066. Fallacia per implicatura





liberamente riassunto da "Verità Avvelenata", di Franca d'Agostini

L'aspetto più interessante e particolarmente sleale delle fallacie per implicatura consiste nel fatto che spostano la responsabilità dell'errore: chi sbaglia non è chi parla o scrive, ma chi recepisce le parole. In altri termini, la colpa è della vittima dell'inganno. Questo è un risultato che può sembrare sorprendente, ma è molto più frequente di quanto si creda. Chi produce infatti la fallacia ha anche l'interesse a fare sì che non lo si possa accusare di averla prodotta: dunque i metodi di sviamento preventivo della responsabilità sono un'arma tipica in dotazione degli argomentatori fallaci, e nelle fallacie per implicatura è particolarmente evidente. Essa può essere riassunta con un "mi avete frainteso!".

Un esempio banale ("neutro"): se mentre guardo un film dico "sono stanca e sto per addormentarmi" chi mi ascolta potrebbe anche inferire che il film è noioso. Il termine implicatura sta quindi ad indicare non quel che un enunciato di fatto implica logicamente (o nell'intenzione dell'interprete), ma quel che viene inteso (evidentemente anche in modo erroneo) da una persona che legge o ascolta. Poichè per implicatura ci si può sbagliare facilmente, si può anche facilmente indurre in errore: si possono cioè usare le implicature per produrre fallacie. Le implicature evidentemente possono avere qualsiasi contenuto, dunque si possono produrre, per implicatura, fallacie di qualsiasi tipo: ad baculum, ad ignorantiam, ad personam ecc. Lo strumento di base dell'argomentatore fallace è l'implicatura per allusione (che è anche caratterizzabile come un tipo pragmatico di vaghezza).

Attraverso tale fallacia è ad esempio possibile lasciare intendere il falso dicendo il vero. Ad esempio se sul diario di bordo di una nave troviamo scritto "oggi il capitano non è ubriaco", vi è evidentemente un argomento implicito nella frase che si può ricostruire così: oggi il capitano non è ubriaco, dunque normalmente lo è.

Il vero inganno consiste qui nel fatto che l'errore è interamente a carico di chi legge. Una fallacia di accento per implicatura molto simile ci è offerta da Berlusconi. Il 2 agosto 2003 dichiara all'Ansa: "sulla legge Gasparri non c'è stata alcuna perplessità da parte del presidente della Repubblica". Subito dopo il Quirinale lo smentisce: "nel corso degli incontri con il Presidente del Consiglio Berlusconi il disegno di legge Gasparri non ha formato oggetto di colloquio". Con una nota ufficiale Berlusconi dichiara allora: "Nel colloquio con il presidente della Repubblica non si è affatto parlato del ddl Gasparri". Già, in effetti l'aveva detto: non avendo parlato affatto dell'argomento, il presidente non aveva manifestato "alcuna perplessità al riguardo".

Un altro tipo di fallacia per implicatura sfocia in un avvelenamento del pozzo (screditare un' intera categoria) come la seguente, sempre del nostro Premier: "“Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori". Al putiferio successivo S.B. risponde come segue "«Io non ho mai attaccato la scuola pubblica, ho solo detto, parlando a dei cattolici, che bisogna riconoscere alle famiglie cattoliche che mandano i figli alla scuola pubblica il diritto a non veder insegnati ai loro figli valori diversi da quelli in cui credono»:

Si noti come come la "reinterpretazione" della propria affermazione in nulla intacchi il messaggio originario, in quanto l'allusione insensata nel frattempo avrà comunque fatto tutto il danno che doveva fare. Sarà cioè diventata verità condivisa, e avrà dato luogo e forma a una realtà a cui chiunque in seguito potrà fare riferimento. A quel punto il falso  prodotto sarà entrato nella realtà sociale, costruita, in cui tutti tranquillamente vivono.

(Si veda anche l'esempio nella parte finale del punto 124 del Menu)

Per un ulteriore chiarimento di alcuni concetti:
http://www.dif.unige.it/epi/hp/penco/did/lez04/910lez.pdf

 

065. Contestualizzazione: si, no, quando

Molto spesso, nel citare documenti - i cui effetti si sono protratti per secoli -  quali Decreti TeodosianiSummis Desiderantes Affectibus, Malleus Maleficarum, Romanus Pontifex, Dum Diversas, Concilio Lateranense IV, Cum Nimis Absurdum, Caeca et Obdurata, Hebraeorum Gens,  Ab Extirpanda e diversi altri della Chiesa Cattolica (lungi dal voler trarre, e non lo traggo, un giudizio storico complessivo negativo su di essa, odio le facili banalizzazioni) mi trovo confrontata con un invito alla "contestualizzazione", che nei casi specifici altro non è che una gravissima forma di relativismo etico, quale alternativa al negazionismo. Su questa base non vi è crimine della storia passata che non possa  essere giustificato, in quanto accade assai di rado che si uccida o discrimini o torturi per il puro piacere di farlo, bensi per la difesa di un potere costituito o il mantenimento di un privilegio. Senza contare il fatto che tale tipo di "contestualizzazione" viene da taluni operata anche per il presente (si veda il punto 84 del Menu). Propongo quindi questo magnifico articolo a delucidazione del tema.

 IL FOGLIO di venerdì 25 febbraio 2005 pubblica a pagina 2 dell'inserto una risposta di Giorgio Israel alla difesa dell'Inquisizione tentata, con argomenti tanto inconsistenti quanto pericolosi, da Vittorio Messori sul CORRIERE DELLA SERA.

