa sulla posizione abolizionista (cioè delle femministe che vogliono impegnarsi perché la prostituzione abbia fine) come se fosse irrilevante. Con questo sforzo di fare della prostituzione un lavoro come un altro (forse pessimo) (come scrive Frase: "è un lavoro, e il lavoro è spesso terribile"), la sinistra abbandona le donne ai capricci degli uomini e del mercato, mentre voi pensate che noi [della sinistra] desideriamo un mondo più equo che vorrebbe superare la situazione attuale. Grant ha pubblicato anche un pezzo in Jacobin in cui esprime la sua frustrazione nei confronti di coloro "che hanno la vocazione a salvare le donne da se stesse e a farne le proprie beniamine" "che sono così fissati con l'idea che quasi nessuno avrebbe scelto di vendere sesso da perdere di vista le monotone e quotidiane scelte che tutti i lavoratori compiono per guadagnarsi da vivere". Ma questo argomento trascura il fatto che la scelta avviene entro un raggio di azione e in un contesto di diseguaglianza e che l'industria del sesso fa parte di un più ampio sistema che sessualizza l'oppressione delle donne. L'argomento secondo cui le femministe stanno cercando di "salvare le donne da se stesse" è pericoloso, perché può essere facilmente applicato, per esempio, all'attivismo femminista relativo agli abusi domestici (e se lei vuole stare con il marito violento?) e può essere esteso ad una troppo zelante difesa della 'scelta' individuale delle donne di oggettivare se stesse. Vogliamo in modo così intenso che non siano vittime da cercare di tramutare l'oppressione in autodeterminazione. Malintesi sulle concezioni femministe relative alla prostituzione sono esplicitamente alimentati da articoli come quello di Grant, ma vengono ulteriormente consolidati quando altri scrittori non risultano disposti a rappresentare correttamente le posizioni. La rivista Fuse ha pubblicatoun articolo di Robyn Maynard, nel numero intitolato Abolition, nel quale ella critica quello che definisce il "femminismo carcerario". Cita il caso Bedford, in cui le leggi canadesi sulla prostituzione sono state denunciate come incostituzionali, come un esempio di opposizione, guidata dalle sex workers, al 'proibizionismo', come erroneamente lo definisce. Maynard sostiene che questo caso sia stato sollevato da donne emarginate. Così facendo, rimuove il fatto che i gruppi di donne delle Prime Nazioni dell'intero Canada supportano il movimento abolizionista ed hanno più volte affermato che la prostituzione delle donne indigene è la diretta conseguenza della colonizzazione. La Native Women's Association of Canada (NWAC) ha recentemente approvatouna risoluzione che sostiene l'abolizione della prostituzione, affermando che: "la prostituzione sfrutta ed accresce la diseguaglianza delle donne e delle ragazze aborigene basata sul genere, sulla razza, sull'età, sulla disabilità e sulla povertà".

