399. Sul cecchinaggio

 

Sul cecchinaggio, e sul rapporto tra “scienza” e movimenti di liberazione

“Le ragioni che mi hanno indotto a scrivere questo libro riguardavano sia la sfera privata sia quella professionale. In prima istanza confesso una profonda sensibilità per questo particolare problema. Sono cresciuto in una famiglia attiva per tradizione nelle campagne per la giustizia sociale, e da studente ho militato nel movimento per i diritti civili in un momento, i primi anni sessanta, di grande entusiasmo e grandi successi. Gli studiosi, spesso, si guardano bene dal citare simili coinvolgimenti, poiché, secondo lo stereotipo, una fredda imparzialità costituisce la condizione essenziale di una corretta e spassionata oggettività. Considero questa ragione una delle piú fallaci e persino dannose credenze invalse nel mio ambito di lavoro. L’imparzialità (quantunque auspicabile) è irraggiungibile da parte degli esseri umani che hanno background, bisogni, convinzioni e desideri imprescindibili. Per uno studioso, è pericoloso anche solo immaginare di poter raggiungere una totale neutralità, perchè cosí arriva a smettere di prestare attenzione alle inclinazioni personali e alle relative influenze, e si finisce per cadere davvero vittima del pregiudizio e dei dettami (…) La vita è breve, e le potenziali ricerche infinite. Abbiamo molte piu chance di portare a termine qualcosa di significativo se seguiamo le nostre passioni e lavoriamo in campi che toccano un piú profondo significato personale (…) Il peggiore campanilismo nella vita accademica (…) si ritrova nel gretto CECCHINAGGIO a cui i membri meschini di un gruppo professionale danno libero sfogo quando qualcuno che ha titoli in un altro campo osa dire qualsiasi cosa sulle attività inerenti alla sfera di questi CECCHINI”

Da “Intelligenza e pregiudizio” di Stephen Jay Gould, Il Saggiatore edizioni.

 

 

398. Le grandi dimissioni

Splendido testo di Francesca Coin

“Per oltre cinquant’anni le aziende hanno detto ai lavoratori che devono ritenersi fortunati di avere un lavoro. Per i prossimi cinquant’anni dovremmo insegnare ai dirigenti che devono ritenersi fortunati se accettiamo di lavorare per loro”
SARA NELSON

“Sono rimasta ferma alla prima riga di questo libro per diverse settimane. Abbozzavo un incipit, lo cancellavo e ne provavo un altro. Sono andata avanti cosí, a cancellare e riscrivere, fino a che, poco prima di gettare la spugna, ho capito che stavo evitando di affrontare un problema: perché lasciare il lavoro in un periodo di recessione nel quale – si dice – avere un lavoro è un privilegio? Perché, con tutti i problemi che ci sono, raccontare le storie di coloro che decidono di andarsene? E ancora: perché parlare di chi se ne va, invece che discutere di chi sciopera, organizza mobilitazioni e lotta? Volevo arrivarci alla fine, ma partiamo da qui. Perché è vero: il nuovo rifiuto del lavoro è un fenomeno ambivalente e contraddittorio. Non è una soluzione alla deflagrazione delle nostre condizioni di lavoro e di vita, ne è un sintomo. E non è un sintomo come gli altri: è il sintomo di una rottura epocale. È il sintomo della fine dell’epoca in cui regnava la speranza che il lavoro consentisse di realizzare i nostri sogni di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento. In cui si pensava che il lavoro fosse parte di un sistema virtuoso che salva il mondo dalla fame e dalla povertà. Quell’epoca è finita. Il sistema in cui viviamo è rotto e in questo contesto spesso chi abbandona il lavoro non lo fa perché può permetterselo. Lo fa per sopravvivere. Lo fa perché non ce la fa piú, perché è in burnout, per prendersi cura dei propri cari o perché sa benissimo che il vero problema, oggi, non è chi può permettersi di non lavorare, ma chi lavora sempre e nonostante questo non riesce a racimolare i soldi per pagare sia l’affitto che la cena. (…)”

“(…) La bacheca r/antiwork di Reddit è uno spazio di discussione anonimo che si dichiara contro il lavoro. «Siamo di sinistra, anticapitalisti, e vogliamo abolire tutto il lavoro», scrivono gli amministratori della pagina. Negli ultimi due anni, r/antiwork è diventato uno spazio di discussione virtuale in cui convergono circa due milioni e mezzo di utenti per discutere di scioperi, dimissioni e sindacalizzazione. Su r/antiwork le storie di dimissioni trovano condivisione. In un articolo sul «New York Times» dell’ottobre 202136, John Herrman descriveva la sensazione che aveva provato scorrendo le testimonianze sulla pagina, nel leggere di un dipendente che ammoniva il suo capo perché la busta paga era arrivata in ritardo e un errore del genere non poteva ripetersi. E di un altro che spiegava al proprio superiore il significato della parola «fedeltà». «Stiamo assistendo a un cambiamento sismico nell’atteggiamento delle persone nei confronti del lavoro»37, ha dichiarato Alison Green. Il giornalista Farhad Manjoo, dal canto suo, ha descritto sempre sul «New York Times» il fremito viscerale che ha provato leggendo queste testimonianze e nel vedere «le persone strappare la propria vita dalle fauci del capitalismo che succhia l’anima e distrugge la salute»