 Ecco l'articolo:

 "Chiunque mastichi un minimo di storiografia sa che l’analisi storica deve fare riferimento al contesto concettuale, culturale, sociale, economico, politico degli eventi in oggetto. Se uno storico della scienza valutasse la meccanica aristotelica con il metro di quella einsteiniana, e non nel quadro della concezione del mondo in cui era inserita, non sarebbe un serio cultore della disciplina. Tuttavia, quando la questione esaminata è suscettibile anche di una valutazione etica il giudizio deve biforcarsi: perché voler "contestualizzare" anche sul piano etico significa confondere banalmente il relativismo culturale con il relativismo etico, e credere o far credere che dal primo derivi necessariamente il secondo. Al riguardo, una lezione esemplare ci è data dalle celebri conferenze Unesco di Claude Lévi-Strauss sul razzismo (1952 e 1971), in cui egli riuscì a tenere perfettamente dritto il timone fra l’approccio scientifico – che, in antropologia, egli riteneva doversi ispirarsi al relativismo culturale – e l’impegno morale contro il razzismo. Naturalmente è anche lecito assumere delle posizioni di relativismo etico, ma ciò non discende affatto da prescrizioni di rigore storiografico – e, oltretutto, neppure questo deve necessariamente aderire alle prescrizioni del relativismo culturale. Chi non aderisce al relativismo etico sa benissimo contestualizzare storicamente gli eventi senza per ciò "giustificarli" moralmente. Anzi, il relativismo etico è una visione molto più fragile del relativismo culturale, perché deve fare i conti con l’evidente persistenza storica di alcuni principi morali assoluti, per quanto essi siano stati violati nel corso della storia reale: accanto a dittatori e sterminatori si è sempre manifestata la presenza di personaggi che, alla maniera di Socrate, hanno riaffermato i principi fondamentali del rispetto della vita umana e della tolleranza. Queste sono cose ovvie e note non soltanto ad ogni storico degno di questo nome, ma semplicemente ad ogni persona ragionevole. Ma ora, nel nostro orto italiano, dobbiamo constatare che il dibattito che si è svolto di recente sul Corriere della Sera a proposito delle conversioni forzate dei bambini ebrei e delle responsabilità di Papa Pio XII al riguardo, ha avuto la funzione di intorbidare le acque in modo devastante. Esso ha avuto il suo culmine nell’affermazione – titolata a scatola – "Non giudicate Pio XII, era figlio del suo tempo", avanzata con stupefacente leggerezza e senza rendersi conto che così si apriva il vaso di Pandora ed era ormai legittimo riscrivere la frase con una "x" al posto di Pio XII, e quindi diveniva legittimo sostituire la "x" con un nome qualsiasi: Hitler, Stalin, Pol Pot, e quant’altri. In tal modo, si è fornita una parola d’ordine a chi vuol giustificare quel che più gli sta a cuore: "contestualizzare". Di tale parola d’ordine si è appropriato Vittorio Messori, il quale ha offerto, sempre sul Corriere, una contestualizzazione-giustificazione nientemeno che della Santa Inquisizione. Sotto l’occhiello "No agli anacronismi", egli ha propinato l’ormai consueta ammonizione: "Lo storico serio deve evitare qui, come ovunque altrove, il peccato mortale, quello di anacronismo. Il passato, cioè, va valutato secondo le sue categorie, non secondo le nostre". E quali erano le categorie morali, etiche che ispiravano i tribunali della Santa Inquisizione e che rendono possibile oggi comprendere e persino giustificare i loro intenti? Esse si basavano sulla "necessità di proteggere la vita sociale, la cui tranquillità si basava su una fede comune", mossi com’erano quei tribunali "dall’ansia sincera di praticare la più alta delle carità, quella spirituale". Aggiunge Messori che la Chiesa si comportava come le autorità sanitarie odierne, che "considerano loro dovere la tutela della salute dei cittadini". Analogamente, la Chiesa era mossa dal senso di responsabilità di "dover rispondere a Dio della salvezza eterna dei suoi figli": "salvezza messa in pericolo dal più tossico dei veleni: l’eresia". Insomma, come le Asl odierne dispensano il vaccino anti-influenzale, così la Chiesa dispensava il fuoco per salvare l’anima dei suoi figli. Sproporzione di mezzi? Non tanto. Volete mettere una banale influenza col "più tossico dei veleni: l’eresia"? Ed è certamente a causa di questa sproporzione dei mali che, mentre la Asl non ha neppure il potere di inviare a casa nostra i suoi addetti per immobilizzarci e praticarci, volenti o nolenti, la benefica puntura, la Santa Inquisizione aveva invece il diritto di salvare l’anima della gente bruciandola. Simili (s)propositi non meriterebbero una sola parola in più. Ma è interessante dire qualcosa circa gli argomenti storiografici con cui Messori compie questa rivalutazione, pur ammettendo – bontà sua – che non si tratta "di passare dall’esecrazione all’ammirazione". Questi argomenti si riducono al riferimento a una frase di Luigi Firpo, in cui questi affermava che "i processi erano contrassegnati da una grande correttezza formale e da una rete di garanzie inimmaginabili per i tribunali laici dell’epoca". Il carattere al contempo esilarante e scandaloso di una simile affermazione è che in essa sparisce la questione di sostanza: e cioè che quei processi venivano fatti per reprimere manifestazioni di eresia, di appartenenza a un’altra fede religiosa o di stregoneria. Che senso ha parlare di "garanzie" e di "correttezza formale" in un processo il cui oggetto sia l’accusa di stregoneria o di eresia? E non si venga a dire che queste erano le categorie dell’epoca. I signori "contestualizzatori", se avessero una frequentazione con la storia improntata a un minimo di serietà, saprebbero che le frenesie purificatrici dell’Inquisizione in Spagna sono state combattute o almeno frenate da molte autorità e re cristiani, che cercarono in tutti i modi di proteggere i loro cittadini "eretici" e fedeli di altre religioni. Esisteva, eccome, chi aveva la coscienza della criminalità di queste forme di difesa della fede. E poi, quanto alle garanzie, stendiamo un velo pietoso. Anche la celebre contesa teologica medioevale fra il rabbino catalano Nachmanide e il predicatore Pablo Christiani fu organizzata con dovizia di garanzie. Queste consistevano nel fatto che ogni giorno veniva trascinata nella sala una turba di ebrei convertiti a forza, affinché inveissero contro Nachmanide.Cionostante, questi tenne i nervi saldi e la disputa – come mostrano i documenti – finì con una disfatta di Pablo Christiani. La grande correttezza e le inimmaginabili garanzie diedero allora una suprema prova di sé: se Nachmanide non avesse tagliato la corda, sarebbe stato messo a morte. Messori adduce anche come argomento l’esiguità del numero degli uccisi in rapporto ad altri eccidi storici, e se la prende vivacemente con "Il Manifesto" che ha attaccato una trasmissione Rai per aver riabilitato l’Inquisizione, osservando che certe prediche non possono essere accettate quando provengano da chi scriva sotto la testata "quotidiano comunista". E’ l’unico punto su cui ha qualche ragione, ma soltanto nel senso in cui, come dicono i francesi, a lui e al Manifesto occorrerebbe "les renvoyer dos à dos", ovvero considerarli come due facce della stessa medaglia. Quanto all’aspetto prettamente storico, ovvero alla faccenda del numero dei massacrati, sarebbe opportuno approfondire il discorso con serietà e non fare "anacronismi". Confrontare con il comunismo e il nazismo? Ma allora il "peccato mortale" dell’anacronismo si può commettere, quando ciò torni comodo? Sono paragoni assolutamente privi di senso, perché se c’è una caratteristica che fa dello sterminio nazista degli ebrei un evento unico è il ricorso a metodi scientifici ispirati alle forme della moderna organizzazione industriale, e questo è vero anche del Gulag, sia pure nel contesto di una finalità non razziale. La Santa Inquisizione non disponeva di siffatti metodi e mezzi scientifici industriali. E’ però indubbio che ce l’ha messa tutta. Compatibilmente con la lentezza dei processi, che dovevano proiettare un’immagine di "legalità", con il tentativo di estorcere (con la tortura) "confessioni" da esibire all’esterno come argomenti a sostegno del trionfo della fede, e con la macchinosità delle procedure delle esecuzioni, la "performance" è stata di straordinaria efficacia. Ricordiamo alcuni dati – da offrire non tanto a Messori, che riteniamo irrecuperabile – quanto alle numerose persone, cattoliche e non, che ragionano con obiettività e senza pregiudizi. Sono dati relativi alla sola città di Saragozza e dintorni, nel periodo che va dal 1483 al 1502, e si riferiscono soltanto agli ebrei. Dai registri, risultano consegnati al braccio secolare per essere bruciati "in persona", oppure "nelle ossa" – in seguito a morte per svariate cause, a cominciare dalla tortura – oppure "in effigie" in quanto fuggiti (il numero meno consistente), 164 persone, in quanto "eretici giudei" (i propalatori del "più tossico dei veleni"). Furono poi condannati al fuoco, nel solo periodo 1482-1499, altri 73 ebrei in quanto rei "confessi" di eresia. Il numero dei convertiti ("conversos") più blandamente condannati a pene non capitali – per lo più il carcere a vita – ammontano a 116. Lasciamo immaginare a quali risultati può portare la proiezione di questi dati all’intera Spagna e a tutta la popolazione, non soltanto a quella ebraica (e a un periodo più lungo).