La Native Women's Association of Canada prosegue affermando: Le donne aborigene sono fortemente sovrarappresentate nella prostituzione e tra le donne che sono state uccise nell'ambito della prostituzione. Non è di alcun aiuto dividere le donne che si prostituiscono tra quelle che hanno "scelto" e quelle che sono state "costrette" a prostituirsi. Nella maggior parte dei casi, le donne aborigene sono reclutate nella prostituzione da ragazze e /o sentono di non avere altra scelta a causa della povertà e degli abusi subiti. E' l'industria del sesso che incoraggia le donne a vedere la prostituzione come un'identità scelta. Un'altra organizzazione: Indigenous Women Against the Sex Industry (IWASI) (Donne Indigene contro l'industria del sesso) afferma che esse riconoscono l'industria del sesso "come una continua fonte di colonialismo e di danno per le donne indigene e per le ragazze di tutto il mondo" e si pronuncia contro "la totale depenalizzazione, legalizzazione o normalizzazione dell'industria del sesso". Nel suo articolo, Maynard ignora volutamente il fatto che il caso Bedford non è, in realtà una causa promossa da sex workers, bensì una causa intentata da un uomo bianco, Alan Young, il cui interesse a vincerla non è quello di depenalizzare la prostituzione di strada, bensì quello di legalizzare i bordelli. Con la consapevolezza che le donne più emarginate tendono ad essere quelle che praticano la prostituzione di strada e che a queste donne non sarebbe probabilmente offerto il "privilegio" di lavorare all'interno di un qualsiasi bordello legale, l'argomento secondo cui, in qualche modo, questa causa costituisce una battaglia a favore dei diritti delle donne emarginate è semplicemente falso. Vale la pena notare che la legalizzazione dei bordelli in luoghi come Amsterdam si è rivelata un completo disastro e ha prodotto solo un incremento della tratta e del crimine organizzato. Per qualche ragione, anche alcune femministe hanno iniziato a partecipare all'elaborazione di queste rappresentazioni errate. Laurie Penny, la cui analisi progressista e femminista è generalmente accurata, sembra aver perso la bussola quando ha scritto sul New Statesman che le femministe che erano critiche nei confronti dell'industria del sesso erano semplicemente contrarie al sesso, opponendosi alla prostituzione e alla tratta per ragioni morali: Questo accade perché il sesso fa parte di quelle attività che causano un autentico orrore morale nei gelidi corridoi dei borghesi. In realtà, le abolizioniste si battono contro la prostituzione sulla base di un'analisi che combina classe, razza e genere, oltre che, naturalmente, sulla base della difesa dei diritti umani delle donne. Questo non ha nulla a che vedere col fatto che il sesso piaccia o non piaccia. Che delle femministe stiano appropriandosi e stiano perpetuando uno stereotipo antifemminista inventato da uomini sessisti - che le femministe hanno solo bisogno di una bella scopata o che odiano tutti gli uomini/il sesso/ il divertimento - mostra la potenza del contrattacco. Ora noi ci stiamo facendo la guerra. Stiamo appropriandoci di quel che il patriarcato ci sta vendendo. Penny scrive: "In realtà, il lavoro sessuale non è stigmatizzato perché pericoloso. Il lavoro sessuale è pericoloso perché è stigmatizzato". Ma si sbaglia. Il lavoro sessuale è pericoloso a causa di coloro che commettono atti di violenza contro le prostitute - cioè, gli uomini. La chiave del successo del movimento femminista sta nell'aver attribuito un nome al colpevole. Andrea Dworkin è stata una delle prime a far questo; a dire che il problema sono gli uomini. Così ha creato una fondazione per offrire un supporto legale contro gli abusi domestici, per lottare contro le molestie verbali, le aggressioni sessuali e la colpevolizzazione delle vittime. Non fingiamo di non sapere chi molesta sessualmente le donne o chi, in genere, le stupra. Noi sappiamo fare di meglio che incolpare le donne per le aggressioni che subiscono- indipendentemente dagli abiti che indossano o da quanto abbiano flirtato o bevuto. Perché ci mette così a disagio attribuire un nome alla reale causa della violenza quando si tratta di prostituzione? Perché stiamo incolpando le donne? L'obiettivo del femminismo è di porre fine al patriarcato. L'obiettivo del socialismo è di creare un'alternativa egalitaria al capitalismo. La prostituzione è un prodotto del patriarcato e del capitalismo. Avendo questo in mente, le abolizioniste hanno patrocinato un modello fondato sulla vera equità. A volte descritto come "approccio svedese" o come "modello Nordico", la Svezia, la Norvegia e la Finlandia hanno tutte adottato versioni di questo approccio femminista alla prostituzione che depenalizza le prostitute e criminalizza coloro che commettono violenza: gli sfruttatori e i clienti. Il modello combina i servizi di uscita dalla prostituzione con un sistema di welfare già forte e con programmi di formazione per la polizia che insegnano che le donne prostituite non sono criminali. Non si tratta semplicemente di un mutamento della legislazione, si tratta di una visione politica che persegue l'obiettivo della uguaglianza economica e di genere. Come avvocata femminista Janine Benedet mi ha detto: " è responsabilità dello Stato offrire qualcosa di meglio e non usare la prostituzione come una rete di sicurezza sociale". E' stato recentemente pubblicato in lingua inglese uno studio norvegese che esamina i tassi di violenza contro le donne prostituite nel modello nordico. Il rapporto ha dimostrato che, dal 2008, gli stupri ed altre forme di violenza fisica contro le donne prostituite sono diminuite.La triste verità è che, se l'acquisto di sesso è legale, la polizia probabilmente non perseguirà i clienti che stuprano e abusano delle prostitute, senza il loro consenso. Lo sappiamo. Sappiamo che la polizia ha ignorato per anni le violenze contro le donne prostituite, specialmente contro quelle che sono povere e di colore. Sappiamo che il sistema della giustizia penale accusa spesso la vittima, in particolare se i giudici possono dire: "Beh, lui l'ha pagata!". La via più praticabile per combattere questa violenza consiste nel depenalizzare le donne prostituite, criminalizzare i clienti e formare la polizia. Se gli sfruttatori della prostituzione e i clienti vengono criminalizzati, le sex workers saranno almeno in grado di andare dalla polizia se sono stuprate o aggredite e la polizia sarà in grado di agire rapidamente. Sappiamo che non sono le femministe che stanno perpetrando violenza contro le sex workers. Sappiamo anche che le femministe non colpevolizzano la vittima, il che significa che questo non è un dibattito sulla moralità delle donne di questo settore. Perché i progressisti, nascondendo l'autore [delle violenze], attribuiscono la colpa alle femministe e travisano il significato del movimento abolizionista? Le femministe non sono il nemico. Piuttosto, sono gli uomini che trattano le donne come oggetti usa e getta che sono da biasimare. E', al contempo, sterile e disonesto affermare che le femministe promuovono la criminalizzazione delle donne prostituite, quando una delle poche cose che le femministe e gli altri che propugnano la fine della violenza contro le prostitute possono condividere è che il nodo cruciale consiste nel depenalizzare le donne prostituite. Le donne che io chiamo mie amiche ed alleate sono donne che hanno lavorato nell'industria del sesso, sono donne che lavorano instancabilmente in rifugi [per prostitute], compiendo un lavoro di sensibilizzazione, o che vi lavorano come avvocate, come accademiche e come attiviste. Le donne che ammiro e da cui ho imparato - donne che hanno plasmato il movimento - donne come Robin Morgan, Gloria Steinem e Andrea Dworkin - sono state collocate sull'altra linea di una sorta di guerra contro le donne. Queste donne meritano di più di etichette imprecise e prive di significato come "anti-sex" o "proibizionista". Queste femministe non hanno accusato le donne prostituite, sono donne che vogliono che gli abusi, gli stupri, i pestaggi e gli omicidi abbiano fine. Credo che anche quelli che si definiscono "difensori dei diritti delle sex workers" o "alleati delle sex workers" vogliano questo. Non ho alcun interesse a creare divisioni inutili o sleali.