“Le grandi dimissioni”, di Francesca Coin, ed. Einaudi

 

396. Fallacia della corsa o coerenza al ribasso

La fallacia della corsa o coerenza al ribasso

Nei più svariati movimenti di liberazione ci si trova continuamente confrontat3 con un tipo di argomentazione il cui fine è il depotenziamento o abbandono della lotta in nome della coerenza. L’approccio non è ovviamente politico ma individualista.

- Utilizzi un cellulare? Allora non lamentarti se il diritto dei lavoratori è messo sotto i piedi. Anzi, simpatizza con Confindustria per essere coerente.
- Calpesti accidentalmente le formiche? Allora non lamentarti dell’industria di smembramento dei corpi. Anzi, solidarizza con l’apparato zootecnico.
- Vai dal parrucchiere? Allora non lamentarti dell’industria della bellezza e dei suoi standard. Anzi, metti bene in vista i grandi marchi. Quelli femministi si intende!
- Continua all’infinito

La coerenza assoluta non può esistere ma esiste eccome l’alzare in continuazione l’asticella, laddove attraverso queste argomentazioni l’effetto è chiaramente contrario e reazionario.

395. Vedere è sapere?

Vedere è sapere?

“(…) Con la stessa naturalezza del diritto di “colonizzare”, il diritto di “esibire” degli “esotici” negli zoo, nei circhi o nei villaggi si diffonde da Amburgo a Parigi, da Chicago a Londra, da Milano a Varsavia …Sì, il “selvaggio” esiste! L’ho visto … Conviene “addomesticarlo” prima di “civilizzarlo”. Da un XIX secolo in cerca di una comprensione del mondo, si passa - in modo del tutto naturale e privo di contrasti - a un XX secolo che plasma il mondo secondo i propri modelli, le proprie credenze e i propri interessi. (…) La violenza è ovunque. Tanto nello sguardo, nel normale, nel banale, nel lato “bonaccione” di queste esibizioni, quanto nei crimini piú evidenti (…) È qui che inizia il revisionismo in materia: quello di farci credere che gli zoo umani sono, in realtà, un primo contatto quasi “normale” tra Noi e gli Altri. (…) Dal fatto mercantile e del fenomeno da baraccone, si passa naturalmente all’oggetto di scienza, all’oggetto di studio … Dallo zoo all’antropometro, dal mostrare al misurare, dal distrarre all’informare, si opera uno slittamento in cui ciascuno trova facilmente il proprio interesse. Queste preoccupazioni “scientifiche” si accordano con quelle degli Stati bisognosi di legittimare le proprie conquiste (…). È in questo contesto che le esibizioni etnografiche, che hanno inizio nei primi anni del decennio 185O in Inghilterra, si diffondono in tutta Europa, fornendo agli scienziati l’opportunità di esaminare esemplari viventi a soli due passi dai loro laboratori (…) E gli scienziati, senza neanche rendersene conto, garantiscono e convalidano, fin verso il 1890, i fondamenti di questo nuovo ordine mondiale. Il dado è tratto. Il XX secolo puó iniziare.

(…) Per tornare al motto dell’Esposizione universale di Chicago del 1893 che abbiamo citato all’inizio - Vedere è Sapere - , è evidente che non possiamo conoscere le cose semplicemente guardandole. Lo sguardo non è innocente (…) L’ordine percepito era un ordine imposto; lo sguardo del cittadino su un individuo “altro” era largamente determinato dai racconti e dagli stereotipi già interiorizzati. (…) In questo articolo si è fatto talvolta riferimento alle analogie tra i modi in cui le “razze” e le “specie” erano considerate e trattate alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo. Oggi, il limite della specie umana è stato raggiunto e, a dire il vero, esso è rimesso in discussione - anche dal punto di vista del suo significato morale - e trasgredito. La discussione si sposta in direzione degli zoo, dei circhi, degli spettacoli di delfini, della bio-industria e delle sperimentazioni animali (…). Sembra che le nostre osservazioni sulle esposizioni etnografiche eurocentriche dell’epoca d’oro del colonialismo possano per molti aspetti essere estese alle forme attuali, teoriche e pratiche, dell’antropocentrismo e dello “specismo”.

Dall’antologia “Zoo umani. Dalla Venere ottentotta ai reality show”. A cura di Lemaire, Blanchard, Bancel, Boetsch, Deroo. Edizioni Ombre Corte.
Il libro in italiano è oggi introvabile ed è stato prestato. Acquistata però la versione originale in inglese.

 

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