Se potessimo rubare una pagina al giornale ci piacerebbe elencare quei nomi uno ad uno: Alonso de Rivera, medico, eretico giudeo, consegnato in persona al rogo il 12 marzo 1488; Gabriel Lençon, fabbricante di candele, eretico facitore di sortilegi, consegnato in persona al rogo il 16 giugno 1501;Mossen Pedro Monfort, vicario generale dell’Arcivescovado, eretico giudeo, consegnato in persona al rogo il 28 aprile 1486; Joan Pedro Sanchez, mercante, eretico giudeo, fuggitivo, consegnato in statua al rogo il 30 giugno 1486; Xbopal Pelayo, sarto, eretico giudeo, defunto, consegnato nelle ossa al rogo il 30 giugno 1485; Marieta moglie di Aznar Perez, strega, consegnata in persona al rogo il 28 gennaio 1500; ecc. ecc. per 353 volte. Ricordare tutti questi nomi sarebbe un modo per risarcirli dell’offesa che dopo cinque secoli viene ancora portata alla loro memoria. Se Messori nutrisse in sé un briciolo di carità cristiana, dovrebbe recarsi in pellegrinaggio in tutti gli archivi di Spagna e d’Europa e dedicare qualche anno a costituire un grande Yad Vashem dei martiri dell’Inquisizione: dico Yad Vashem per analogia, ma non penso affatto agli ebrei soltanto. Sarebbe un risarcimento reso alla storia e alla morale e un modo di impiegare il tempo più degno che non imbrattare giornali rispettabili. E, per l’immediato, una proposta: al bando per un certo periodo, fino a che non si richiuda il vaso di Pandora, la parola "contestualizzare"

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=12914

Aggiungo le seguenti considerazioni personali cui sono giunta attraverso il contributo dei miei interlocutori sul tema:

Ricordiamo che secondo le Scritture i cristiani non sono del mondo (Giovanni 15,18-21), pertanto giustificare  certe azioni usando come pretesto la situazione culturale di una determinata epoca equivale a definire non cristiano chi le ha compiute. Soprattutto considerando il fatto che i Vangeli propongono un messaggio senza tempo (universale) di pace e amore,per molti versi originale, e del tutto incompatibile, oggi come allora, con determinati comportamenti.

Ora, facendo finta che la Chiesa non si ponga come un istituto di ispirazione divina e si ritenga uguale a qualsiasi altra forma di potere, si deve prendere seriamente in considerazione quanti argomentano affermando che nessuno solleva obiezioni di carattere etico riguardo a faraoni o imperatori romani ad esempio. Ci ho pensato anche io. Ritengo che la valutazione di un sistema politico/giuridico possa anche ricorrere al confronto con gli altri del tempo oppure con la situazione precedente. Mi spiego: per quanto riguarda l'Inquisizione ad essere contestata non è tanto la pena di morte o la tortura (che tutte le società del tempo per reati quali l'omicidio e simili adottavano e nonostante Gesu' dica "scagli la prima pietra chi...") ma la pena di morte e la tortura riguardo all' introduzione di un NUOVO tipo di reato, quello di fantasia (Summis Desiderantes Affectibus, sulla stregoneria: è assai difficile addurre prove a sostegno del fatto che non si stia complottando con il demonio) e quello di opinione (eresie, per le quali era parimenti prevista la pena di morte), che MAI prima era stato reso  istituzione. Da qui il regresso (si pensi solo alla civiltà greca, la cui tolleranza permise il fiorire della filosofia, ovvero di centinaia di diverse correnti di pensiero, laddove il capovolgimento di questo spirito, grazie al quale sorse il primo sistema democratico (si veda il punto 44 del Menu) della storia, è simboleggiato proprio dall' index librorum prohibitorum, che rappresenta l'introduzione nella storia della censura quale istituzione). Senza contare il fatto che ad esempio gli eccidi di Caligola vengano da tutti giudicati eticamente riprovevoli rappresentando un regresso della società romana del tempo in fatto di valore e dignità umana. E che nessuno giustifichi le persecuzioni dei primi cristiani, condannati a morte, anche se dovrebbe valere la medesima logica: l'impero romano in fin dei conti doveva salvaguardare il proprio potere e la propria identità culturale da quanti la minacciavano.