Questo è un movimento, non una guerra.

http://consumabili.blogspot.it/2013/02/non-ce-nessuna-guerra-femminista-contro.html

 

LA BUONA, LA BRUTTA, LA CATTIVA (dal sito femminismo antispecista)

Lunedì sera è andata in onda su Rai3 un’interessante inchiesta di Iacona sulla prostituzione, qui potrete trovare tutte le singole inchieste della puntata, per tema, ciascuna con i vari servizi di cui è composta.

Immediatamente dopo la messa in onda (ma io potevo sentire il ticchettio delle tastiere già durante la puntata) si è messa in moto la macchina della contropropaganda la cui sterilità argomentativa e disonestà intellettuale mi ha negativamente impressionata.

Girando sui social, mi sono imbattuta in uno degli articoli contro Iacona condiviso da un antispecista pro legalizzazione che, incalzato da un’abolizionista che confutava, dati alla mano, l’articolo che lui aveva condiviso, lanciava un disperato may day affinché giungesse il necessario fuoco di copertura che permettesse a lui, che si diceva ormai stanco, di poter ripiegare. La strategia del tizio salta subito agli occhi: “Ecco, proprio in discussioni del genere, che ho affrontato diecimila volte con i proibizionisti, non volevo affossarmi di nuovo. (bla bla bla) Sono un po’ esausto, se permetti.” Cosa ci sta dicendo questa persona? Inizia con lo squalificare l’interlocutrice, di cui non prende in considerazione nemmeno il genere dato che, pur avendola ormai accorpata nei reparti abolizionisti, utilizza il maschile (i proibizionisti) invece del femminile o di un termine neutro, ci dice che i discorsi dell’abolizionista sono uguali a quelli di mille altre persone come lei instillandoci la falsa impressione che l’interlocutrice abbia un pensiero uniforme alla massa, che non sia geniale, non sia particolare, una sciocca qualsiasi già vista e già sentita insomma. Ma ecco che dei reparti speciali chiamati alla pugna, un elemento ha risposto all’appello. “Azz!” Ho pensato “ora arriva la personificazione della crasi tra Lara Croft e Jason Bourne” e invece mi sono ritrovata a leggere una che ha liquidato così la questione:

“Non intendo parlare sul corpo delle altre, per me è la cosa meno femminista che esista (bla bla bla) non mi sono mai posta, né mai mi porrò, nel ruolo di salvatrice, ma di alleata”

Analizziamo la prima frase “Non intendo parlare sul corpo delle altre, per me è la cosa meno femminista che esista”: l’autrice, utilizzando una strategia della retorica riconducibile alla categoria degli attacchi ad hominem, non entra nel merito della discussione, ma attacca personalmente le abolizioniste lasciando chiaramente intendere che queste parlino sul corpo delle altre e che pertanto non siano femministe, tantomeno interlocutrici. Quindi le abolizioniste parlano sul corpo delle altre, le pro legalizzazione no. A questo sforzo logico ormai iper abusato, ma talmente abusato che perfino la mia cagna, che non sa leggere, ne riconoscerebbe la puzza all’istante, posso rispondere che anche chi appoggia la legalizzazione sta parlando sul corpo delle altre. Solo che queste altre non vengono considerate, spesso sono taciute e in qualche caso derise e tacciate di bigottismo, perché queste prostitute non appartengono all’oligarchia delle bianche borghesi istruite che fanno parte dei vari comitati per i diritti delle sex workers. Dicevamo, le abolizioniste parlerebbero sul corpo delle altre perché non terrebbero conto delle rivendicazioni di un’esigua minoranza, mentre chi ignora una maggioranza contraria alla legalizzazione non percepisce se stessa come parlante sui corpi delle altre semplicemente perché finge (consciamente o inconsciamente) che queste “altre” non esistano, impedendo loro di avere voce e risonanza.

Seconda parte: “non mi sono mai posta, né mai mi porrò, nel ruolo di salvatrice, ma di alleata”: ancora l’uso dell’attacco ad hominem. Qui si suggerisce che le abolizioniste si imporrebbero come salvatrici, dall’alto quindi, mentre le pro legalizzazione sono alleate, quindi sullo stesso piano. Vi è il chiaro obiettivo di far vedere che le abolizioniste sovradeterminano le prostitute, mentre le pro legalizzazione le ascoltano e, reggendo loro la mano, gli infondono coraggio. Oltretutto, facendo mie le azzeccatissime parole di questo articolo, bisogna fare attenzione perché “l’argomento secondo cui le femministe stanno cercando di “salvare le donne da se stesse” è pericoloso, perché può essere facilmente applicato, per esempio, all’attivismo femminista relativo agli abusi domestici (e se lei vuole stare con il marito violento?) e può essere esteso ad una troppo zelante difesa della ‘scelta’ individuale delle donne di oggettivare se stesse. Vogliamo in modo così intenso che non siano vittime da cercare di tramutare l’oppressione in autodeterminazione.”