A proposito dell'articolo di Giorgio Israel, in sé praticamente perfetto, vorrei portare un esempio storico preciso che costituisce un sostegno ulteriore alla sua tesi (in ogni tempo sono esistite persone in grado di percepire i valori universali della dignità umana).  Non entrerò nei dettaglio, ma invito chi ne avesse voglia a documentarsi sul dibattito interno ai riformati seguito alla condanna al rogo di Michele Serveto (1553), con Castellion che la disapprovava in nome della tolleranza e sulla base di testi di famosi intellettuali cristiani ("De haereticis an sint persequendi", 1554) e Calvino che, dopo averla favorita di fatto, ne difendeva la la liceità di diritto ("Defensio ortodoxae fidei", 1554).

« Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo. Quando i ginevrini hanno ucciso Serveto non hanno difeso una dottrina, hanno ucciso un uomo. Non spetta al magistrato difendere una dottrina. Che ha in comune la spada con... la dottrina? Se Serveto avesse voluto uccidere Calvino, il magistrato avrebbe fatto bene a difendere Calvino. Ma poiché Serveto aveva combattuto con scritti e con ragioni, con ragioni e con scritti bisognava refutarlo. Non si dimostra la propria fede bruciando un uomo, ma facendosi bruciare per essa » - Sebastiano Castellione (Saint-Martin-du-Frêne, 1515 – Basilea, 1563), teologo francese, tra i primi e più importanti sostenitori della tolleranza religiosa.

Ancora oggi taluni "constestualizzano" l'atroce morte di Giordano Bruno (che al contrario di Galileo***non volle abiurare), nonostante persino un Pontefice nel 2000 abbia espresso un certo "rammarico".

Un "argomento" talora portato avanti è  quello del "garantismo". I processi alle streghe sarebbero stati necessari per prevenire i linciaggi. Ebbene, procediamo per analogia: al fine di evitare linciaggi del Ku Klux Klan introduciamo  il reato di negritudine, affinchè i neri possano essere impiccati legalmente anzichè su strada in modo disordinato. Ancora una volta si confonde volutamente tra vittime e carnefici, in quanto ad essere contemplati in una tipologia di reato dovrebbero essere gli artefici del linciaggio e non le vittime di esso, che assai difficilmente del resto potevano addurre prove per il fatto di non essere possedute dal demonio....A riprova della fondatezza del discorso di Israel, anche nel caso delle streghe (=in ogni epoca vi furono menti in grado di percepire e comprendere la barbarie) cito volentieri Johann Wier (1515-1588) il quale contestò la pena di morte per le streghe, e pubblicò anche alcuni commenti di autorevoli lettori: il teologo Anton Hovaeus,(+1568) elogiando l'autore, sottolineava come la caccia alle streghe non avesse giustificazione teologica; il medico Balduinus Ronsseus (1525-1596) rilevava come le donne accusate fossero in realtà malate di nervi, Johann Ewich (1525-1588) deprecava che giudici e teologi facessero confusione tra eresia e stregoneria, mentre un altro medico, Carolus Gallus (1530-1616), confermava come il fenomeno della stregoneria avesse origini psichiche o alimentari  e l'umanista Theodor Zwinger (1533-1588) sottolineava l'importanza della libera diffusione della cultura e del rinnovamento delle scienze al fine di debellare superstizioni e pregiudizi.

Per quanto riguarda invece il negazionismo e il revisionismo riporto volentieri il seguente brano tratto dalla prefazione alla "Storia dell'Inquisizione" (C. Havas):

“(…) ovviamente anche uno storico può avere propri, rispettabili moventi. Quello che è inaccettabile è che dalla sua opera scaturisca la banalizzazione di un crimine. Distorsione peggiore della negazione e dell’apologia, perché nega personalità a chi l’ha subito”

IL REVISIONISMO E NEGAZIONISMO

“i saggi di tipo revisionista oscillano tra la riabilitazione e l’apologia dichiarata del Sant’Uffizio. Quasi tutti si aprono con la solenne dichiarazione che la “leggenda nera” dell’Inquisizione è definitivamente sfatata. Seguono le argomentazioni, che provo a sintetizzare: le vittime degli Inquisitori furono meno numerose di quanto si è finora creduto; l’Inquisizione era molto meno crudele della coeva giustizia civile, e offriva all’imputato maggiori garanzie; i sovrani perseguitavano gli eretici e le cosiddette streghe con severità maggiore di quella dispiegata dal Sant’Uffizio; i manuali procedurali restavano per lo più lettera morta; gli inquisitori erano gente dabbene, sinceramente preoccupata della conversione degli imputati: il ricorso alla tortura era occasionale, e riguardava solo adulti maschi in buone condizioni fisiche; e così via (…)

Quasi nessuno dei revisionisti odierni tenta di mettere mano a una storia complessiva dell’Inquisizione. La base sono ricerche locali e circoscritte sul piano temporale. Invece, il bersaglio sono due opere che hanno il carattere della generalità: La History of the Inquisition in the Middle-Age e la History of the Inquisition of Spain di Henry-Charles- Lea (non viene più presa in considerazione l’antica bestia nera, la Historia critica de la Inquisition in Espana, di Juan Antonio Llorente, che già Lea si era incaricato di emendare). Un’obiezione ricorrente mossa a Lea è quanto meno bizzarra. Il grande storico statunitense non avrebbe condotto tutte le proprie ricerche in prima persona, ma avrebbe sguinzagliato per la Spagna e per l’Europa un manipolo di aiutanti. La bizzarria dell’accusa sta nel fatto che la maggior parte degli accademici che ho citato ha seguito lo stesso metodo, peraltro conforme alle modalità attuali della ricerca universitaria. Le teorie:

1) la conta arbitraria delle vittime: la storiografia detta quantitativa avrebbe molte responsabilità in questo “misfatto”…l’Inquisizione ha avuto periodi di virulenza e altri di quiete, in cui ha quasi cessato di esistere. Basterebbe scegliere un lasso temporale abbastanza lungo per dimostrare che i condannati furono una percentuale esigua dei processati. Fissati i primi in un 1-1,5% si potrà dire che il Sant’Uffizio era portato all’”indulgenza”. È un geniale ma palese travisamento. Prendiamo una pagina dell’introduzione di un’autorità del campo, Franco Cardini, alla riedizione 1998 del Manuale dell’Inquisitore dei Bernard Gui. Il noto medievalista snocciola dati raccolti da varie ricerche, per accreditare la tesi secondo la quale la repressione dei tribunali ecclesiastici “fu meno pesante in essi che in quelli laici”. Tra la successione delle cifre, tutte parziali e riferite a periodi circoscritti (o addirittura a organi estranei al Sant’Uffizio, come la cosiddetta Inquisizione Veneziana), ma idonee a colpire il lettore, l’ultima sembrava particolarmente eloquente “in Sicilia si tennero 2.000 processi tra il 1537 e il 1618, ma i condannati a morte furono 29”. Un’inezia, evidentemente. Però – caso rarissimo – dell’Inquisizione Siciliana (appendice di quella spagnola) ci sono giunti quasi integralmente i registri delle condanne riferiti al periodo che va dal 1487 al 1732. Conosciamo i nomi dei condannati, la colpa loro attribuita (si trattava nella maggior parte dei casi di neofiti, cioè di ebrei sospettati di praticare la religione di origine, malgrado la conversione forzata al cristianesimo) e i dettagli dell’esecuzione, talora in effigie, talaltra sul rogo. Bene, è facilissimo notare che, dal 1534 in poi le condanne capitali calano drasticamente di numero. Ma cio NON è affatto vero per gli anni precedenti. Tra il 1511 e il 1533, salvo anni isolati, le condanne sono numerosissime. Prendiamo il 1527, anno di caccia grossa, ma nemmeno il peggiore. Vengono bruciati vivi, in fastose cerimonie di piazza, Angelo da Sassari……Si tratta di 9 persone ( a cui se ne dovrebbero aggiungere altre 27 condannate a morte ma bruciate in effigie perché latitanti). Se fosse valida la percentuale dell 1% ci sarebbe da supporre che l’Inquisizione Siciliana abbi a celebrato quell anno 900 processi. Cifra destituita di ogni credibilità. Insomma, basta prendere a riferimento l’anno giusto per dimostrare ciò che si vuole. Ma ha senso un’operazione contabile del genere? Le persone citate erano uomini e donne in carne ed ossa, bruciati vivi, dopo una serie interminabile di umiliazioni e tormenti, perché erano o erano stati ebrei!!!! …l’importante è sfatare la “leggenda nera”.
2) La disomogeneità di tempo e luogo. I negazionisti dell’Olocausto nazista hanno buon gioco nel dimostrare che in questo o quel campo di concentramento non esistevano camere a gas…Ora…mi sembra che quando alcuni storici (per esempio Kamen e Henningsen) fanno leva sul fatto che l’Inquisizione spagnola nn si sia data alla caccia delle streghe per trarne conclusioni di carattere generale, si accostino, consapevoli o meno, alla metodologia “negazionista”. Si, gli inquisitori spagnoli del Rinascimento trascurano le streghe, ma si dedicano agli ebrei; quelli romani non si accaniscono (troppo) sugli ebrei, e perseguitano invece i luterani e gli omosessuali; quelli dei Paesi Bassi ignorano gli omosessuali e infieriscono invece sulle streghe; e così via. Ma il problema non è giudicare questa o quella filiale del Sant’Uffizio per ciò che non hanno commesso. A meno che il fine inespresso della ricerca non sia la semplice assoluzione complessiva dell’Inquisizione, e non si ritenga il gioco delle tre carte il metodo più adatto allo scopo (n.d. Silvia: si veda anche la Summis Desiderantes Affectibus).
3) L’assoluzione del mandante. Certo “negazionismo” (David Irving e altri) non mette troppo in discussione la realtà dell’Olocausto; si limita a negare che si trattasse di un piano di sterminio, e soprattutto che Hitler ne fosse al corrente. È preoccupante l’analogia con chi, nel campo infinitamente più nobile degli studiosi dell’Inquisizione, cerca di scindere tra loro le varie realtà locali, fino a negare la responsabilità dei papi in ciò che avveniva alla periferia della chiesa. Per esempio, presentando l’Inquisizione spagnola come un fenomeno totalmente indipendente dalla volontà dei pontefici… anzi con lettere datate 3 aprile 1487 Innocenzo VIII invitò i principi d’Europa ad assecondare la creatura di Torquemada anche entro le loro frontiere. Nella stessa categoria giochi di prestigio rientra la costante contrapposizione tra giustizia ecclesiastica, moderata, e giustizia civile, incline agli eccessi e crudeltà. Ora, se parliamo di Sant’Uffizio, non è il caso, come fanno alcuni, di citare la cosiddetta Inquisizione veneziana quale esempio di clemenza, visto che con la macchina allestita dai papi per la repressione della dissidenza (n.d. Silvia: diversita di opinione, per cui era prevista la pena di morte, come per gli omicidi quindi, cui era equiparata, come mai successo nelle civilta precedenti) non c’entrava nulla. Se invece parliamo di giustizia ecclesiastica, è più onesto ricordare che molto spesso, nei tribunali civili, sedevano religiosi e prelati, obbedienti alle direttive provenienti dal pontefice. Esiste una figura di cattolico…padre gesuita Friedrich von Spee (1591-1635), non era un inquisitore ma un religioso membro dei tribunali civili allestiti dai principi tedeschi per reprimere la stregoneria…disgustato dalle atrocità di cui fu testimone, lo denunciò in un testo, la Cautio Criminalis…da esso apprendiamo che i piu feroci persecutori di donne erano principi-vescovi, ecclesiastici insomma. Ma vi apprendiamo anche che i giudizi erano ispirati ai manuali che altri ecclesiastici avevano scritto (Binsfeld, Del Rio, Institor e Sprenger etc). (n.d. Silvia: si veda ancora Summis Desiderantes Affectibus e Malleus Malleficarum). La comoda favoletta del capo (il papa o Stalin o Hitler) che ignora l’operato di esecutori troppo zelanti….
4) La comprensione per i carnefici, il disprezzo per le vittime. Leggiamo in Benassar che non pochi inquisitori “potevano amare la musica, la danza…e se fra di essi vi erano dei sadici, altri erano accessibili alla pietà…”. Ora, immaginiamoci la tortura di una di quelle donne ebree, per esempio Pace di Xurtino. Viene dal carcere duro (murus arctus), provata dalla sofferenze. L inquisitore la trova reticente e decide di sottoporla alla quaestio. Per prima cosa la fa denudare completamente perché cosi, senz’altro motivo che non sia l’umiliazione della vittima, prescrive la procedura. Poi le fa legare i polsi e sollevare dal suolo per mezzo di una carrucola. Le braccia paiono slogarsi (anche se si tratta solo di una sensazione). La donna urla, piange si contorce. Si ricomincerà piu tardi o il giorno dopo….d altra parte vediamo come il domenicano Bernard Gui …descrive l’esecuzione dell’eretico Dolcino e della sua compagna “detta Margherita fu tagliata a pezzi sotto gli occhi di Dolcino; poi costui fu a sua volta tagliato a pezzi. Le ossa e le membra dei due suppliziati furono gettate tra le fiamme…era il meritato castigo per il loro crimini”. Il compiacimento mal si accorda con la mitezza degli storiografi revisionisti…Henningsen ci ha spiegato con abbondanza di dati come le streghe godessero di garanzie moderne, a partire dall avvocato difensore…così va completamente perduto il dato centrale che le streghe intese quali adoratrici del demonio, non sono mai esistite…le poverette trascinate in prigione, sottoposte a processo, tormentate in varie forme, non erano affatto streghe, erano donne e basta, che non avevano commesso nulla. Al massimo, avevano venduto erbe medicamentose…Che poi godessero di un difensore non attenua affatto la colpa originaria dei giudici, intenti a processare crimini di fantasia (n.d.Silvia: anche questo caso unico nella storia, l istituzionalizzazione dei crimini di fantasia).
5) La svalutazione delle testimonianze e delle fonti. Ovviamente solo di quelle che contrastano con le teorie revisioniste. Le storie documentate e imponenti di Lea sono state denigrate con tale foga …il maggiore storico che gli Stati Uniti abbiano finora prodotto. Le ricerche locali non conformi vengono sistematicamente ignorate. Ma l’operazione più sottile e ardua è stata quella di asserire e propagare l’idea che i manuali a uso degli inquisitori restassero per lo più lettera morta…se ciò fosse vero, non si capirebbe poi come mai tanti verbali di processi (tra cui quello più completo ed eloquente a Gostanza, la strega di San Miniato, resituitoci da Franco Cardini in una bellissima edizione) rispecchino fedelmente le indicazioni manualistiche; come mai gli autori ripetano nei secoli le stesse prescrizioni, e il Malleus Malleficarum di Institor e Sprenger copi il Directorium Inquisitorum di Nicolau Eymerich, questo a sua volta riprenda interi capitoli della Practica Inquisitionis di Guy e così via; come tutta questa letteratura sia stata tante volte ristampata. Sterile esercizio intellettuale, nascita di un genere narrativo bizzarro senza ricadute concrete? Ne dubito molto; anzi sono convinto che la ricaduta concreta ci fosse: quei libri uccidevano. "