Ritornando ai giochetti di logica spicciola, non si capisce cosa distingua una alleata, che scrive articoli e commenti, da una cosiddetta salvatrice che, pure, scrive articoli e commenti. Qual è la discriminante, visto che entrambe, in un modo o nell’altro, parlano sul/del corpo di qualcuna?

Vorreste dirci che tutti gli articoli delle pro legalizzazione sarebbero scritti da o sotto la dettatura delle sex workers? Ogni volta che una pro legalizzazione risponde ad una obiezione, lo fa quindi sotto dettatura di una sex worker? Altrimenti questa cosa del parlare sopra i corpi come caratteristica solo delle abolizioniste non si spiega. Che si sappia: io non sto scrivendo sopra nessun*, a meno che non si voglia considerare quell* che si trovano sotto di me al 1° piano come qualcuno sopra cui scrivere.

Procediamo ora ad analizzare parte dell’articolo di cui parlavo in apertura del mio scritto: “Quello che le abolizioniste fanno è imporre una visione moralista che coinvolge persone adulte e consenzienti e che stigmatizza pratiche sessuali che vengono definite perverse di per se’. Pratiche sessuali che riguardano anche quelle che non fanno le sex workers. Sostanzialmente ci stanno dicendo quali sono le pratiche sessuali adeguate alle relazioni “d’amore” puro. Siamo alla nascita di una sorta di Comitato per la Purezza dell’Orgasmo.”

Anche qui viene largamente usato l’attacco ad hominem allo scopo di far passare il concetto che le abolizioniste siano delle bigotte sessuofobiche. Brutte, sporche e cattive ma sessuofobiche. E sulla base di cosa? Del fatto che alcune di loro non hanno superato l’esame di certificazione dell’Ente Nazionale Controllo Quantità Pompini, certificazione effettuata su base mensile. Un protocollo dai parametri rigidissimi, secondo i quali se si viene scoperte al di sotto dei 90 pompini mensili si è fuori, messe nel recinto delle sessuofobiche cattiveh ed esposte al pubblico ludibrio.

Ho notato che non è infrequente che le energie delle pro legalizzazione siano incentrate sulla squalificazione della controparte piuttosto che sul merito della questione. Da parte delle abolizioniste ho trovato invece articoli molto rigorosi.

Comunque, ognun* sceglie le proprie alleate ed io ho scelto di allearmi con lei che della sua esperienza dice: “La mia esperienza come sex worker è che sono stata pagata per saziare il narcisismo maschile e in più per alimentare i princìpi stessi su cui si fonda la società patriarcale in cui viviamo”. Ma lei, come abbiamo visto, nell’immaginario di qualcuno non esiste.

Ma torniamo all’articolo di cui sopra, dove, ad un certo punto, si tenta di demolire Iacona sbeffeggiando perfino le sue espressioni facciali: “Iacona elenca pratiche sessuali con una smorfia da “che schifo!”, nominando più volte il sesso anale. Chiede “è vero che molti vogliono venire sul corpo… sul viso“, e lei risponde di sì, e giù la commozione e lo sguardo paterno.”

Se non è argomentum ad hominen questo, cosa lo è?

Iacona è probabilmente e semplicemente una persona empatica e mi stupisce che ad attaccarlo e ridicolizzarlo per questa sua peculiarità siano stat* proprio due antispecist*: chi ha scritto l’articolo e chi l’ha condiviso e, in tal modo, avallato.

Le caratteristiche imprescindibili di chi professa l’etica antispecista sono fondamentalmente basate sul rapporto con il prossimo. L’empatia è ciò che ci rende capaci di condividere la sofferenza e di avvicinarci al prossimo facendo quasi nostre le sue sensazioni. Siamo capaci di superare le barriere della differenza tra specie, ma riserviamo ed avalliamo forme di bullismo quali la derisione e lo sberleffo verso chi reputiamo reo di non pensarla come noi e che può essere attaccato per il suo modo di essere e di sentire accorato, proprio quello stesso modo di essere e di sentire che ha fatto di alcun* di noi delle antispeciste e che invece, alla bisogna, viene utilizzato come un’arma di offesa. Come possiamo criticare il modo di agire di un qualsiasi “vegano stammi lontano” se noi stess*, per prim*, riserviamo ad un’altra categoria di persone lo stesso trattamento cui siamo oggetti noi in quanto vegan antispecist*? Cosa muove questo cortocircuito tra il pensiero e l’azione?