Sul tema revisionismo si veda anche il numero 25 del Menu.

***Abiura di Galileo Galilei /Letta il 22 giugno 1633

Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d'essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d'ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.

Giuro anco e prometto d'adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da' sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate.

Così Dio m'aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.

Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.

Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.

(nel seguente link il testo della condanna del Sant'Uffizio):
http://www.minerva.unito.it/Storia/GalileoTesti/GalileoSentenzaOriginale.htm

 

 


 


 

 

064. Internet, TV e cervello




p r e n d e t e  il   t e l e v i s o r e, avvicinatevi alla finestra che dà sul retro di casa vostra, accertatevi che non vi siano passanti e buttatela giù.

«Leggendo sui quotidiani che gli investimenti pubblici per la banda larga sono passati in due anni da un miliardo e trecento milioni di euro a 70 milioni di euro, giuro che ho pensato a un refuso. «Saranno 700 milioni», ho pensato, e già sarebbe stato gravemente significativo un dimezzamento dei quattrini destinati a dotare anche l’Italia di una rete Internet adeguata ai tempi. Ma no, non era un refuso. Sono proprio 70 milioni. È il gruzzolo che rimane dopo ripetuti dirottamenti di fondi statali verso il digitale terrestre, cioè verso la televisione. Indipendentemente da ogni sospetto, o illazione, o documentata notizia sui destinatari del lucroso (e obbligatorio) passaggio dall’analogico al digitale terrestre, rimane l’oggettiva volontà politica di favorire la televisione rispetto a Internet. La differenza tra i due media è evidente e risaputa: la televisione è controllabile dall’alto, specie in un Paese nel quale coincidono potere politico e potere televisivo. Internet è incontrollabile, come dimostrano le recenti insurrezioni giovanili e urbane nell’Africa del Nord, in buona parte nate e alimentate in rete. Avvantaggiare la prima e ostacolare il secondo è una scelta politica di enorme impatto sul presente e soprattutto sul futuro, così come decidere di costruire autostrade piuttosto che ferrovie. Rendiamocene conto: il potere berlusconiano sta giocando, quasi tutte assieme, le carte con le quali cerca di chiudere la sua partita» -  (Michele Serra, dall'"Amaca" del 12 marzo 2011) -

Colgo l'occasione quindi per parlare di Internet come utile strumento di verifica dei modelli di propaganda:

Popper ha evidenziato come il carattere saliente della democrazia consista nella possibilita di rovesciare un governo senza spargimento di sangue. E Chomsky ha descritto come in un governo democratico i cittadini non possano essere controllati mediante l’impiego della violenza bensi attraverso il controllo delle menti (fabbrica del consenso e modello di propaganda). Pertanto il modo in cui i cittadini hanno accesso alle informazioni, il modo in cui essi sono messi in grado di formare le proprie preferenze costituisce la chiave per prevenire la degenerazione della democrazia in oclocrazia.

Internet ha profondamente modificato il modo di condividere le informazioni. I media tradizionali (ed in primis i telegiornali) possono essere e sono facilmente manipolati e controllati dal potere politico. Internet al contrario consente l accesso non filtrato anche a fonti e discussioni “alternative” attraverso siti, blogs, forum e via dicendo. E questo a livello globale. Esso potenzia inoltre quello che dovrebbe essere un altro aspetto fondamentale della democrazia, ovvero la coscienza civica esprimentesi attraverso il dibattito, la discussione, la partecipazione attiva a quelli che sono gli interessi della collettivita. Putnam disse che quanto piu le persone sono separate le une dalle altre, tantoppiu diminuisce l impegno politico. Con internet il cittadino cessa di essere un mero consumatore di informazioni (leggere un giornale) ma diventa soggetto attivo, nel momento in cui é in grado di produrre esso stesso un argomento, o di modificarlo o di sceglierlo. Attraverso Internet é data inoltre un’ulteriore e significativa possibilita associativa (cause comuni).