Chiudo con un altro passo dello splendido articolo che potrete trovare qui, “Le donne che io chiamo mie amiche ed alleate sono donne che hanno lavorato nell’industria del sesso, sono donne che lavorano instancabilmente in rifugi [per prostitute], compiendo un lavoro di sensibilizzazione, o che vi lavorano come avvocate, come accademiche e come attiviste. Le donne che ammiro e da cui ho imparato – donne che hanno plasmato il movimento – donne come Robin Morgan, Gloria Steinem e Andrea Dworkin – sono state collocate sull’altra linea di una sorta di guerra contro le donne.

Queste donne meritano di più di etichette imprecise e prive di significato come “anti-sex” o “proibizionista”. Queste femministe non hanno accusato le donne prostituite, sono donne che vogliono che gli abusi, gli stupri, i pestaggi e gli omicidi abbiano fine. Credo che anche quelli che si definiscono “difensori dei diritti delle sex workers” o “alleati delle sex workers” vogliano questo. Non ho alcun interesse a creare divisioni inutili o sleali.”

Nessun* di noi ha interesse a creare divisioni inutili o sleali, perciò abbandoniamo la retorica, lo sberleffo, la derisione e cerchiamo di trovare un compromesso, una soluzione in cui tutt* vincono e in cui nessun* rimane indietro.

https://femminismoantispecista.noblogs.org/post/2016/09/09/la-buona-la-brutta-la-cattiva/

 

MANUALE DI SOPRAVVIVENZA (dal sito femminismo antispecista)

Abbiamo deciso di inaugurare una nuova sezione del blog, quella dedicata ai manuali. Come primo argomento non poteva mancare quello sul “gioco delle tre carte”. Questo manuale, chiaro e compatto, è stato ideato allo scopo di preservare il tempo prezioso che altrimenti perdereste in infruttuose discussioni. Abbiamo infatti riscontrato che le tipologie argomentative di molt* che erroneamente vengono definit* semplicisticamente “pro legalizzazione”, si possono riassumere in nove punti. Per ogni punto è spiegata in modo chiaro la risposta, alcune sono comprensive di dati di riferimento e di un link alle fonti scientifiche.

Prima di entrare nel dettaglio, vorrei argomentare la mia affermazione “coloro che erroneamente vengono definit* pro legalizzazione”.

Siamo in Italia, dove la prostituzione è legale. Se l’oggetto di tutto il disquisire è la prostituzione, è improprio e logicamente errato definire “pro legalizzazione” chi invece vorrebbe la legalizzazione del favoreggiamento e dello sfruttamento della prostituzione. Perché l’oggetto del discorso, la prostituzione, è già legale. Come si fa a rendere legale una cosa che è già legale? E qui c’è la fine paraculaggine del farsi passare per “pro legalizzazione”. Facendo il gioco delle tre carte, si mischiano gli oggetti del discorso. Si vuole legalizzare il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione, che sono oggetti differenti dalla prostituzione. Perciò togliamo questa cortina fumogena che impedisce di vedere chiaramente l’oggetto del discorso e chiamiamo le cose con il loro nome: pro legalizzazione del favoreggiamento e dello sfruttamento della prostituzione. Per semplicità e brevità, pro Le.Fa.S. Perché questo straparlare semplicemente di “pro legalizzazione” fa gioco facile a definire noi erroneamente proibizioniste. Si fa leva sul senso di libertà a cui “pro legalizzazione” rimanda. La gente pensa “evviva la maria! E abbasso quelle brutte kattiveh che vogliono abolire!!!11!!!”. Vaglielo a spiegare allaggente che abolire e proibire non sono sinonimi. Per dire, si abolisce la schiavitù o la pena di morte e si proibisce l’uso di sostanze stupefacenti o l’omicidio. Si abolisce qualcosa che è istituzionalizzato, si proibisce qualcosa che rientra, in un certo senso, nella sfera del libero arbitrio.

Rivolgendomi a questo ribaltamento logico paraculo, utilizzando il ¡No pasarán! della Terra Di Mezzo, faccio mie le parole di Gandalf indirizzate al Balrog: Il fuoco oscuro non ti servirà a nulla, fiamma di Udun! Ritorna nell’ombra! Tu non puoi passare!

Le abolizioniste sono proibizioniste

Alla luce di quanto scritto sopra, questa affermazione è palesemente falsa. Noi non proibiamo nulla a nessun*. Chi vuole continuare a prostituirsi può farlo. In Italia, ripeto, è legale.

Le abolizioniste sono delle moraliste puritane sessuofobiche bigotte

Le studiose sono concordi nel dire che il comportamento sessuale è determinato da una complessa interazione di fattori, influenzato dalle relazioni con gli altri e dalle circostanze di vita. Il comportamento sessuale di una persona può risultare cioè differente a seconda del partner e delle circostanze. Come si possono quindi emettere giudizi semplicistici ed universali su un comportamento così complesso e personale? Non possiamo nemmeno emettere giudizi definitivi e perentori sul* nostr* partner, perché il suo comportamento sessuale è determinato, fra le altre variabili, dalla sua interazione con noi, e qualcun* si permette di emettere giudizi su chi nemmeno conosce, universalizzando peraltro! A dir poco calunnioso.

La prostituzione è un lavoro come un altro, è come lavorare al call center o raccogliere pomodori.

Questa ipotesi per poter diventare tesi necessita di una verifica oggettiva, chiedete all’interlocutrice di fornirvi dati oggettivi che dimostrino l’ipotesi.

Noi invece, abbiamo verificato oggettivamente tramite i dati di due differenti studi (ma ne esistono a migliaia di studi in proposito) che “La prostituzione NON è un lavoro come un altro”.

I dati scientifici raccolti nei due studi che ho preso in esame dimostrano che non esistono mestieri che raccolgono tutte e tre le caratteristiche della prostituzione:

Alta percentuale di PTSD

Massiccio uso di droghe ed alcool

Alta percentuale di violenza subita

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista di psichiatria italiana, uno dei mestieri con il più alto tasso di Disturbo Post Traumatico da Stress è il vigile del fuoco che, con il suo 18.5% guida la classifica dei mestieri più a rischio di PTSD. Nella prostituzione, che di fatto nello studio non viene considerata un lavoro come un altro, il tasso relativo al disturbo post traumatico da stress si attesta al 68%. Niente male, eh?

Nel caso in cui la vostra interlocutrice obietti che con la legalizzazione dell’induzione e dello sfruttamento della prostituzione le cose cambierebbero in maniera significativa, citatele questo altro studio che prende in esame 9 nazioni tra cui la tanto millantata Germania dove l’induzione e lo sfruttamento della prostituzione sono legali:

PTSD

tabella

PTSD2

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PTSD3

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Ops! In Germania è stata riscontrata una percentuale di PTSD del 60%, uso di droghe 70%, uso di alcool 54%, stupro nella prostituzione 63%, aggressione 61%, minaccia con arma 52%.

Si legge nello studio: ”In un atto di accusa contro la prostituzione legale, più della metà delle nostre intervistate tedesche ci ha detto che la prostituzione legale non le metterebbe più in sicurezza di quella illegale.”

In conclusione:


(tabella)

Eh si, possiamo proprio concludere che l’affermazione “la prostituzione è un mestiere come un altro” deve rimanere confinata nel campo delle scie kimike. E’ equivalente a frasi jolly come “e i marò?” (che purtroppo ha superato “e allora le foibe” che mi stava più simpatica).

Le abolizioniste parlano sul corpo delle altre

Riprendo un mio precedente articolo: utilizzando una strategia della retorica riconducibile alla categoria degli attacchi ad hominem, l’interlocutrice non entra nel merito della discussione, ma attacca personalmente le abolizioniste lasciando chiaramente intendere che queste parlino sul corpo delle altre.

Anche chi appoggia la legalizzazione dell’induzione e dello sfruttamento della prostituzione sta parlando sul corpo delle altre. Solo che queste altre non vengono considerate, spesso sono taciute e in qualche caso derise e tacciate di bigottismo, perché queste prostitute non appartengono all’oligarchia delle bianche borghesi istruite che fanno parte dei vari comitati per i diritti delle sex workers. Le abolizioniste quindi parlerebbero sul corpo delle altre perché non terrebbero conto delle rivendicazioni di un’esigua minoranza, mentre chi ignora una maggioranza contraria alla legalizzazione dell’induzione e dello sfruttamento della prostituzione non percepisce se stessa come parlante sui corpi delle altre semplicemente perché finge (consciamente o inconsciamente) che queste “altre” non esistano, impedendo loro di avere voce e risonanza.

Siamo uno pari, quindi che facciamo? La piantiamo o no con la retorica?

Le abolizioniste si pongono nel ruolo di salvatrici delle sex workers, mentre le pro liberalizzazione sono loro alleate

Sempre riprendendo un mio precedente articolo, qui si suggerisce che le abolizioniste si imporrebbero come salvatrici, dall’alto quindi, mentre le pro legalizzazione dell’induzione e dello sfruttamento della prostituzione sono alleate, quindi sullo stesso piano. Vi è il chiaro obiettivo di far vedere che le abolizioniste sovradeterminano le prostitute, mentre le pro legalizzazione dell’induzione e dello sfruttamento della prostituzione le ascoltano e, reggendo loro la mano, gli infondono coraggio. Oltretutto, bisogna fare attenzione perché “l’argomento secondo cui le femministe stanno cercando di “salvare le donne da se stesse” è pericoloso, perché può essere facilmente applicato, per esempio, all’attivismo femminista relativo agli abusi domestici (e se lei vuole stare con il marito violento?) e può essere esteso ad una troppo zelante difesa della ‘scelta’ individuale delle donne di oggettivare se stesse. Vogliamo in modo così intenso che non siano vittime da cercare di tramutare l’oppressione in autodeterminazione.”

Ritornando ai giochetti di logica spicciola, non si capisce cosa distingua una alleata, che scrive articoli e commenti, da una cosiddetta salvatrice che, pure, scrive articoli e commenti. Qual è la discriminante, visto che entrambe, in un modo o nell’altro, parlano sul/del corpo di qualcuna?

Vorreste dirci che tutti gli articoli delle pro legalizzazione dell’induzione e dello sfruttamento della prostituzione sarebbero scritti da o sotto la dettatura delle sex workers? Ogni volta che una pro legalizzazione dell’induzione e dello sfruttamento della prostituzione risponde ad una obiezione, lo fa quindi sotto dettatura di una sex worker? Altrimenti questa cosa del parlare sopra i corpi come caratteristica solo delle abolizioniste non si spiega.