A quanto detto desidero aggiungere che su Internet è assai difficile mentire. Mentre in tv il tempo a disposizione è assai esiguo e spesso bisogna presentare una determinata tesi nel giro di pochi minuti (a volte l argomentazione per slogan è anche causata dalla limitatezza del tempo a disposizione), alla quale in pochi minuti si deve controbattere, sul web il tempo è illimitato, è possibile fare adeguate ricerche, rispondere o prendere posizione quando si desidera e proseguire un dibattito sinchè è necessario per l'accertamento della Verità.

 

063. Lasciar fiorire tutte le vite



Propongo sul tema dell' antispecismo questo eccezionale articolo di Antonio Vigilante, saggista e insegnante di Filosofia, comparso sulla rivista Diogene Magazine, numero marzo-maggio 2011
www.diogenemagazine.eu
 
LASCIAR FIORIRE TUTTE LE VITE

"Le due posizioni più note nel dibattito sui diritti degli esseri non umani sono quelle dei filosofi Peter Singer e Tom Regan. Il primo, nell'ambito di un utilitarismo della preferenza (secondo il quale è bene ciò che soddisfa le preferenze di tutti gli individui coinvolti in una scelta morale), afferma che non è possibile non tener conto della capacità di soffrire di molti esseri viventi non umani. Gli animali hanno diritti perchè capaci di soffrire esattamente come gli esseri umani, anche se non dotati delle stesse capacità razionali;negarlo, e trattare gli animali come cose, vuol dire abdicare alla ragione in favore del pregiudizio.

Regan ha elaborato invece una teoria generale dei diritti morali degli animali, che considera dotati di diritti, e quindi meritevoli di rispetto: tutti gli esseri viventi  hanno un valore intrinseco, e non meramente strumentale. La prima parte del suo saggio "I diritti animali" (1983) è dedicata a mostrare che gli animali sono esseri non solo capaci di soffrire, ma in grado di esprimere preferenze, di osservare il mondo da un proprio punto di vista, di avere una vita buona o non buona; che sono, in altri termini, soggetti, e non meri strumenti. Entrambe le posizioni comportano qualche difficoltà. L'etica di Singer, ad esempio, considerando fondamentale la capacità di avvertire dolore, non riesce a giustificare il valore di quelle forme di vita che di tale capacità sono prive. In questo modo, si salvaguardano gli essere senzienti, ma resta escluso il mondo vegetale.

Il criterio è in fin dei conti ancora antropocentrico, poichè la sofferenza è una delle realtà più significative della vita umana, e non è difficile provare empatia anche nei confronti di un animale, se ci si accorge che sta soffrendo (non a caso la realtà dei macelli è ben celata ai consumatori). Non molto diverso è il procedimento di Regan, il cui sforzo è teso a dimostrare che anche gli animali sono soggetti di vita, dotati delle stesse qualità (autocoscienza, capacità di avere interessi e preferenze, proiezione verso il futuro) in base alle quali riconosciamo il valore intrinseco di ogni appartenente alla specie umana. Ciò che accomuna le tesi di Singer e di Regan è il ricorso a un procedimento analogico, che fa leva sulla somiglianza dell'animale con l'uomo, con la conseguenza di non riuscire a sostenere il valore morale di una vita caratterizzata da una radicale differenza dall'umano. Un approccio ai diritti umani che può essere interessante proprio per la considerazione della differenza è quello che la filosofa Martha Nussbaum ha tentato applicando le categorie del pensiero socioeconomico di Amartya Sen. L'economista e premio Nobel riflette sul concetto di capacità, intesa come le opportunità che si hanno di operare scelte riguardanti la propria vita, la possibilità reale che i soggetti hanno di perseguire l'ideale di una vita degna di essere vissuta. Non occorre una considerazione particolarmente approfondita della realtà mondiale attuale per rendersi conto che esiste un divario fortissimo tra pochi paesi ricchi, che possono offrire ai loro cittadini ampie possibilità di scegliere la vita che preferiscono (non senza, occorre tuttavia notare, notevolissime differenze tra classi sociali), e paesi poveri, i cui cittadini sono obbligati a un'esistenza mutilata, spesso non degna di un essere umano. Nelle diverse aree del mondo cambia anche, in verità, l'ideale di una vita degna di essere vissuta, poichè cambiano le concezioni filosofiche, gli usi, le tradizioni. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani afferma principi universali senza tener conto delle differenze culturali, ed è questo probabilmente il suo limite principale. Anche per questo l'approccio di Sen si rivela importante. Riprendendolo, Nussbaum redige una lista di capacità fondamentali che ogni governo dovrebbe garantire ai propri cittadini, e che vanno dalla vita alla salute al gioco al controllo dell'ambiente.

A differenza dei diritti, che hanno una formulazione fissa, valida per ogni cultura, la lista delle capacità fondamentali è suscettibile d'integrazioni locali, così come può cambiare il loro ordine. Tra le capacità che Martha Nussbaum ritiene fondamentali c'è anche quella d'interagire con le altre specie, siano esse animali o vegetali, e di vivere in rapporto con il mondo naturale: ciò comporta il dovere dei governi di difendere l'ambiente naturale e la diversità biologica, anche se essi restano in fin dei conti degli strumenti per offrire all'uomo una vita significativa. La particolarità dell'approccio delle capacità, vale a dire la sua apertura alla diversità, consente però anche di tentare una fondazione dell'etica interspecifica. E' quanto Nussbaum ha provato a fare in "Le nuove frontiere della giustizia". L'idea di fondo è che si debba riconoscere ad ogni essere vivente il diritto di vivere una vita soddisfacente, fiorendo secondo le proprie possibilità. L'immagine del fiorire, ricorrente in Nussbaum, indica questa possibilità di uno sviluppo autonomo reso possibile da non intervento umano. La lista delle capacità fondamentali può dunque essere estesa al mondo animale, per avere il quadro delle possibilità animali che l'uomo è tenuto a rispettare ed elaborare in questo modo l'idea di una vita buona animale. Come gli umani, gli animali avranno dunque il diritto di vivere la propria vita fino alla fine, il diritto alla salute e alla integrità fisica, il diritto di fare esperienze piacevoli, di avere una vita affettiva, e così via. Queste affermazioni di principio, che danno vita a un'etica interspecifica apparentemente rigorosa nella difesa della vita animale, si scontrano però con una serie di distinguo che ne limitano fortemente la portata. Il diritto degli animali alla vita, ad esempio, può essere violato tutte le volte che 'vi è un motivo plausibile per uccidere'.E' evidente che è impossibile, anche per il più rigoroso seguace del principio della non uccisione estesa al mondo animale, evitare di sopprimere una vita.