Le abolizioniste sono una lobby

Signore e signori, ora io capisco che siamo nel periodo delle scie kimike, dei bildenberghen e della ka$ta ma, da che mondo è mondo, una lobby è un gruppo di pressione che esercita la propria influenza per ottenere l’emanazione di provvedimenti normativi in favore dei propri interessi economici. Quale interesse economico ci sarebbe dietro il voler abolire la prostituzione? Dove sarebbe il nostro guadagno? Qui ci perdiamo e basta, tenuto conto di tutto il tempo che perdiamo a controbattere alle vostre fallacie logiche. Viceversa, ci sono enormi interessi economici nel voler legalizzare il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione.

Per le abolizioniste l’autodeterminazione è solo per alcune, non per tutte.

Questa affermazione poi fa proprio ridere, soprattutto quando viene affermata con quel tono da “colpo da maestro”. Ma quale colpo da maestro, è robba comica da “Totò, Peppino e i fuorilegge”.

Noi abolizioniste non auspichiamo la criminalizzazione delle donne prostituite. In Italia, ripeto, la prostituzione è legale, per cui chi vuole può tranquillamente continuare a prostituirsi. Nessuna di noi chiede la criminalizzazione delle donne prostituite, ripeto per la centesima volta. A chi negheremmo quindi autodeterminazione se chi vuole può continuare (come ha sempre fatto) a prostituirsi? La negheremmo a chi favoreggia e sfrutta la prostituzione? Ecco, io questo lo rivendico. Non voglio togliere agli sfruttatori autodeterminazione, vorrei proprio vederli ar gabbio e sciogliere la chiave della cella nella lava del Monte Fato (dai, ora utilizzate questa metafora per darmi della giustizialistah).

Legalizziamo la prostituzione, così le prostitute pagheranno le tasse!!!11!!!

A parte la scorrettezza logica del dire “legalizziamo la prostituzione” smontata nella premessa (la prostituzione è già legale, sono lo sfruttamento e il favoreggiamento ad essere illegali), questa è una presa in giro, care amiche e amici che pensate solo al vostro portafogli. In Germania su 400.000 (quattrocentomila) donne prostituite censite, solo 44 (quarantaquattro) pagano le tasse, quindi lo 0.00011%. Il rapporto UE sulla prostituzione dice infatti: “in Germania vi sono 400 000 prostitute ma solo 44 sono ufficialmente registrate presso gli enti per la previdenza sociale a seguito della legge del 2002 che ha legalizzato la prostituzione”.

Cosa nuova nuovissima:

Qui si legge che nel dispositivo della sentenza della Cassazione n. 15596 del 27.7.2016 la natura reddituale attribuita ex lege ai proventi delle attività illecite, con la conseguente tassabilità quali “redditi diversi”, comporta, a maggior ragione, che venga riconosciuta natura reddituale all’attività di prostituzione, di per sé priva di profili di illiceità (costituendo invece illecito penale ogni attività di favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione altrui a norma dell’art.3 della legge 20.2.1958 n.75), attività parzialmente tutelata dallo stesso ordinamento civile che comprende la prestazione sessuale dietro corrispettivo nella categoria dell’obbligazione naturale, la quale, se non consente il diritto di azione, attribuisce alla persona che ha svolto l’attività di meretricio il diritto di ritenere legittimamente le somme ricevute in pagamento della prestazione ( art.2035 cod.civ.)”.

In sostanza, le donne prostituite sono già tenute per legge a pagare le tasse.

Sul metodo “mio cuggino ha detto”

Qui mi riferisco alle testimonianze (pretty woman autoderminata 2.0 style) che vengono portate come dato per confutare una tesi. Una testimonianza non è un dato, una testimonianza è qualcosa di emotivamente orientato/orientabile. La testimonianza serve per corroborare un dato, serve per suscitare ciò che il dato, così freddo ed impersonale, non riesce a suscitare: catturare l’emotività e l’empatia, provocare sdegno e vicinanza. Conoscete la differenza tra testimonianza personale e dato statistico? Le testimonianze di questo tipo rimangono nel campo delle testimonianze fintanto che non raggiungono la valenza di campione statisticamente significativo. Senza criterio scientifico, potremmo impiegare giorni, anni, millenni con il tirare fuori una testimonianza ciascuna (però le vostre sono sempre mejo e più vere delle nostre) prima di raggiungere un campione statisticamente significativo. Perciò risparmiateci ‘sta saveriotommasata in chiave pruriginosa delle storielle, se non avete uno straccio di dato che le renda significative all’economia del discorso.