Lo stesso Albert Schweizer, teorico del rispetto per la vita, si trovò di fronte alla necessità di dover uccidere dei pesci per nutrire dei piccoli pellicani cui erano state tagliate le ali. Chiunque si prenda cura delle piante si trova di fronte alla necessità non solo di uccidere dei parassiti, ma anche di estirpare le altre piante - squalificate come erbacce - che infestano i vasi che contengono le specie vegetali preferite per motivi prevalentemente estetici. Proprio perchè è impossibile, a quanto pare, sottrarsi alla necessità di uccidere vite non umane, diventa necessario chiarire quando ciò è lecito e quando no. Un buon criterio può far ricorso appunto alle capacità, e può essere il seguente: è lecito uccidere una vita non umana quando tale soppressione è indispensabile per realizzare una capacità umana fondamentale; in tutti gli altri casi l'uccisione non è lecita. Il problema è, in questo caso, quello di circoscrivere le capacità umane fondamentali, in modo da evitare abusi. Può essere lecito sopprimere una vita non umana se ciò è indispensabile all'uomo per mantenersi in vita o in salute, ma non evidentemente per gioco, pur essendo il gioco una delle capacità umane fondamentali.

Un secondo criterio può essere quello della sofferenza: ogni volta che ci si trovi di fronte alla necessità di uccidere, ed è possibile scegliere, è doveroso scegliere di sacrificare la vita incapace di sofferenza. In questo modo, pur essendo lecito uccidere esseri viventi per nutrirsi (l'alternativa è il suicidio per inedia), è doveroso nutrirsi di vegetali, non perchè le vite dei vegetali siano prive di valore, ma perchè incapaci di sofferenza.

Un altro problema non facile è quello della sterilizzazione. Essa appare ad un primo sguardo come una evidente violazione del diritto all'integrità fisica. Tuttavia Nussbaum afferma che la castrazione dei maschi di alcune specie (cavalli, cani) 'sembra (sulla base di una lunga esperienza' compatibile con la fioritura della vita di questi animali', mentre la castrazione di un uomo è sempre una punizione crudele e inaccettabile. Si fa qui evidente il carattere ancora antropocentrico dell'analisi di Nussbaum. Per quanto sia sicuramente da considerarsi una gravissima violazione dei diritti umani la sterilizzazione forzata (come quella cui sono stati costretti i rom in Svizzera dal 1934 al 1975), è possibile per un essere umano vivere una vita buona anche senza figli, benchè molti considerino la possibilità di avere figli (ricorrendo alle tecniche di fecondazione artificiale) un diritto da rivendicare. Ma si può dire lo stesso per un animale? Si può dire la stessa cosa dei salmoni, che risalgono fiumi per riprodursi nel luogo in cui loro stessi sono nati, e che dopo la deposizione delle uova muoiono di sfinimento? Si può dire che i maschi delle api che muoiono subito dopo essersi accoppiati con la regina non hanno avuto una buona vita? Che pensare del maschio della mantide, che viene divorato dopo l'accoppiamento? Sono infiniti gli esempi di comportamenti animali che fanno pensare alla riproduzione non come a uno dei tanti fatti della vita, ma come cosa particolarmente solenne, per la quale si può anche morire. Se gli umani muoiono (o morivano) per i cosidddetti ideali, gli animali muoiono spesso per riprodursi. Stando così le cose, sterilizzare un animale è forse peggio che ucciderlo: è un pò come lobotomizzare un pensatore o un rivoluzionario, togliendogli così anche il diritto di morire per le proprie idee.

L'approccio delle capacità ha due meriti principali. Il primo è quello di superare l'ottica utilitaristica, in base alla quale (almeno per l'utilitarismo classico, mentre diversa è la posizione di Singer) bisogna giungere alla conclusione che l'uccisione di un animale non costituisce un danno reale per lui, se la morte non avviene in modo doloroso. Una conclusione paradossale alla quale si sfugge se invece si afferma che ogni essere vivente ha il diritto di vivere una vita soddisfacente e di realizzare, almeno in parte, le sue capacità. In questo caso la morte prematura di un animale costituisce un'indubbia violazione dei suoi diritti, così come l'allevamento, soprattutto quello intensivo e industriale, comporta un'inaccettabile limitazione delle capacità degli animali, ridotti a semplici strumenti al servizio dell'alimentazione umana.

Il secondo merito è quello di permettere il passaggio da un animalismo emancipazionista, che cerca di estendere anche agli animali i diritti umani, a un 'animalismo differenzialista', che considera cioè le differenze tra umani e non umani e la loro specificità. Ma si tratta di un discorso ancora in gran parte da fare. In Martha Nussbaum non c'è soltanto una contraddizione a tratti notevole tra un certo massimalismo teorico e la prudenza anche eccessiva delle richieste concrete (macellazione non dolorosa, allevamento e sperimentazione rispettosi della vita animale); c'è soprattutto una lista interspecifica delle capacità che appare modellata su un ideale di vita buona umano, esteso agli animali per analogia.

Non si può che condividere l'ideale di Nussbaum, che è quello di ' vivere decentemente insieme, in un mondo in cui molte specie tentano di fiorire', ma bisogna chiedersi se esso sia compatibile con gli allevamenti, sia pure maggiormente rispettosi della dignità animale (si può parlare decente convivenza tra soggetti, se uno rinchiude e uccide l'altro?), interrogarsi a fondo, con l'aiuto della scienza, su ciò che significa fiorire per ogni specie animale e vegetale e trarre coraggiosamente le conclusioni riguardo ai limiti imposti alla prassi umana di sfruttamento da quel 'sì alla vita', che ogni essere vivente testimonia costantemente, persino quando sacrifica la propria esistenza a fini riproduttivi".

(a completamento, Punti Nr. 59 e 150  del Menu)

 

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