Per capire meglio cosa si intende per favoreggiamento e sfruttamento: http://www.laleggepertutti.it/126942_andare-a-prostitute-e-legale

 

qui l’articolo originale di femminismo antispecista, con le tabelle

https://femminismoantispecista.noblogs.org/post/2016/09/14/manuale-di-sopravvivenza/

 

Alcune Fonti citate in questa sede:

il reportage di Presa Diretta: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d56ce6de-4aa5-433b-b286-2998a68bf91d.html

 

rapporto EU 2014: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A7-2014-0071+0+DOC+XML+V0//IT

 

Una delle tante testimonianze di ex sex workers “volontarie”: https://simonasforza.wordpress.com/2015/06/05/lettera-aperta-di-una-ex-prostituta/

 

Scienziati per un mondo senza prostituzione: http://www.trauma-and-prostitution.eu/en/2016/01/08/prostitution-is-incompatible-with-equality-between-men-and-women/#more-165

 





 

354. Sul politicamente scorretto

di Lorenzo Leone

 

ll problema del politicamente scorretto non è ‘etico’ e nemmeno ‘estetico’ – o perlomeno non è solamente etico ed estetico –; è invece dianoetico o cognitivo. Cercherò di spiegarmi.

Chi ricorre al politicamente scorretto non pretende affatto di farla franca con le battute degli adolescenti appena appena affinate dal vocabolario dello studente universitario; pretende invece che dietro quelle battute si sospetti qualcosa come un pensiero e una libertà: il pensiero della libertà che ci si sarebbe presi nei confronti della società – del sensus communis (vichiano) – della buona educazione (dell’etichetta) – del famigerato pensiero unico. Ne viene, prima facie, una certa frivola indifferenza, da parte del politicamente scorretto, per il suo oggetto, per il suo argomento. Donne, omosessuali, atei, credenti, disabili, immigrati, classi sociali, mestieri e professioni, idee, usi, consuetudini (un inventario apparentemente infinito) – tutto, purché meritevole di una qualche forma di ‘tutela etica’, può cadere sotto il giudizio tagliente e beffardamente ostile del politicamente scorretto. Ne viene anche, e sempre a prima vista, qualcosa come un automatismo, un riflesso, un tic. Il politicamente si dà a vedere, nei migliori dei casi, iponoètico; affine al luogo comune e all’idée reçue (nel cui impiego L. Bloy rimarcava il comico e l’esorbitante, e cioè la parziale inconsapevolezza del loro divulgatore). Poiché l’unico pensiero che vi starebbe dietro è quello della libertà di dire il contrario di quello che pensano gli altri, ogni censura, ogni rimprovero, ogni ramanzina – fateci caso! – suonerà ai ‘politicamente scorretti’ come un attentato alla libertà di parola e di pensiero. Si tratterebbe infatti di parole in libertà, di pensieri rilassati o di pensieri pervenuti fino all’insolenza o all’ilarità, di semi-pensieri.

Il politicamente scorretto così definito – e cioè come libertà che ci si prende nei confronti della cosiddetta società mainstream e come pensiero di questa libertà – ha un sicuro e sinistro appeal. Non fa meraviglia che divenga una strategia retorica utilizzata consapevolmente, un ‘programma’. Abbiamo così non soltanto proposizioni politicamente scorrette ma anche giornali politicamente scorretti, romanzi politicamente scorretti, opere d’arte politicamente scorrette ecc.

Beninteso, il politicamente scorretto acquista un senso politico solo se viene posto al servizio di un’ideologia, di un gruppo, di un interesse; e solo in questo senso ha a che fare con l’elemento politico. Diversamente andrebbe amputato del ‘politicamente’. Il politicamente scorretto è una tattica che obbedisce a una strategia più ampia sottaciuta, semi-taciuta o dichiarata altrove. Infatti, è importante mantenergli quell’irresponsabilità, quella superficialità e persino quella inconsapevolezza che appartiene ai luoghi comuni. Che tutto ciò sia solo ‘mimato’ o quasi ‘mimato’ non deve trasparire troppo. Viceversa non sarebbe possibile rispondervi, invariabilmente: «Che cosa avrò mai detto di così offensivo?». Se i semi-pensieri e le parole in libertà del politicamente corretto non fossero riconducibili, in un modo o nell’altro, a un generico rifiuto dell’ordine sociale, a un’assenza di diplomazia o di peli sulla lingua, ai segni iponoètici di una ‘insofferenza’, apparirebbero per quello che sono. Certo, il politicamente scorretto ‘organizzato’ – e non ce n’è un altro – fatica parecchio a presentarsi così. Allora la leggerezza lascia posto alla grevità, l’ideologia lascia indovinare la sua propaganda e dietro le parole si ritrovano gli slogan.

Sono partito sostenendo che il problema del politicamente scorretto non è etico o estetico; ho detto che è invece cognitivo. E, in effetti, siamo tutti disposti a scusare e talvolta ad apprezzare una parolaccia, una battuta salace, una freddura ecc. Inoltre, di queste ‘distrazioni’ si può anche ridere; inoltre, queste distrazioni ci invitano a distrarci, a non pensare troppo, ci alleviano dalla fatica del pensiero. Non sarebbe così se ne indovinassimo il ‘sistema’, il ‘disegno’ che ci sta dietro. Ma, l’ho appena detto, il politicamente scorretto arranca, fatica a presentarsi come una sorta di naïveté. E così il problema discorsivo e cognitivo viene allo scoperto.

 

https://lorenzoleone.blogspot.it/2016/06/qualche-riflessione-sul-cosiddetto.html

 

 

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